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21 dicembre 1943: irruzione in seminario

L’operazione condotta dal “Reparto speciale di Polizia” guidato da Pietro Koch all’interno degli edifici del Seminario Lombardo, del Pontificio Istituto di Studi Orientali e del Collegio Russicum, che sorgevano in prossimità della basilica di Santa Maria Maggiore.

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Grazie all’ausilio di documenti in parte editi (come le cronache del Seminario Lombardo) ed altri meno noti, tratti dal fascicolo processuale a carico di Pietro Koch, in questo articolo prenderemo in esame questa vicenda cercando di aggiungere qualche nuovo tassello al mosaico di conoscenze su tale episodio. In particolare, come anche questa ricerca s’incaricherà di dimostrare, in questa vicenda emerge il ruolo di primo piano svolto dall’allora rettore del Seminario Lombardo, mons. Francesco Bertoglio e del commissario Angelo de Fiore (tra l’altro entrambi iscritti dal memoriale di Yad Vashem nel novero dei “Giusti tra le Nazioni”), all’epoca dei fatti qui narrati capo dell’Ufficio stranieri della Questura di Roma, che racconta, con dovizia di particolari, tutti i retroscena di questa operazione e il ruolo successivo che svolse per salvare numerosi ebrei e sottrarli alla deportazione in Germania

con accorgimento e con tatto e grave rischio personale, oltre a sollevarli nello spirito nella dura e abbastanza lunga prigionia adoperandosi efficacemente prima a mantenere i rapporti tra i prigionieri, poi a sottrarli al trasferimento al Nord ed infine per farli rimettere in libertà

Nel clima di confusione che regnava nella capitale nei primi mesi dell’occupazione tedesca, presero il sopravvento bande armate non inquadrate in organismi ufficiali che avevano il compito di dare la caccia ai principali esponenti della Resistenza, senza tanti scrupoli, considerato che molti di loro si erano rifugiati all’interno di varie istituzioni religiose dove vigeva il diritto di extraterritorialità.

Nel corso di quegli anni, infatti, l’accoglienza negli ambienti ecclesiastici non conobbe riserve, tanto è vero che numerosi ordini religiosi, sprezzanti del pericolo che correvano, si distinsero in questa opera di ospitalità a beneficio di tutti coloro i quali erano in cerca d’aiuto per sfuggire agli efferati rastrellamenti perpetrati dai nazi-fascisti. Difatti, bisogna tener conto che per chiunque nascondeva o prestava aiuto agli ebrei e agli antifascisti era prevista la pena di morte. Ciò nonostante, oltre ai Palazzi Apostolici, chiese, conventi, collegi e istituti ecclesiastici d’ogni genere, si prodigarono per offrire riparo a quella torma di sventurati che correvano il rischio di essere acciuffati dalle SS e spediti nei vari campi di concentramento.

Documento rilasciato dalla S. Sede agli istituti ecclesiastici (Ottobre 1943)

Proprio per scongiurare questo pericolo, a partire dal 25 ottobre 1943, la Segreteria di Stato della Santa Sede, mediante un’apposita circolare, aveva trasmesso a tutti i superiori un avviso, scritto in italiano e tedesco, firmato dal governatore militare di Roma Rainer Stahel, da affiggere nell’atrio soltanto in caso di emergenza, in cui si dichiarava: 

Questo edificio serve a scopi religiosi ed è alle dirette dipendenze dello Stato della Città del Vaticano. Sono interdette qualsiasi perquisizioni e requisizioni.

Di conseguenza nessuna autorità si sognava di violare un luogo sacro per non compromettere ulteriormente i rapporti con la gerarchia vaticana e con la popolazione romana, nella quale già serpeggiava un certo malcontento soprattutto dopo gli spietati rastrellamenti del ghetto ebraico. Soltanto un fanatico fascista come Pietro Koch, con un passato di ufficiale dei granatieri, poteva tentare un’azione tanto temeraria per farsi notare da Mussolini.

Il 12 dicembre 1943, dopo aver portato a termine brillantemente l’operazione che condusse alla cattura dell’ex comandante della Va Armata, il generale Mario Caracciolo di Feroleto (vedi i particolari in un altro articolo), sorpreso nella sua cella del convento francescano nei pressi delle Catacombe di San Sebastiano sull’Appia Antica sotto le mentite spoglie di fra Mario Santelli, Koch era stato lautamente ricompensato con un premio di 5.000 lire dal capo della polizia Tullio Tamburini, che non esitò a proporgli, poco dopo, di costituire finanche un “Reparto speciale di Polizia” alle dipendenze del famigerato Pietro Caruso.

Koch aveva intuito che quella era la sua grande occasione. Così, avendo scoperto che molti personaggi di spicco della Resistenza, per sfuggire ai loro aguzzini, avevano trovato ospitalità in numerosi istituti religiosi della capitale, i suoi effimeri sogni di gloria non risparmiarono neanche gli ambienti ecclesiastici che godevano del diritto di extraterritorialità, come per esempio il Pontificio Seminario Lombardo che fu messo a ferro e fuoco dalla sua banda nella notte tra il 21 e il 22 dicembre 1943.

L’operazione, alla quale prese parte anche un reparto delle SS, scattò verso le 22, e prevedeva l’irruzione improvvisa, con un tranello, all’interno degli edifici del Seminario Lombardo, del Pontificio Istituto di Studi Orientali e del Collegio Russicum, che sorgevano in prossimità della basilica di Santa Maria Maggiore.

Nelle ore pomeridiane del 21 dicembre 1943 — si legge nella dettagliata relazione stilata dal capo Ufficio stranieri della questura di Roma, il commissario Angelo de Fiore — ebbi l’ordine, per fonogramma a firma del Questore Roselli Erminio, di presentarmi alle ore 18 alla Direzione Generale della P. S. per eseguire un servizio di pattuglia di breve durata. Lo stesso ordine comandava un Capitano e degli Agenti (50 in divisa e 15 in borghese). Alle ore 19 o poco più, fui ricevuto dal V. Direttore Generale Travaglio, che mi presentò un giovane a nome Koch, dandomi ordine di mettermi a sua disposizione per un servizio da farsi in serata e non muovermi intanto dal Ministero. (…) Più tardi infatti giunsero una quindicina tra ufficiali e militari tedeschi in borghese e tra questi riconobbi il capitano Priebke. (…) Io venni collocato con 2 sottufficiali tedeschi e la mia guardia scelta Rolando [all’Istituto] di piazza S. Maria Maggiore n. 12. Il Koch diede infine ordine che alle ore 21.50 tutti avrebbero dovuto bussare [alle varie case religiose segnalate] ed anche egli andò a piazzarsi ad un ingresso.

In quel periodo, l’allora rettore monsignor Francesco Bertoglio conoscendo le disposizioni impartite dalla Santa Sede, anche in virtù di un’antica e solida amicizia con il sostituto della Segreteria di Stato, monsignor Giovanni Battista Montini, di cui era stato compagno di studi in quello stesso seminario, aveva concesso ospitalità a ben 110 persone,

ex militari, ufficiali di stato maggiore, renitenti alla leva appena imberbi, sottotenentini in attesa ancora di nomina, alcuni giovani studenti, altri figli di papà (…) ebrei di tutti i ranghi» tra i quali spiccavano Isacco Astrologo, direttore della Banca Nazionale del Lavoro di Napoli — inviato dal direttore dell’«Osservatore Romano», il conte Giuseppe Dalla Torre, perché braccato dai nazifascisti — la famiglia del negoziante Graziano Di Cori, il professore di matematica Arrigo Finzi, il grand’ufficiale l’avvocato Giuseppe Lumbroso con il figlio Michele e il dottor Cesare Mieli. Oltre a queste persone vi erano anche un gruppo di ufficiali e militari sbandati, tra cui il tenente colonnello Carlo Maraschi di Vigevano, i capitani Giuseppe Mira e Giuseppe Carinelli, il tenente colonnello Attilio Mileto, il maggiore del Regio Esercito Federico Runcini, il ten. col. Calogero Coletti, il tenente della Regia Aeronautica Baldi e, dulcis in fundo, il console generale d’Italia a Salonicco Guelfo Zamboni. Inoltre, per metterli al riparo da qualsiasi pericolo, alcuni di questi “ospiti”, soprattutto quelli di origine ebraica, – come del resto si legge su di un foglio dattiloscritto rinvenuto nell’archivio del Seminario – furono «iscritti fra gli alunni del Seminario e alla Università Gregoriana; [mentre gli altri furono] ospitati presso qualche altra Comunità o presso privati, o nel proprio domicilio.

Documento falsificato dal Vicariato per nascondere un rifugiato

Tuttavia l’ospite di gran lunga più autorevole fu in realtà il sindacalista Giovanni Roveda – soprannominato “la Contessa” – il quale riuscì a trovare ricetto tra queste mura grazie all’intermediazione di alcuni esponenti della Democrazia Cristiana, perché assiduamente ricercato dai fascisti.

Fu Andreotti – scrive sul filo della memoria Giorgio Amendola – che, nel nostro primo incontro clandestino presso San Pietro, mi trasmise le modalità dell’ingresso di Roveda nel Collegio.

Difatti, il rettore mons. Bertoglio, già aveva provveduto a predisporre un alloggio, lontano da occhi indiscreti, nell’appartamento dei vescovi dove, per dissimulare la sua presenza, fu escogitata una singolare mimetizzazione.

Lo chiamavano tutti “la contessa” – si legge nel diario del Seminario –. E molti che non riuscirono mai a vederlo lo credettero in realtà una vera contessa. Uscì qualche volta e fu dato l’allarme perché nessuno lo vedesse. Ogni tanto veniva a trovarlo De Gasperi o qualche altro, e allora veniva portato a lui un vassoio con due piatti. Tutti ridevano dicendo “oggi c’è anche il conte”. A portargli da mangiare era sempre o il rettore, o don Sergio Piguedoli […]. Credo che anche lui non sia passato inutilmente per questa casa – scrive con malcelato compiacimento l’allora padre spirituale don Giuseppe Guerrini –. Lesse la vita di Cristo di Ricciotti. [e] il libro delle apparizioni della Madonna, ma non disse mai la sua impressione. […] Veniva anche la moglie (Caterina Bossetto) a trovarlo.

Uno degli ospiti, l’ing. Aldo Loria, escogitò un efficace stratagemma per garantire una certa sicurezza a tutti i rifugiati.

Aveva fatto un impianto elettrico. Alla sera il campanello della strada veniva messo in comunicazione col III e IV piano. Così ognuno che suonava dalla strada dava subito l’allarme. In tre minuti tutti potevano già essere in rifugio». La S. Sede, infatti, qualche giorno prima era stata messa in guardia da un non meglio precisato colonnello che «due operai del gas si [erano] introdotti nel Seminario Lombardo dicendo di dover controllare delle fughe di gas, in realtà invece per informarsi circa le persone rifugiate nel Seminario stesso. Venuti a conoscenza della presenza di Roveda […], le SS prepararono una perquisizione.

Qualche giorno dopo questo tremendo avvertimento puntualmente si concretizzò in più di una delle proprietà vaticane.

Alle ore 21,50, – scriveva al riguardo con dovizia di particolari, l’8 gennaio 1944, nella sua relazione il commissario Angelo de Fiore – […] un tedesco bussò. Venne ad aprire un religioso. Si perdette del tempo all’ingresso perché questi fece opposizione ai due tedeschi che ci precedevano. Ne nacque un po’ di chiasso ed il religioso ebbe modo e tempo di dare l’allarme nella casa». Proprio in quei frangenti, infatti, il dottor Dordoni – rigorosamente in abito talare, coi documenti del Vicariato –, lo studente d’ingegneria Pino Granone e il giovane ebreo Nino Astrologo si stavano accingendo al cambio dei turni di guardia interna meticolosamente predisposti dai vari ospiti, quando all’improvviso il rettore percepì «un rumore di passi, e qualcuno che cercava di aprire la porta del cortile.

Immaginando che fosse «qualcheduno sorpreso dalla polizia, che [aveva] scavalcato il muro e si [era] nascosto in giardino», si stava incamminando tranquillamente verso la propria stanza quando di colpo si spalancò la porta del cortile e si ritrovò dinanzi degli individui con la rivoltella in pugno. Notando in uno di loro una vaga rassomiglianza con un amico dell’arcivescovo di Fermo mons. Perini, gli corse incontro con la mano tesa, ma subito si sentì raggelare il sangue nelle vene quando questi gli intimò con tono minaccioso: “Dove sono gli ufficiali?” Fu in quel preciso istante che realizzò chi aveva di fronte: si trattava, in realtà, del famigerato Koch “il genio nero di tutte le rappresaglie poliziesche repubblichine” che

subito volle entrare dal rettore e rovistare da cima a fondo. S’impossessò di liste, che il rettore aveva fatto fare pochi giorni prima. Il rettore protestò, cedendo alla forza; il Seminario era proprietà della S. Sede; mostrò loro il documento firmato dal generale Stahel in cui era severamente proibito l’accesso al Seminario ai tedeschi. […] Dalla finestra aperta fu gridato sulla piazza: “circondate il palazzo che nessuno fugga”. E intanto la gentaglia si sparpagliava per i piani. Volevano gli ufficiali e in particolare i generali: Cadorna e Sorice, capi del movimento clandestino di Roma, che però non erano mai stati al Lombardo. Il rettore fu condotto in refettorio sotto scorta, e qui mano mano venivano portati i catturati.

Nel frattempo era già scattato l’allarme e, come concordato in casi d’emergenza, la maggior parte degli ebrei ospitati nelle camere del quarto piano, avevano precipitosamente lasciato il loro giaciglio per raggiungere, attraverso il palazzo attiguo, le cantine dove il cugino del rettore, il rag. Gian Serafino Bertoglio, aveva allestito magistralmente un rifugio segreto, provvedendo a far «chiudere una parete che così veniva a formare una stanza a parte». Rimasero nascosti in quel luogo angusto dalle 11 di sera fino alle 7 del mattino successivo, quando finalmente la banda di Koch e le SS lasciarono il seminario.

Settimio Limentani, però, non fece in tempo a raggiungere gli altri compagni e fu fermato lungo le scale da un poliziotto che gli intimò bruscamente: “chi sei?”“Sono un cameriere del Seminario”, replicò con un fil di voce il malcapitato. “Ma è impossibile; sei vestito troppo bene; e poi quell’anello d’oro?”, al che Limentani cercò di schernirsi esclamando: “È un regalo del rettore con le iniziali del S.L. (seminario Lombardo)”. Purtroppo questo sotterfugio non sortì gli effetti sperati tant’è che fu subito messo in stato di fermo in portineria insieme agli altri in attesa di essere condotti in questura.

In portineria – scrive don Giuseppe Guerrini – offrì 30.000 al poliziotto che lo custodiva. Portato in questura chiese di andare al gabinetto e riuscì a scappare.

Gli sgherri sguinzagliati da Koch, perlustrarono da cima a fondo tutto il seminario mostrando di sapere perfettamente dove si annidavano le persone che ceravano. Difatti appena giunti al terzo piano, entrarono nella stanza dove erano sicuri di trovare i sedicenti don Pietro Nardelli (alias dott. Paolo Navone, impiegato del ministero scambi e valute) e don Macchi – che in realtà era il prof. Giuseppe Mira. Inoltre non esitarono a mostrare al rettore finanche «un blocchetto dove c’era il nome di tutti gli Ebrei», chiedendogli dove si nascondevano.

Mons. Francesco Bertoglio (Magenta, 15 febbraio 1900 – Milano, 6 luglio 1977)

Mentre mons. Bertoglio stava ancora discorrendo sulle scale con Koch, improvvisamente passarono davanti a loro un gruppetto di chierici tra i quali si celavano anche quelli falsi. “Bravi! Andate a scuola” esclamò tentando di sdrammatizzare il rettore, al che Koch, “con il suo sguardo cattivo di tigre”, fissando alcuni di loro, soggiunse sarcasticamente: “Monsignore, tutti chierici eh? Si, tutti chierici dopo l’8 di settembre”.

Verso le quattro del mattino gli agenti di Koch perquisirono accuratamente anche l’appartamento vescovile, riuscendo a scovare l’unico pezzo grosso della loro caccia: si trattava dell’esponente sindacale del P.C.I. Giovanni Roveda che, tuttavia, nel disperato tentativo di farla franca, fornì loro false generalità. Questo stratagemma, tuttavia, non durò a lungo considerato che appena giunto in questura fu immediatamente smascherato e rinchiuso, dapprima a Regina Coeli e, successivamente, trasferito nel carcere veronese degli Scalzi dal commissario Colasurdo da dove riuscirà ad evadere il 17 luglio del 1944, grazie ad un audace piano meticolosamente congegnato da alcuni gappisti.

“Pro-memoria” relativo all’attività delittuosa dell’ex questore Caruso, dei complici di costui e della “banda Koch”.

Tra gli altri 16 malcapitati finiti nello loro grinfie, figuravano anche l’avvocato livornese di origine ebraica Giuseppe Lumbroso con il figlio Michele, l’ebreo Amedeo Spizzichino, l’ex console generale d’Italia a Salonicco Guelfo Zamboni, un certo Ziffer, guardia palatina in attesa di nomina, sul quale poi si addensarono ingiustamente gravi sospetti che a stento riuscì a dissimulare e il colonnello Maraschi, che indossava ancora l’abito talare. “Non avete ancora fatto in tempo a vestirvi, signor colonnello?” gli obiettò sarcasticamente il turpe aguzzino, suscitando la fiera reazione dell’ufficiale che esclamò con sdegno: “Non mi sporcare”. Tuttavia, poco dopo, mentre Koch con i suoi scagnozzi – tra i quali spiccava per la sua ferocia un certo Rezzato – continuava la caccia all’uomo, approfittando di un momento di rallentata vigilanza,

il prof. Mira si chinò, e visto che la mossa era riuscita si rimpiattò sotto un tavolo. Il colonnello Maraschi che si trovava ultimo di fila, rallentò, e scomparve nella sala da visita. Poi si infilò in cucina, piombò nella cappella delle Suore, che tutte congestionate ascoltavano la Messa. Si buttò bocconi ai gradini dell’altare. Le suore compresa la mossa, unirono i loro due banchetti davanti e fecero una fila sola in cui parecchi si inginocchiarono. Nessuno, entrando, avrebbe visto quell’uomo steso in linea orizzontale.

Nel frattempo, scavalcando le mura del cortile gli uomini di Koch, passando attraverso l’Istituto Orientale, si erano intrufolati all’interno dell’Istituto di Archeologia cristiana e nel Russicum. Qui, nella concitazione della fuga, un ebreo cadde attinto da un attacco cardiaco e morì pochi istanti dopo, nonostante i disperati tentativi di rianimarlo di un giovane studente di medicina che per questo tergiversare fu acciuffato dagli agenti. Alla fine il bilancio di questa operazione si rivelò complessivamente alquanto magro; i risultati, infatti, delusero le aspettative, considerato che furono tratti in arresto appena 16 persone non di un certo rilievo, tra cui figuravano anche alcuni ebrei, i quali furono deportati prima nel campo di Fossoli e poi nel lager di Auschwitz dove, l’8 agosto 1944, trovò la morte Enrico Ravenna eliminato dalle S.S. Soltanto quando giunsero in questura Koch e i suoi scherani si accorsero che mancavano proprio i due esponenti dell’esercito: il maggiore Mira e il colonnello Maraschi.

Sia durante l’attesa nelle case religiose che al Commissariato – dichiarò de Fiore nel corso della sua deposizione durante il processo a carico di Pietro Koch – alcuni fermati ebbero possibilità di fuggire. Per questo e anche per il fatto che l’azione degli elementi di Polizia si era dimostrata fiacca e addirittura passiva, il Koch ci denunziò alla Direzione Generale, che ordinò un’inchiesta a carico mio e del capitano Lo Russo.

Nel frattempo anche don Giuseppe Guerrini, cogliendo il momento propizio, senza farsi notare, si era introdotto nello studio del rettore per contattare la Segreteria di Stato e riferire al sostituto Montini le scene strazianti che si stavano verificando in seminario. Dopodiché si era preoccupato di mettere al sicuro il colonnello Maraschi, conducendolo presso il canonico della Basilica di Santa Maria Maggioremons. Antonio Maria Capettini, dove rimase per alcuni mesi facendogli da segretario col nome di mons. Bonomelli. Appena appreso dell’irruzione dei nazi-fascisti al comando di Pietro Koch, il mattino seguente la S. Sede immediatamente inviò il superiore della Congregazione della S. Croce che faceva da intermediario con il comando tedesco. Così, in seguito alle veementi proteste da parte del Vaticano, anche il rettore del Seminario Lombardo, nel giro di poche ore fu rilasciato. Alle accuse di proteggere gli antifascisti rivolte da Koch, mons. Bertoglio senza scomporsi più di tanto replicò sostenendo che:

prima di essere comunista [Roveda] era uomo, bisognoso di aiuto. La carità non guarda in faccia a nessuno, non guarda alle idee, al colore. Domani si sarebbe fatto altrettanto per loro.

Dopo essere stati sottoposti ad un serrato interrogatorio, la mattina del 22 dicembre, non avendo riscontrato alcun reato a loro carico, furono rilasciate 21 persone fermate nei vari istituti di S. Maria Maggiore, mentre altre 16 furono recluse nelle carceri giudiziarie di Regina Coeli. Successivamente, poiché gli altri ufficiali erano stati trasferiti altrove, la Direzione Generale di P.S. affidò proprio al commissario de Fiore il compito di interrogare gli ebrei. Fu in questa circostanza, dichiara l’ineffabile funzionario di polizia, che

ebbi la possibilità di aiutare moralmente e materialmente tutti, riuscendo a farli rimettere in libertà col concorso del collega Pesarini del Ministero, dopo averne prima per ben due volte evitato, procrastinandolo, l’invio al Nord. Tutti, ma specie l’avv. Lumbroso Giuseppe di Livorno il di lui figlio Michele, il signor Spizzichino Amedeo, [che, grazie ai documenti intestati a Parucci Amedeo era riuscito a mantenere la falsa generalità]. Ma io senz’altro – a rischio di essere scoperto dal secondino che fuori dalla cella poteva ascoltarci – redassi il verbale al nome di Parucci Amedeo sfollato da Civitavecchia.

che gli permise, il 21 marzo 1944, di riacquistare la libertà appena tre giorni prima dell’eccidio delle Fosse Ardeatine*.


* P.S.: A tal proposito Amedeo Spizzichino – che in realtà all’epoca gestiva un negozio di guanti in via Teatro Argentina – dichiarò, che il commissario de Fiore

pur non potendo parlare chiaramente perché c’era un secondino che guardava dalla porta a vetri e poteva pure ascoltare, mi mise una mano sulla spalla e con un’aria arrabbiata costringendomi a sedere e stringendomi la spalla mi disse: “poche chiacchiere siediti Parucci e rispondi solo alle mie domande”. Io per quanto emozionato incominciai a capire qualche cosa ed intanto il funzionario formulava domande e risposte guidandomi nell’interrogatorio e finalmente alla firma mi raccomandò di non sbagliarmi e di firmare per Parucci.

Proprio per questa loro abnegazione a favore degli ebrei, il memoriale Yad Vashem ha deciso di iscrivere anche il nome di mons. Bertoglio e del commissario de Fiore tra i “Giusti tra le Nazioni”.

© Giovanni Preziosi, 2023
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