L’operazione condotta dal “Reparto speciale di Polizia” guidato da Pietro Koch all’interno degli edifici del Seminario Lombardo, del Pontificio Istituto di Studi Orientali e del Collegio Russicum, che sorgevano in prossimità della basilica di Santa Maria Maggiore.
Grazie all’ausilio di documenti in parte editi (come le cronache del Seminario Lombardo) ed altri meno noti, tratti dal fascicolo processuale a carico di Pietro Koch, in questo articolo prenderemo in esame questa vicenda cercando di aggiungere qualche nuovo tassello al mosaico di conoscenze su tale episodio. In particolare, come anche questa ricerca s’incaricherà di dimostrare, in questa vicenda emerge il ruolo di primo piano svolto dall’allora rettore del Seminario Lombardo, mons. Francesco Bertoglio e del commissario Angelo de Fiore (tra l’altro entrambi iscritti dal memoriale di Yad Vashem nel novero dei “Giusti tra le Nazioni”), all’epoca dei fatti qui narrati capo dell’Ufficio stranieri della Questura di Roma, che racconta, con dovizia di particolari, tutti i retroscena di questa operazione e il ruolo successivo che svolse per salvare numerosi ebrei e sottrarli alla deportazione in Germania
Nel clima di confusione che regnava nella capitale nei primi mesi dell’occupazione tedesca, presero il sopravvento bande armate non inquadrate in organismi ufficiali che avevano il compito di dare la caccia ai principali esponenti della Resistenza, senza tanti scrupoli, considerato che molti di loro si erano rifugiati all’interno di varie istituzioni religiose dove vigeva il diritto di extraterritorialità.
Nel corso di quegli anni, infatti, l’accoglienza negli ambienti ecclesiastici non conobbe riserve, tanto è vero che numerosi ordini religiosi, sprezzanti del pericolo che correvano, si distinsero in questa opera di ospitalità a beneficio di tutti coloro i quali erano in cerca d’aiuto per sfuggire agli efferati rastrellamenti perpetrati dai nazi-fascisti. Difatti, bisogna tener conto che per chiunque nascondeva o prestava aiuto agli ebrei e agli antifascisti era prevista la pena di morte. Ciò nonostante, oltre ai Palazzi Apostolici, chiese, conventi, collegi e istituti ecclesiastici d’ogni genere, si prodigarono per offrire riparo a quella torma di sventurati che correvano il rischio di essere acciuffati dalle SS e spediti nei vari campi di concentramento.
Proprio per scongiurare questo pericolo, a partire dal 25 ottobre 1943, la Segreteria di Stato della Santa Sede, mediante un’apposita circolare, aveva trasmesso a tutti i superiori un avviso, scritto in italiano e tedesco, firmato dal governatore militare di Roma Rainer Stahel, da affiggere nell’atrio soltanto in caso di emergenza, in cui si dichiarava:
Questo edificio serve a scopi religiosi ed è alle dirette dipendenze dello Stato della Città del Vaticano. Sono interdette qualsiasi perquisizioni e requisizioni.
Di conseguenza nessuna autorità si sognava di violare un luogo sacro per non compromettere ulteriormente i rapporti con la gerarchia vaticana e con la popolazione romana, nella quale già serpeggiava un certo malcontento soprattutto dopo gli spietati rastrellamenti del ghetto ebraico. Soltanto un fanatico fascista come Pietro Koch, con un passato di ufficiale dei granatieri, poteva tentare un’azione tanto temeraria per farsi notare da Mussolini.
Il 12 dicembre 1943, dopo aver portato a termine brillantemente l’operazione che condusse alla cattura dell’ex comandante della Va Armata, il generale Mario Caracciolo di Feroleto (vedi i particolari in un altro articolo), sorpreso nella sua cella del convento francescano nei pressi delle Catacombe di San Sebastiano sull’Appia Antica sotto le mentite spoglie di fra Mario Santelli, Koch era stato lautamente ricompensato con un premio di 5.000 lire dal capo della polizia Tullio Tamburini, che non esitò a proporgli, poco dopo, di costituire finanche un “Reparto speciale di Polizia” alle dipendenze del famigerato Pietro Caruso.
Koch aveva intuito che quella era la sua grande occasione. Così, avendo scoperto che molti personaggi di spicco della Resistenza, per sfuggire ai loro aguzzini, avevano trovato ospitalità in numerosi istituti religiosi della capitale, i suoi effimeri sogni di gloria non risparmiarono neanche gli ambienti ecclesiastici che godevano del diritto di extraterritorialità, come per esempio il Pontificio Seminario Lombardo che fu messo a ferro e fuoco dalla sua banda nella notte tra il 21 e il 22 dicembre 1943.
L’operazione, alla quale prese parte anche un reparto delle SS, scattò verso le 22, e prevedeva l’irruzione improvvisa, con un tranello, all’interno degli edifici del Seminario Lombardo, del Pontificio Istituto di Studi Orientali e del Collegio Russicum, che sorgevano in prossimità della basilica di Santa Maria Maggiore.
In quel periodo, l’allora rettore monsignor Francesco Bertoglio conoscendo le disposizioni impartite dalla Santa Sede, anche in virtù di un’antica e solida amicizia con il sostituto della Segreteria di Stato, monsignor Giovanni Battista Montini, di cui era stato compagno di studi in quello stesso seminario, aveva concesso ospitalità a ben 110 persone,
Tuttavia l’ospite di gran lunga più autorevole fu in realtà il sindacalista Giovanni Roveda – soprannominato “la Contessa” – il quale riuscì a trovare ricetto tra queste mura grazie all’intermediazione di alcuni esponenti della Democrazia Cristiana, perché assiduamente ricercato dai fascisti.
Difatti, il rettore mons. Bertoglio, già aveva provveduto a predisporre un alloggio, lontano da occhi indiscreti, nell’appartamento dei vescovi dove, per dissimulare la sua presenza, fu escogitata una singolare mimetizzazione.
Uno degli ospiti, l’ing. Aldo Loria, escogitò un efficace stratagemma per garantire una certa sicurezza a tutti i rifugiati.
Qualche giorno dopo questo tremendo avvertimento puntualmente si concretizzò in più di una delle proprietà vaticane.
Immaginando che fosse «qualcheduno sorpreso dalla polizia, che [aveva] scavalcato il muro e si [era] nascosto in giardino», si stava incamminando tranquillamente verso la propria stanza quando di colpo si spalancò la porta del cortile e si ritrovò dinanzi degli individui con la rivoltella in pugno. Notando in uno di loro una vaga rassomiglianza con un amico dell’arcivescovo di Fermo mons. Perini, gli corse incontro con la mano tesa, ma subito si sentì raggelare il sangue nelle vene quando questi gli intimò con tono minaccioso: “Dove sono gli ufficiali?” Fu in quel preciso istante che realizzò chi aveva di fronte: si trattava, in realtà, del famigerato Koch “il genio nero di tutte le rappresaglie poliziesche repubblichine” che
Nel frattempo era già scattato l’allarme e, come concordato in casi d’emergenza, la maggior parte degli ebrei ospitati nelle camere del quarto piano, avevano precipitosamente lasciato il loro giaciglio per raggiungere, attraverso il palazzo attiguo, le cantine dove il cugino del rettore, il rag. Gian Serafino Bertoglio, aveva allestito magistralmente un rifugio segreto, provvedendo a far «chiudere una parete che così veniva a formare una stanza a parte». Rimasero nascosti in quel luogo angusto dalle 11 di sera fino alle 7 del mattino successivo, quando finalmente la banda di Koch e le SS lasciarono il seminario.
Settimio Limentani, però, non fece in tempo a raggiungere gli altri compagni e fu fermato lungo le scale da un poliziotto che gli intimò bruscamente: “chi sei?”; “Sono un cameriere del Seminario”, replicò con un fil di voce il malcapitato. “Ma è impossibile; sei vestito troppo bene; e poi quell’anello d’oro?”, al che Limentani cercò di schernirsi esclamando: “È un regalo del rettore con le iniziali del S.L. (seminario Lombardo)”. Purtroppo questo sotterfugio non sortì gli effetti sperati tant’è che fu subito messo in stato di fermo in portineria insieme agli altri in attesa di essere condotti in questura.
Gli sgherri sguinzagliati da Koch, perlustrarono da cima a fondo tutto il seminario mostrando di sapere perfettamente dove si annidavano le persone che ceravano. Difatti appena giunti al terzo piano, entrarono nella stanza dove erano sicuri di trovare i sedicenti don Pietro Nardelli (alias dott. Paolo Navone, impiegato del ministero scambi e valute) e don Macchi – che in realtà era il prof. Giuseppe Mira. Inoltre non esitarono a mostrare al rettore finanche «un blocchetto dove c’era il nome di tutti gli Ebrei», chiedendogli dove si nascondevano.
Mentre mons. Bertoglio stava ancora discorrendo sulle scale con Koch, improvvisamente passarono davanti a loro un gruppetto di chierici tra i quali si celavano anche quelli falsi. “Bravi! Andate a scuola” esclamò tentando di sdrammatizzare il rettore, al che Koch, “con il suo sguardo cattivo di tigre”, fissando alcuni di loro, soggiunse sarcasticamente: “Monsignore, tutti chierici eh? Si, tutti chierici dopo l’8 di settembre”.
Verso le quattro del mattino gli agenti di Koch perquisirono accuratamente anche l’appartamento vescovile, riuscendo a scovare l’unico pezzo grosso della loro caccia: si trattava dell’esponente sindacale del P.C.I. Giovanni Roveda che, tuttavia, nel disperato tentativo di farla franca, fornì loro false generalità. Questo stratagemma, tuttavia, non durò a lungo considerato che appena giunto in questura fu immediatamente smascherato e rinchiuso, dapprima a Regina Coeli e, successivamente, trasferito nel carcere veronese degli Scalzi dal commissario Colasurdo da dove riuscirà ad evadere il 17 luglio del 1944, grazie ad un audace piano meticolosamente congegnato da alcuni gappisti.
Tra gli altri 16 malcapitati finiti nello loro grinfie, figuravano anche l’avvocato livornese di origine ebraica Giuseppe Lumbroso con il figlio Michele, l’ebreo Amedeo Spizzichino, l’ex console generale d’Italia a Salonicco Guelfo Zamboni, un certo Ziffer, guardia palatina in attesa di nomina, sul quale poi si addensarono ingiustamente gravi sospetti che a stento riuscì a dissimulare e il colonnello Maraschi, che indossava ancora l’abito talare. “Non avete ancora fatto in tempo a vestirvi, signor colonnello?” gli obiettò sarcasticamente il turpe aguzzino, suscitando la fiera reazione dell’ufficiale che esclamò con sdegno: “Non mi sporcare”. Tuttavia, poco dopo, mentre Koch con i suoi scagnozzi – tra i quali spiccava per la sua ferocia un certo Rezzato – continuava la caccia all’uomo, approfittando di un momento di rallentata vigilanza,
Nel frattempo, scavalcando le mura del cortile gli uomini di Koch, passando attraverso l’Istituto Orientale, si erano intrufolati all’interno dell’Istituto di Archeologia cristiana e nel Russicum. Qui, nella concitazione della fuga, un ebreo cadde attinto da un attacco cardiaco e morì pochi istanti dopo, nonostante i disperati tentativi di rianimarlo di un giovane studente di medicina che per questo tergiversare fu acciuffato dagli agenti. Alla fine il bilancio di questa operazione si rivelò complessivamente alquanto magro; i risultati, infatti, delusero le aspettative, considerato che furono tratti in arresto appena 16 persone non di un certo rilievo, tra cui figuravano anche alcuni ebrei, i quali furono deportati prima nel campo di Fossoli e poi nel lager di Auschwitz dove, l’8 agosto 1944, trovò la morte Enrico Ravenna eliminato dalle S.S. Soltanto quando giunsero in questura Koch e i suoi scherani si accorsero che mancavano proprio i due esponenti dell’esercito: il maggiore Mira e il colonnello Maraschi.
Nel frattempo anche don Giuseppe Guerrini, cogliendo il momento propizio, senza farsi notare, si era introdotto nello studio del rettore per contattare la Segreteria di Stato e riferire al sostituto Montini le scene strazianti che si stavano verificando in seminario. Dopodiché si era preoccupato di mettere al sicuro il colonnello Maraschi, conducendolo presso il canonico della Basilica di Santa Maria Maggiore, mons. Antonio Maria Capettini, dove rimase per alcuni mesi facendogli da segretario col nome di mons. Bonomelli. Appena appreso dell’irruzione dei nazi-fascisti al comando di Pietro Koch, il mattino seguente la S. Sede immediatamente inviò il superiore della Congregazione della S. Croce che faceva da intermediario con il comando tedesco. Così, in seguito alle veementi proteste da parte del Vaticano, anche il rettore del Seminario Lombardo, nel giro di poche ore fu rilasciato. Alle accuse di proteggere gli antifascisti rivolte da Koch, mons. Bertoglio senza scomporsi più di tanto replicò sostenendo che:
Dopo essere stati sottoposti ad un serrato interrogatorio, la mattina del 22 dicembre, non avendo riscontrato alcun reato a loro carico, furono rilasciate 21 persone fermate nei vari istituti di S. Maria Maggiore, mentre altre 16 furono recluse nelle carceri giudiziarie di Regina Coeli. Successivamente, poiché gli altri ufficiali erano stati trasferiti altrove, la Direzione Generale di P.S. affidò proprio al commissario de Fiore il compito di interrogare gli ebrei. Fu in questa circostanza, dichiara l’ineffabile funzionario di polizia, che
che gli permise, il 21 marzo 1944, di riacquistare la libertà appena tre giorni prima dell’eccidio delle Fosse Ardeatine*.
* P.S.: A tal proposito Amedeo Spizzichino – che in realtà all’epoca gestiva un negozio di guanti in via Teatro Argentina – dichiarò, che il commissario de Fiore
Proprio per questa loro abnegazione a favore degli ebrei, il memoriale Yad Vashem ha deciso di iscrivere anche il nome di mons. Bertoglio e del commissario de Fiore tra i “Giusti tra le Nazioni”.