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58 anni fa si chiudeva la terza fase del Concilio Ecumenico Vaticano Secondo

Cosa rappresentò per il mondo e l’intera cristianità questo evento e quale è stata l’eredità e le sfide che ha lasciato alla Chiesa?

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Il 21 novembre di cinquantotto anni fa, proprio in questo giorno, con una solenne allocuzione pronunciata da Paolo VI, si concludeva la IIIa Sessione del Concilio Vaticano II.

Ma cosa rappresentò per il mondo e l’intera cristianità questo evento e quale è stata l’eredità e le sfide che ha lasciato alla Chiesa? Qui di seguito cercheremo di illustrarne alcuni particolari che, a giusta ragione, conferirono a questo evento un significato “ecumenico” nel vero senso della parola.

Il 21° Concilio ecumenico della Chiesa cattolica, convocato dal papa Giovanni XXIII, si aprì ufficialmente il 25 gennaio 1959 nell’Abbazia di San Paolo fuori le Mura, alla presenza di 2.908 partecipanti – tra vescovi e altri titolati –  segnando una tappa decisiva nel rinnovamento della Chiesa e nell’apertura al dialogo proficuo con altre confessioni religiose, anche non di matrice cristiana, come quella ebraica. Non cambiare radicalmente quello che lo stesso Papa Giovanni definiva il depositum fidei, bensì modificare la forma con cui presentare la fede cristiana agli uomini del suo tempo.

Papa Giovanni XXIII

Proprio la sera dell’11 ottobre 1962, all’imbrunire il Papa si era appena ritirato nella sua camera, dopo una giornata intensa che aveva sancito l’apertura ufficiale del Concilio. Ma dalla sua finestra si riusciva ad intravedere una schiera di fedeli con le fiaccole accese che gremivano fino all’inverosimile Piazza San Pietro tanto che, come ricorda l’allora segretario, monsignor Loris Capovilla, «mi venne l’ispirazione di suggerire al Papa: “Santità, si affacci, dica loro una parola…»

Fu il famoso Discorso alla Luna che riportiamo qui di seguito.

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Papa Giovanni XXIII – Discorso alla Luna (11 Ottobre 1962)

“Il discorso alla luna” di Giovanni XXIII

«Cari figliuoli, sento le vostre voci. La mia è una voce sola, ma riassume la voce del mondo intero; qui tutto il mondo è rappresentato. Si direbbe che persino la luna si è affrettata, stasera – osservatela in alto! – a guardare a questo spettacolo.
Noi chiudiamo una grande giornata di pace; di pace: « Gloria a Dio, e pace agli uomini di buona volontà ». Ripetiamo spesso questo augurio e quando possiamo dire che veramente il raggio, la dolcezza della pace del Signore ci unisce e ci prende, noi diciamo: “Ecco qui un saggio di quello che dovrebbe essere la vita, sempre, di tutti i secoli, e della vita che ci attende per l’eternità”.
Dite un poco: se domandassi, potessi domandare a ciascuno: “Voi da che parte venite?”, i figli di Roma che sono qui specialmente rappresentanti [risponderebbero]: “Noi siamo i vostri figliuoli più vicini, Voi siete il Vescovo di Roma”. Ma voi, figliuoli di Roma, voi sentite di rappresentare veramente la Roma caput mundi, così come nella Provvidenza è stata chiamata ad essere: per la diffusione della verità e della pace cristiana.
In queste parole c’è la risposta al vostro omaggio. La mia persona conta niente, è un fratello che parla a voi, diventato padre per la volontà di Nostro Signore, ma tutt’insieme: paternità e fraternità e grazia di Dio, tutto, tutto!
Continuiamo, dunque, a volerci bene, a volerci bene così, a volerci bene così, guardandoci così nell’incontro, cogliere quello che ci unisce, lasciar da parte quello – se c’è – qualche cosa che ci può tenere un po’ in difficoltà.
Niente: Fratres sumus! La luce che splende sopra di noi, che è nei nostri cuori, che è nelle nostre coscienze, è luce di Cristo, il quale veramente vuol dominare, con la grazia sua, tutte le anime.
Stamattina è stato uno spettacolo che neppure la Basilica di San Pietro, che ha quattro secoli di storia, non ha mai potuto contemplare.
Apparteniamo quindi ad un’epoca, nella quale siamo sensibili alle voci dall’alto: e vogliamo essere fedeli e stare secondo l’indirizzo che il Cristo benedetto ci ha fatto.
Finisco, dandovi la benedizione. Accanto a me amo invitare la Madonna santa e benedetta, di cui oggi ricordiamo il grande mistero.
Ho sentito qualcuno di voi che ha ricordato Efeso e le lampade accese intorno alla basilica di là, che io ho veduto con i miei occhi, non a quei tempi, si capisce, ma recentemente, e che ricorda la proclamazione del dogma della divina maternità di Maria.
Ebbene, invocando lei, alzando tutti insieme lo sguardo verso Gesù benedetto, il figliol suo, ripensando a quello che è con voi, a quello che è nelle vostre famiglie, di gioia, di pace e anche, un poco, di tribolazione e di tristezza, la grande benedizione accoglietela di buon animo.
Questa sera lo spettacolo offertomi è tale da restare ancora nella mia memoria, come resterà nella vostra. Facciamo onore alla impressione di questa sera. Che siano sempre i nostri sentimenti come ora li esprimiamo davanti al cielo e davanti alla terra: fede, speranza, carità, amore di Dio, amore dei fratelli; e poi, tutti insieme, aiutati così nella santa pace del Signore, alle opere del bene !
Tornando a casa, troverete i bambini; date una carezza ai vostri bambini e dite: “Questa è la carezza del Papa”. Troverete qualche lacrima da asciugare. Fate qualcosa, dite una parola buona. Il Papa è con noi specialmente nelle ore della tristezza e dell’amarezza.
E poi, tutti insieme ci animiamo cantando, sospirando, piangendo, ma sempre sempre pieni di fiducia nel Cristo che ci aiuta e che ci ascolta, continuare e riprendere il nostro cammino».

Papa Giovanni XXIII – Discorso alla Luna (11 Ottobre 1962)

In tale circostanza, dunque, si confrontarono varie correnti di pensiero, anche con diversi approcci teologici che, dopo accesi ed appassionati dibattiti, emanarono ben 16 documenti – 4 Costituzioni, 9 Decreti e 3 Dichiarazioni – tra cui spiccano le costituzioni sulla divina rivelazione (Dei Verbum, 18 novembre 1965) e sulla Chiesa (Lumen Gentium, 11 novembre 1964) e la costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo moderno (Gaudium et Spes, 7 dicembre 1965).

Inoltre, per la prima volta nella storia dei concili, furono invitati numerosi delegati, in qualità di osservatori, non solo delle Chiese protestanti – com’era avvenuto già nel Concilio di Trento – ma anche di quelle ortodosse. Gli argomenti sul tappeto erano davvero tanti, ma tutti potevano trovare un comune denominatore nel rinnovamento della Chiesa, sui moderni mezzi di comunicazione, sulle relazioni tra cristiani ed ebrei, sulla libertà religiosa, sul compito dei laici nella Chiesa, sulla liturgia, sulle relazioni con gli altri cristiani e non-cristiani, credenti e atei, sui compiti del clero e sulla formazione sacerdotale.

L’obiettivo principale che si era posto Papa Giovanni XXIII quando indisse il Concilio mirava, da un lato, ad un aggiornamento della Chiesa cattolica per poter parlare a tutti all’interno e fuori dalla Chiesa e, dall’altro, al perseguimento dell’unità dell’umanità e dei cristiani. Proprio nel solco tracciato da Papa Roncalli, si mosse il suo successore, Papa Paolo VI, che raccolse il testimone che gli aveva lasciato Papa Giovanni XXIII ponendo l’accento in particolare sul dialogo con il mondo moderno in un’epoca che ormai attraversava mutamenti sempre più sconvolgenti, concluse solennemente l’assise conciliare l’8 dicembre 1965.

Uno dei frutti più interessanti che alla fine si riuscì a cogliere fu proprio lo sviluppo delle relazioni tra le Chiese cristiane e l’apertura a nuove forme di apostolato e di spiritualità.

Tra tutti questi documenti conciliari riportiamo, qui di seguito, proprio quello che segnò un passo decisivo nel tracciare il solco di un proficuo e fecondo dialogo ecumenico interreligioso, in particolare con i nostri “fratelli maggiori” ebrei, condannando fermamente l’antisemitismo e ogni forma di discriminazione, sancito solennemente nella Dichiarazione intitolata “Nostra aetate” promulgata il 28 ottobre 1965.

Dichiarazione circa le relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane. 

«NOSTRA AETATE» 

Introduzione.
Nel nostro tempo in cui il genere umano si unifica di giorno in giorno piú strettamente e cresce l’interdipendenza tra i vari popoli, la Chiesa esamina con maggiore attenzione la natura delle sue relazioni con le religioni non-cristiane. Nel suo dovere di promuovere l’unità e la carità tra gli uomini anzi segnatamente fra i popoli, essa esamina qui innanzitutto tutto ciò che gli uomini hanno in comune e che li spinge a vivere insieme il loro comune destino. Infatti tutti i popoli costituiscono una sola comunità. Essi hanno una sola origine poiché Dio ha fatto abitare l’intero genere umano su tutta la faccia della terra; essi hanno anche un solo fine ultimo, Dio, del quale la provvidenza, la testimonianza di bontà e il disegno di salvezza si estendono a tutti; finché gli eletti si riuniscano nella città santa, che la gloria di Dio illuminerà e dove i popoli cammineranno nella sua luce. Gli uomini delle varie religioni attendono la risposta agli oscuri enigmi della condizione umana che ieri come oggi turbano profondamente il cuore dell’uomo: la natura dell’uomo, il senso e il fine della nostra vita, il bene e il peccato, l’origine e il fine del dolore, la via per raggiungere la vera felicità, la morte, il giudizio e la sanzione dopo la morte, infine l’ultimo e ineffabile mistero che circonda la nostra esistenza, dal quale noi traiamo la nostra origine e verso cui tendiamo.
Le diverse religioni non cristiane.
Dai tempi più antichi fino a oggi presso i vari popoli si trova una certa sensibilità di quella forza arcana che è presente al corso delle cose e agli avvenimenti della vita umana, e anzi talvolta si riconosce la divinità suprema o anche il Padre. Sensibilità e conoscenza che compenetrano la loro vita di un senso religioso. Le religioni connesse col progresso della cultura, si sforzano di rispondere alle stesse questioni con nozioni più raffinate e con un linguaggio più elaborato. Così nell’induismo gli uomini scrutano il mistero divino e lo esprimono con la inesauribile fecondità dei miti e con i penetranti tentativi della filosofia; essi cercano la liberazione dalle angosce della nostra condizione sia attraverso forme di vita ascetica, sia nella meditazione profonda, sia nel rifugio in Dio con amore e confidenza. 167 Nel buddismo, secondo le sue varie scuole, viene riconosciuta la radicale insufficienza di questo mondo mutevole e si insegna una via per la quale gli uomini, con cuore devoto e confidente, siano capaci di acquistare lo stato di liberazione perfetta o di pervenire allo stato di illuminazione suprema sia per mezzo dei propri sforzi sia con l’aiuto venuto dall’alto. Ugualmente anche le altre religioni che si trovano nel mondo intero si sforzano di superare, in vari modi, l’inquietudine del cuore umano proponendo delle vie, cioè delle dottrine, dei precetti di vita e dei riti sacri.
La Chiesa cattolica nulla rigetta di quanto è vero e santo in queste religioni. Essa considera con sincero rispetto quei modi di agire e di vivere, quei precetti e quelle dottrine che, quantunque in molti punti differiscano da quanto essa stessa crede e propone, tuttavia non raramente riflettono un raggio di quella Verità che illumina tutti gli uomini. Essa però annuncia ed è tenuta ad annunziare incessantemente Cristo che è “la via, la verità e la vita” (Gv. 14, 6), in cui gli uomini trovano la pienezza della vita religiosa e in cui Dio ha riconciliato a sé tutte le cose. Essa perciò esorta i suoi figli affinché, con prudenza e carità, per mezzo del dialogo e la collaborazione con i seguaci delle altre religioni, rendendo testimonianza alla fede e alla vita cristiana, riconoscano, conservino e facciano progredire i beni spirituali e morali e i valori socio-culturali che si trovano in essi.
La religione giudaica.
Scrutando il mistero della Chiesa, questo sacro Concilio ricorda il vincolo con cui il popolo del nuovo testamento è spiritualmente legato con la stirpe di Abramo. La Chiesa di Cristo infatti riconosce che gli inizi della sua fede e della sua elezione si trovano già, secondo il mistero divino della salvezza, nei patriarchi, in Mosè e nei profeti.
Essa afferma che tutti i fedeli di Cristo, figli di Abramo secondo la fede, sono inclusi nella vocazione di questo patriarca e che la salvezza della Chiesa è misteriosamente prefigurata nell’esodo del popolo eletto dalla terra di schiavitù. Per questo la Chiesa non può dimenticare che ha ricevuto la rivelazione dell’antico testamento per mezzo di quel popolo con cui Dio, nella sua ineffabile misericordia, si è degnato di stringere l’antica alleanza, e che essa si nutre della radice dell’ulivo buono su cui sono stati innestati i rami dell’ulivo selvatico che sono i popoli pagani. La Chiesa crede infatti che Cristo, la nostra pace, ha riconciliato gli ebrei e i popoli pagani per mezzo della sua croce e dei due ha fatto uno solo in se stesso. La Chiesa ha pure sempre davanti agli occhi le parole dell’apostolo Paolo riguardo agli uomini della sua stirpe, “ai quali appartengono l’adozione filiale, la gloria, i patti di alleanza, la legge, il culto e le promesse, essi che sono i discendenti dei patriarchi e dai quali è Cristo secondo la carne” (Rom. 9, 4-5), figlio di Maria vergine. Essa ricorda anche che dal popolo ebraico sono nati gli apostoli, fondamenta e colonne della Chiesa, e quei moltissimi primi discepoli che hanno annunciato al mondo il Vangelo di Cristo. Come attesta la Sacra Scrittura, Gerusalemme non ha conosciuto il tempo quando è stata visitata; gli ebrei, in gran parte, non hanno accettato il Vangelo, e anzi non pochi si sono opposti alla sua diffusione. Tuttavia, secondo l’apostolo, gli ebrei, in grazia dei padri, rimangono ancora carissimi a Dio, i cui doni e la cui chiamata sono senza pentimento. Con i profeti e con lo stesso apostolo la Chiesa attende il giorno che solo Dio conosce in cui tutti i popoli acclameranno il Signore con una sola voce e “lo serviranno appoggiandosi spalla a spalla” (Sof. 3, 9). Essendo perciò tanto grande il patrimonio spirituale comune ai cristiani e agli ebrei, questo sacro Concilio vuole promuovere e raccomandare tra loro la mutua conoscenza e stima, che si ottengono soprattutto dagli studi biblici e teologici e da un fraterno dialogo. E se le autorità ebraiche con i propri seguaci si sono adoperate per la morte di Cristo, tuttavia quanto è stato commesso durante la sua passione non può essere imputato né indistintamente a tutti gli ebrei allora viventi né agli ebrei del nostro tempo. E se è vero che la Chiesa è il nuovo popolo di Dio, gli ebrei tuttavia non devono essere presentati né come rigettati da Dio, né come maledetti, come se ciò scaturisse dalla Sacra Scrittura. Pertanto tutti nella catechesi e nella predicazione della parola di Dio facciano attenzione a non insegnare alcunché che non sia conforme alla verità del Vangelo e dello spirito di Cristo. La Chiesa inoltre, che esecra tutte le persecuzioni contro qualsiasi uomo, memore del patrimonio che essa ha in comune con gli ebrei e spinta non da motivi politici ma da religiosa carità evangelica, deplora gli odi, le persecuzioni e tutte le manifestazioni dell’antisemitismo dirette contro gli ebrei in ogni tempo e da chiunque. Del resto Cristo, come la Chiesa ha sempre sostenuto e sostiene, in virtù del suo immenso amore, si è volontariamente sottomesso alla sua passione e morte a causa dei peccati di tutti gli uomini, affinché tutti gli uomini conseguano la salvezza. Il dovere della Chiesa, nella sua predicazione, è dunque di annunciare la croce di Cristo come il segno dell’amore universale di Dio e come la fonte di ogni grazia.
Roma, presso S. Pietro, 28 ottobre 1965.
Io Paolo, vescovo della Chiesa cattolica.
(Seguono le firme dei padri conciliari).


Per una comprensione più esaustiva dello spirito che animò i padri conciliari e sulla reale portata storica di questo avvenimento nella vita della Chiesa, riportiamo qui di seguito una suggestiva intervista rilasciata dal compianto cardinale Carlo Maria Martini che ci offre lo spunto per una sorta di catechesi conciliare sul nostro tempo.

Il cardinale Martini sul Concilio Vaticano II

«I migliori anni della mia vita»*

Intervista al cardinale Carlo Maria Martini

sul Concilio Vaticano II

Eminenza, qual è il Suo ricordo degli anni del Concilio?

Conservo soprattutto il ricordo dell’atmosfera di quegli anni, una sensazione di entusiasmo, di gioia e di apertura che ci pervadeva. Ho trascorso durante il Concilio gli anni migliori della mia vita, non solo e non tanto perché avevo meno di quarant’anni, ma perché si usciva finalmente da un’atmosfera che sapeva un po’ di muffa, di stantio, e si aprivano porte e finestre, circola- va l’aria pura, si guardava al dialogo con tante altre realtà, e la Chiesa appariva veramente capace di affrontare il mondo moderno. Tutto questo, lo ripeto, ci dava una grande gioia e una forte carica di entusiasmo. Secondo Lei, che cosa rimane oggi di quegli anni? Sono rimaste senz’altro molte cose. Prima di tutto c’è da dire che quelli che l’hanno vissuto hanno fatto un passo importantissimo per la loro vita, perché hanno ricevuto dal Concilio una fiducia rinnovata nelle possibilità della Chiesa di parlare a tutti. Poi restano molti elementi contenuti nei vari documenti conciliari: penso alla liturgia, all’ecumenismo, al dialogo con le altre fedi, alla riflessione sulla Scrittura. Per la nostra Chiesa una grande ricchezza che mantiene intatta tutta la sua attualità e tutto il suo valore.

E invece a Suo giudizio che cosa si è perso?

Non è facile rispondere. Ci sono state certamente un po’ di deviazioni, ma soprattutto all’estero, non qui da noi in Italia. Direi che ciò che si è perso è proprio quel- l’entusiasmo, quella fiducia di cui parlavo prima, quella capacità di sognare che il Concilio aveva comunica- to alla nostra Chiesa e che ci procurò tanta gioia. Si è tornati un po’ alle acque basse, a una certa mediocrità.

Alcuni dicono che il Concilio fu contrassegnato dal contrasto netto tra una maggioranza progressista, chiamiamola così, di vescovi e teologi e la Curia romana che remava contro. Condivide questa ricostruzione?

Sì, penso che in effetti ci sia stata questa contrapposizione. Non si può negare che in certi settori della Curia c’era una forza frenante. Ma questo è comprensibile, perché la Curia era abituata a fare tutti i decreti, a tenere in mano tutto, e quindi si può capire bene che per i curiali vedersi sfuggire di mano questo controllo non fu piacevole.

Eminenza, qual è il personaggio del Concilio che ricorda di più?

Ce ne sono davvero tanti. Mi piace ricordare dom Helder Camara, l’arcivescovo e teologo brasiliano, morto nel 1999. Sto leggendo proprio in questo periodo le lettere che indirizzava ai suoi amici in Brasile, scrivendole ogni notte alle due1. Una grande figura! E poi ricordo il cardinale belga Leo Jozef Suenens, l’arcivescovo  di Malines-Bruxelles  che sostenne  alcune tesi molto coraggiose. Fra le persone che non parteciparono direttamente ai lavori del Concilio, ma che furono molto vicine a quell’atmosfera di rinnovamento ricordo il padre gesuita Stanislas Lyonnet, grande studioso di san Paolo, che insegnava al Pontificio istituto biblico e che aveva molti contatti con i Padri Conciliari. Devo dire che fu un tempo di grandi amicizie alimentate da un fortissimo desiderio di conoscenza.

E oggi un Concilio Vaticano III sarebbe utile per la Chiesa?

Non è facile rispondere. C’è il pro e il contro. Secondo me certamente alla Chiesa servirebbe fare ogni tanto un Concilio per mettere a paragone i diversi linguaggi. Io avverto questa necessità, perché mi sembra che ci sia proprio una difficoltà nel capirsi. Non credo, però, che dovrebbe essere un Concilio come il Vaticano II, cioè dedicato a tutti i problemi della Chiesa e dei suoi rapporti con il mondo. Al centro di un eventuale nuovo Concilio bisognerebbe mettere soltanto uno o due temi e poi, una volta esaminati ed esauriti questi, convocare un altro Concilio dopo dieci, quindici anni, incentrandolo a sua volta su pochi argomenti. Sì, penso che dovrebbe essere questa la linea da seguire.

E Lei, che a Milano diede vita alla Cattedra dei non credenti, pensa che si potrebbe pensare a un Concilio aperto a chi non crede, ai più lontani, per lanciare un messaggio anche a loro?
Non vedo un Concilio di questo tipo. Però è certo che, quando parla, un Concilio parla anche ai non credenti. Perché la preoccupazione del Concilio, di ogni Concilio che sia veramente tale, deve essere quella di farsi capire e quindi di arrivare veramente a tutti, non solo ai cattolici. Nel Concilio Vaticano II questa preoccupazione fu ben presente ed è un altro motivo per cui lo ricordo con gioia e gratitudine.

* Breve intervista del giornalista di Rai 1, Aldo Maria Valli, al Cardinale Martini sui suoi ricordi ai tempi del Vaticano II e sui suoi effetti nella Chiesa di oggi.

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