3 novembre 1943, agguato nella sinagoga di Genova.
Per 261 ebrei genovesi non ci fu scampo. Tra di essi vi erano anche l’allora rabbino capo Riccardo Pacifici e il custode Albino Polacco con la moglie Linda ed i loro due bambini Roberto e Carlo rispettivamente di appena 2 e 4 anni, i quali il 1° dicembre successivo furono inviati a Milano, e da lì il 6 dicembre, a bordo del convoglio n. 05, deportati nell’orrendo lager nazista di Auschwitz, da dove non fecero più ritorno. Soltanto 20 riuscirono a salvarsi.
La sinagoga di Genova insieme a quelle di Trieste, Roma e Livorno rappresenta una delle quattro grandi sinagoghe monumentali italiane. Sorge al civico 6 di via Bertora e, dopo la sua inaugurazione che avvenne il 3 giugno 1935, nel periodo dell’occupazione nazista fu teatro di uno delle più efferate retate perpetrate dalle SS che, dopo quella nel ghetto ebraico di Roma il 16 ottobre 1943, nel novembre successivo iniziarono in grande stile arresti di massa nelle comunità israelitiche di Firenze, Milano, Torino, Siena e Bologna.
Il 2 novembre 1943 fu la volta di Genova. In quella circostanza due soldati delle SS improvvisamente fecero irruzione nella sinagoga costringendo, sotto la minaccia delle armi, il custode Albino Polacco a consegnare i registri anagrafici della Comunità ed a convocare telefonicamente tutti i membri della comunità il giorno successivo per una non meglio precisata riunione.
Questo diabolico stratagemma alla fine andò in porto tanto da trarre in inganno diversi ebrei genovesi che l’indomani si precipitarono in Sinagoga e qui vennero immediatamente acciuffati dai nazisti e subito trasferiti nel carcere di Marassi. Anche se molti di loro riuscirono a scongiurare questo pericolo, grazie al tempestivo allarme di una donna che, appena si rese conto del tranello, con dei cenni eloquenti dalla sua finestra mise in guardia di quanto stava succedendo, alla fine però per 261 ebrei genovesi non ci fu scampo. Tra di essi vi erano anche l’allora rabbino capo Riccardo Pacifici e il custode Albino Polacco con la moglie Linda ed i loro due bambini Roberto e Carlo rispettivamente di appena 2 e 4 anni, i quali il 1° dicembre successivo furono inviati a Milano, e da lì il 6 dicembre, a bordo del convoglio n. 05, deportati nell’orrendo lager nazista di Auschwitz, da dove non fecero più ritorno. Soltanto 20 riuscirono a salvarsi.
Da quel momento in poi, infatti, iniziò in grande stile la persecuzione degli ebrei di Genova che coinvolse anche le Riviere, al punto che nei primi giorni di novembre gli ebrei catturati dai nazisti in Liguria ammontavano a più di cinquanta persone.
Ma ecco cosa scriveva rievocando quei terribili giorni l’ebreo romano Giuseppe Di Porto che, per scampare alle persecuzioni, si era recato a Genova dove però fu acciuffato dai nazisti.
«A Genova dormivamo di giorno e lavoravamo di notte. andavamo alla stazione a vendere caramelle e cioccolate ai militari. Guadagnavamo discretamente, in particolare Amedeo doveva mandare qualche soldo a Roma per la moglie e il figlio. Ci sistemammo da alcune persone, non ebree, conosciute a Roma che ci avevano offerto ospitalità. Cercavamo di aiutare anche quelle famiglie. Ma tutto questo fino ai primi di novembre.
La notizia della “razzia degli ebrei” era giunta anche a noi. Fortunatamente le nostre famiglie si erano salvate, e speravamo che non succedesse nient’altro.
Ci sbagliavamo. Il 3 novembre 1943, mentre io e mio cugino eravamo a passeggio per la città ci dissero che avevano fatto una grossa retata al Tempio di Genova. Avevano preso anche il rabbino Capo Riccardo Pacifici, nonno dell’attuale presidente della comunità ebraica di Roma.
Tornammo subito a casa, anche per avvertire le famiglie da cui eravamo ospitati. Fu lì che, mentre preparavamo le valigie per scappare, fummo arrestati dalla milizia nazi-fascista. Sulla porta di casa ci chiesero anche chi fossero le persone con cui abitavamo. noi dicemmo di non conoscerli, e fortunatamente quelle persone si salvarono.
Fummo subito trasferiti nel carcere genovese di Marassi. lì incontrammo molte persone. Fu già questa un’esperienza durissima. In carcere con un po’ di disponibilità avremmo anche potuto arrangiarci, ma noi non avevamo assolutamente nulla da scambiare o da offrire. Tra noi c’erano anche alcune persone anziane, molte donne e bambini e tutti quelli che erano stati catturati al Tempio, in attesa di trasferimento.
Di lì a poco fummo fatti salire su dei camion e portati a Milano. Restammo al carcere di San Vittore fino al 5 dicembre 1943, quando ci portarono alla stazione ferroviaria per essere nuovamente “trasferiti”.
I nazisti ci dissero che chi avesse tentato la fuga sarebbe stato ucciso, e per ognuno che fosse scappato avrebbero fucilato altre dieci persone.
Pensai che anche potendo fuggire, non avrei mai potuto portarmi sulla coscienza il destino di altre dieci vite.
Eravamo una cinquantina di persone ammassate in un carro bestiame. C’erano tante necessità fisiologiche. i bambini che piangevano, le persone che si lamentavano. Ci siamo fermati un paio di volte, ci davano un po’ d’acqua, ma nulla da mangiare, la fame era tanta. Per quello che so io, durante il viaggio non è scappato nessuno. arrivammo a destinazione il 10 dicembre, ma siamo scesi soltanto la mattina dell’11.
Riesco a raccontare con molta difficoltà delle atrocità cui assistemmo in quei momenti. la tragedia umana di madri che urlavano, di mogli e mariti che venivano separati, di bambini e anziani trascinati dalle grida, dalle frustate e dalla bastonate dei tedeschi».
Tratto da Giuseppe Di Porto, La rivincita del bene: una testimonianza inedita di un sopravvissuto ad Auschwitz, Provincia di Roma, 2009, 40 pagine.
A distanza di tanti anni da quel tragico avvenimento come non ricordare anche coloro che, a rischio della propria vita, si adoperarono con ogni mezzo per aiutare gli ebrei a fuggire alla persecuzione nazifascista come l’allora arcivescovo di Genova Pietro Boetto (1871-1946), recentemente insignito del titolo di “Giusto tra le Nazioni” da Yad Vashem, il quale – insieme al suo fedele segretario, don Francesco Repetto ed al clero della diocesi genovese, alla fine riuscì a trarre in salvo circa 800 ebrei, ai quali fornì non solo opportuni rifugi nei vari conventi cittadini ma anche adeguati sussidi per agevolarne l’espatrio clandestino, continuando in tal modo l’opera avviata dalla Delasem di Genova.