Oggi [4 giugno] è stato un continuo cannoneggiare come lo fu nella notte scorsa. Questa sera alle 8,20 arrivarono i soldati americani che destarono un grand’entusiasmo nella popolazione e vivaci battimani con “evviva” in alto tono.
Oggi [4 giugno] è stato un continuo cannoneggiare come lo fu nella notte scorsa. Questa sera alle 8,20 arrivarono i soldati americani che destarono un grand’entusiasmo nella popolazione e vivaci battimani con “evviva” in alto tono.
Getting your Trinity Audio player ready...
|
Venerdì 2 giugno 1944, le lancette dell’orologio segnano le ore 23.15 quando dai microfoni di Radio Londra viene trasmesso un messaggio in codice rivolto a tutta la popolazione romana nel quale risuona forte e chiara la fatidica parola “elefante” che segnalava alla Resistenza capitolina che ormai le truppe alleate erano pronte a sferrare l’attacco finale per la liberazione della città eterna dopo nove lunghi mesi di occupazione nazista.
Gli Alleati, infatti, in virtù dell’Operazione Shingle, tenacemente caldeggiata dal premier britannico Winston Churchill e portata a termine vittoriosamente dalla task force del VI° Corpo della Va Armata al comando del Generale John P. Lucas, erano riusciti a varcare la linea Gustav infliggendo una brusca battuta d’arresto alla Wehrmacht.
«Ansiosa attesa della liberazione di Roma. Timore e speranze! Quale sarà la sorte riservata a Roma? Da parte dei Tedeschi continue retate di uomini e fucilazioni», si chiedeva con una certa inquietudine, il 21 maggio del 1944, la cronista dell’Istituto “S. Elisabetta” delle suore Suore Francescane Missionarie del S. Cuore. Dall’occupazione tedesca, infatti, la capitale viveva ore di ansia e di angoscia sotto il martellamento continuo dei bombardamenti dell’aviazione statunitense che, a partire dal 19 luglio 1943, aveva preso di mira dapprima il quartiere di San Lorenzo e, successivamente, nonostante il Governo Badoglio, con il contributo determinante della S. Sede il 15 agosto 1943 avesse dichiarato Roma “città aperta”, altri punti nevralgici della città che fu bombardata per ben 51 volte sino al giorno della sua liberazione tanto che, ad un certo punto, si vociferava persino che il pontefice, per maggiore precauzione, avesse in mente di allontanare i religiosi dalla capitale.
Anche questa illazione, tuttavia, viene seccamente smentita dalla Superiora Provinciale delle Figlie del Sacro Cuore di Gesù, Madre Maria Ignazia Pessina che, scrivendo il 26 febbraio 1944 alla Superiora Generale Madre Alessandrina Maccari, dichiara senza giri di parole:
Con l’incalzare dell’avanzata delle truppe alleate che si erano ricongiunte davanti a Valmontone aggirando da nord i colli Albani per puntare senza colpo ferire verso Roma, tutto lasciava presagire il graduale ripiegamento dei reparti tedeschi verso nord, soprattutto dopo la conquista di Cassino e l’ultimo attacco alla testa di ponte di Anzio che suggerì al feldmaresciallo Kesselring, agli inizi di giugno, di concentrare la 10a e la 14a armata sulla “Linea gotica”, dove allestì una serie di linee di resistenza col preciso intento di logorare gli Alleati, rinunciando ad ogni velleitario tentativo di difendere la città di Roma per evitare un inutile spargimento di sangue.
Tirando un lungo sospiro di sollievo, il 4 giugno 1944, scrive, con dovizia di particolari, la cronista di “Villa Lante” al Gianicolo della Società del Sacro Cuore:
Difatti, sul far della sera del 3 giugno, si notava un lungo corteo di camion militari tedeschi convergere verso ponte Milvio per attraversare il Tevere e poi proseguire lungo le vie consolari della Cassia e della Flaminia col preciso intento di abbandonare definitivamente la capitale senza opporre resistenza. Poco dopo, fiutando il pericolo ormai alle porte, anche le SS decisero di lasciare precipitosamente la sede di via Tasso, trascinandosi dietro di sé due gruppi di prigionieri che furono fatti salire su due distinti autocarri diretti verso il nord.
Tra di essi figuravano il sindacalista Bruno Buozzi e tre spie italiane dell’Office of Strategic Service statunitense ed alcuni membri dei Gruppi di Azione Patriottica. Tuttavia, mentre il primo autocarro si avviò spedito lungo la Cassia l’altro, probabilmente a causa di un guasto, non riuscì a partire ragion per cui tutti i prigionieri proprio grazie a questo provvidenziale inconveniente riuscirono a salvarsi perché furono lasciati nelle celle incustodite dalle quali furono liberati poco dopo grazie all’intervento della Resistenza romana. Ad ogni modo il camion sul quale si trovava Buozzi, dopo aver percorso pochi chilometri appena uscito da Roma, improvvisamente, si arrestò nei pressi del sobborgo de La Storta. I 14 prigionieri furono immediatamente fatti scendere e rinchiusi in un garage. Il mattino successivo, mentre gli Alleati erano alle porte della capitale, le S.S. considerandoli ormai un peso inutile da portarsi dietro, senza pensarci su due volte, decisero di sbarazzarsene definitivamente.
Così li condussero dietro dei cespugli e a bruciapelo esplosero un colpo di rivoltella alla nuca di ognuno di loro lasciandoli esanimi in un boschetto al km 14,200 di via Cassia. Insieme al celebre sindacalista Bruno Buozzi fu barbaramente trucidato anche John Armstrong, nome di copertura di Gabor Adler, un agente dello Special Operation Executive, il braccio operativo dei servizi segreti britannici ideato da Churchill per coordinare le azioni di sabotaggio oltre le linee nemiche.
Una ulteriore dettagliata descrizione di quanto accadde in quei giorni convulsi ci viene offerta dalle Memorie della Casa romana “S. Cuore” delle Figlie del Sacro Cuore di Gesù, che costituisce una fonte di prima mano per farsi un’idea precisa di quale era lo stato d’animo di chi, suo malgrado, si trovò a vivere quei momenti concitati.
Nel frattempo, nella città e nei suoi dintorni si era sviluppata una vera e propria jacquerie urbana tra le varie bande partigiane, che cercavano di spianare la strada all’arrivo degli Alleati e le retroguardie tedesche che, a loro volta, tentavano strenuamente di arginarne l’avanzata. In uno di questi scontri rimase vittima il dodicenne Ugo Forno, soprannominato “Ughetto” che, il 5 giugno 1944, pagò con la vita il tentativo, andato a buon fine, di impedire che un reparto di genieri tedeschi facessero saltare il ponte ferroviario sull’Aniene, lungo la statale Cassia. In questo marasma generale ne approfittò l’ex questore fascista di Roma, il famigerato Pietro Caruso che, fiutando il pericolo che incombeva su di lui, il 4 giugno, alle prime luci dell’alba, tagliò la corda rapidamente dall’hotel Plaza dove risiedeva insieme al suo braccio destro Roberto Occhetto e all’autista Franzetti, a bordo di un’Alfa Romeo carica d’oro e di gioielli, diretto verso l’Italia settentrionale. Tuttavia, poche ore dopo, in prossimità di Vetralla, a causa di un incidente, fu costretto a farsi ricoverare, sotto mentite spoglie, presso l’ospedale di Bagnoregio, dove però fu riconosciuto dai partigiani e tradotto nel carcere di Regina Coeli.
All’improvviso Roma, fin allora deserta, si era riempita di folla. Tanti uomini e donne che, fino a quel momento erano rimasti nascosti prudentemente nei loro rifugi, dopo tanti mesi di attesa adesso finalmente potevano respirare l’aria pulita della libertà. Piazza Venezia, un tempo luogo prediletto delle famigerate adunate oceaniche fasciste, adesso era gremita di persone entusiaste che accoglievano con gioia i liberatori della Va armata statunitense che, acclamati dai romani, nelle prime ore del pomeriggio, di quel memorabile 5 giugno, attraverso le vie consolari raggiunsero il centro della capitale a bordo di una jeep, al comando del Gen. Mark Wayne Clark facevano il loro ingresso trionfale nella capitale cercando di farsi largo, a fatica, tra ali di folla per raggiungere il Campidoglio dove erano stati convocati tutti i comandanti dei corpi d’armata per fare il punto della situazione. In tale circostanza si insediò, in qualità di comandante militare e civile di Roma su designazione del CLN, il generale Roberto Bencivenga che, insieme ad altri esponenti antifascisti aveva trovato rifugio presso il Pontificio Seminario Maggiore del Laterano.
Sotto il cielo di Roma, fino ad allora costellato dai lugubri bombardamenti dell’aviazione alleata, adesso si incominciava a respirare il profumo della libertà, presagio di un avvenire foriero di tante belle speranze. Animati da questo entusiasmo, decine di migliaia di romani nel pomeriggio del 5 giugno si riversarono in piazza San Pietro per tributare il loro omaggio al pontefice che si era tanto adoperato per la liberazione di Roma.
Tutti i romani, infatti, in quei momenti d’angoscia trovarono nella Chiesa e soprattutto nel pontefice, un’autorità capace di svolgere una funzione di sostegno, ordine, pacificazione e moderazione degli animi tanto che proprio per questo suo perspicace modus operandi in seguito si meritò l’appellativo di Defensor civitatis. Come previsto dal compromesso faticosamente raggiunto il 12 aprile del 1944 con i vari leaders dei partiti antifascisti Vittorio Emanuele III, il giorno successivo alla liberazione di Roma, abdicò al trono firmando, nella sua residenza salernitana di villa Episcopio a Ravello, il decreto di nomina del figlio Umberto di Savoia luogotenente generale del Regno. L’incubo era finito. La liberazione di Roma, infatti, era il preludio della vittoria finale di cui si dovrà attendere, però, ancora un altro anno. In questo modo l’Italia, dopo il bieco ventennio, voltava definitivamente pagina e si accingeva a scrivere un nuovo capitolo della sua storia.
© Giovanni Preziosi, 2023
Tutti i diritti riservati. Tutti i contenuti pubblicati in questo articolo sono protetti da copyright e non possono, né in tutto né in parte, in qualsiasi forma o tramite qualsiasi mezzo, essere utilizzati, modificati, copiati, pubblicati o riprodotti senza il consenso scritto dell’Autore e la citazione della fonte.
Thank you for subscribing to the newsletter.
Oops. Something went wrong. Please try again later.