8 settembre 1943: Proclamazione dell’Armistizio. L’Italia volta pagina
«Il governo italiano – dichiarava il maresciallo Badoglio –, riconosciuta l’impossibilità di continuare l’impari lotta contro la soverchiante potenza avversaria, nell’intento di risparmiare ulteriori e più gravi sciagure alla Nazione ha chiesto un armistizio al generale Eisenhower, comandante in capo delle forze alleate anglo-americane. La richiesta è stata accolta».
Mentre i massicci bombardamenti a tappeto sferrati dagli alleati devastavano le maggiori città italiane, il 3 settembre veniva segretamente siglato, nei pressi di Cassibile, un armistizio che, in realtà, costituiva una vera e propria “resa senza condizioni” dell’Italia rispetto le Forze Alleate.
Esso, in realtà, fu reso noto soltanto la sera dell’8 settembre con alcuni giorni di anticipo rispetto al previsto, prima dai microfoni di Radio Algeri da parte del generale Dwight Eisenhower e, a distanza di qualche ora, per la precisione alle 19.42, confermato dal Capo del Governo, il maresciallo d’ItaliaPietro Badoglio attraverso i microfoni dell’EIAR, che cambiò le sorti della Seconda guerramondiale e dell’Italia in particolare.
Questa apparente incongruenza, in realtà, si rivelò un eccellente espediente utilizzato abilmente dal governo italiano come pretesto per giustificare il marasma che ne seguì, scaricando in tal modo sugli alleati le proprie pesanti responsabilità. La proclamazione dell’armistizio, dopo un mese e mezzo dalla disfatta del regime fascista, fu accolta dalla popolazione con evidenti manifestazioni di giubilo, accompagnate dalla speranza di poter finalmente riabbracciare i propri congiunti provenienti dai vari fronti di guerra o dalla turpe prigionia. Tuttavia, un sinistro presagio serpeggiava negli animi della gente, intimorita dalla recrudescenza della barbarie nazista, stretta nella morsa dello sbarco imminente degli alleati.
A quel punto anche la Santa Sede, ispirata dal sommo pontefice, decise di rompere ogni indugio, soprattutto dopo aver ricevuto un telegramma dal delegato apostolico in America, mons. Amleto Giovanni Cicognani nel quale, con una certa apprensione, comunicava che le autorità americane non riuscivano a comprendere a fondo se l’operato del governo presieduto dal maresciallo Badoglio era dettato più da «spontaneità oppure [da] forzata continuazione della cooperazione e intesa con [la] Germania». Il 26 luglio 1943, infatti, il rappresentante personale del presidente americano in Vaticano, Myron C. Taylor, aveva fatto pervenire immediatamente un “memorandum” sulla situazione politica italiana al presidente Roosevelt. Tuttavia l’ira del Führer raggiunse l’acme quando l’8 settembre venne a sapere che l’Italia aveva stipulato l’armistizio con gli Alleati. Così, per ritorsione, ordinò subito al comandante delle S.S. in Italia, l’Obergruppenführer Karl Wolff, di occupare il Vaticano, mettere al sicuro gli archivi e i tesori d’arte e “trasferire” il papa altrove, probabilmente nel Württemberg tra le mura del Castello di Lichtestein.
Fu a Lisbona, in realtà, che si decisero le sorti dell’Italia. Nella capitale portoghese, infatti, fu inviato il generale Giuseppe Castellano, col preciso intento di allacciare i primi contatti con i rappresentanti diplomatici delle forze avversarie, l’ambasciatore britannico Ronald Campbell il generale Dwight Eisenhower, quello statunitense Walter Bedell Smith e il britannico Kenneth Strong che, dopo qualche esitazione, si mostrarono favorevoli ad accettare la resa incondizionata dell’Italia. In realtà questa prospettiva appariva come una sorta di onorevole “compromesso” tra le forze Alleate per questioni squisitamente di equilibri geo-politici. Pertanto, appena rimise piede a Roma, il 27 agosto, Castellano, a distanza di appena tre giorni, fu immediatamente convocato da Badoglio allo scopo di essere edotto della questione e del compromesso che si andava, nel frattempo, profilando.
Il generale comunicò subito al Capo del governo che, l’ambasciatore britannico presso la Santa Sede, D’Arcy Osborne che collaborava a stretto contatto con il collega statunitense Myron Charles Taylor, aveva ufficialmente avanzato la richiesta di un incontro con i rappresentanti italiani in Sicilia, appena liberata dai nazifascisti. A quel punto Badoglio, senza battere ciglio, diede il proprio assenso inviando lo stesso Castellano nell’isola per il disbrigo delle ultime pratiche burocratiche ed apporre la firma in calce al documento che sanciva irrevocabilmente la resa incondizionata dell’Italia e la rottura dell’alleanza con i tedeschi.
Le condizioni dell’Armistizio, imposte dal generale Dwight D. Eisenhower, Generale Comandante delle Forze armate alleate, autorizzate dai Governi degli Stati Uniti e della Gran Bretagna nell’interesse delle Nazioni Unite, furono accettate dal Maresciallo Badoglio, Capo del Governo italiano.
Dunque, alle speranze che accompagnarono la firma dell’armistizio seguì un dubbio inquietante che percorreva la mente di ogni italiano: cosa faranno adesso i tedeschi? Lasceranno l’Italia in mano agli Anglo–Americani oppure la difenderanno a ferro e fuoco, dando sfogo a tutta la loro sete di vendetta? E gli Anglo–Americani saranno in grado di effettuare sbarchi in grande stile per stroncare possibili rafforzamenti tedeschi?
In effetti l’annuncio dell’armistizio comunicato da Badoglio al Paese, gettò l’Italia nel caos più completo. In questa tragedia collettiva la pagina più sconcertante fu scritta proprio dall’improntitudine mostrata in più di un’occasione dalla classe dirigente italiana che, in tale circostanza, diede prova del suo egoismo e della sua inettitudine. Così, mentre l’Italia annaspava nel più totale marasma, il Re ed il governo, senza battere ciglio, abbandonavano al suo turpe destino la capitale per riparare a Brindisi, sotto la protezione degli alleati appena sbarcati in Puglia, i tedeschi– a loro volta – diedero libero sfogo alla bramosia di vendetta, occupando in modo sistematico tutta l’Italia centro–settentrionale.
Come sempre Vittorio Emanuele – che appena qualche ora prima aveva assicurato Hitler attraverso l’ambasciatore Rudolf Rahn che “l’Italia non capitolerà mai [perché] era legata alla Germania per la vita e per la morte” – cercava di pagare il prezzo più basso possibile, lasciando che fossero le armi inglesi ed italiane ad affrontare e risolvere il problema dei tedeschi in Italia. «In pratica però la monarchia, – scrive giustamente Simona Colarizi –, con gli occhi rivolti solo alla sua incolumità, non capisce che l’Italia rappresenta in primo luogo per gli alleati una pedina nello scacchiere complessivo della guerra, in cui si vanno facendo prioritari altri settori».
Stipulato l’armistizio, nel clima vergognoso del si salvi chi può, il Re ed il governo avevano, dunque, precipitosamente abbandonato la capitale per riparare prima a Pescara, da dove la sera del 9 settembre si erano imbarcati sulla corvetta Baionetta per raggiungere Brindisi e rifugiarsi sotto la protezione degli alleati che, nel frattempo, erano appena sbarcati in Puglia. Lasciarono, in tal modo, il Paese al suo destino cinico e baro, senza neanche degnarsi di dare le disposizioni necessarie ai reparti dell’esercito ancora efficienti e capaci di combattere, dislocati nella penisola e nei territori d’oltre mare. Di conseguenza, nelle settimane immediatamente successive. più di 600.000 soldati italiani vennero fatti prigionieri dai nazisti e destinati nei vari Lager con la qualifica di I.M.I. (internati militari italiani) . Si calcola, infatti che in tale circostanza – in preda allo sbandamento generale – oltre il 50% dei soldati abbandonarono le armi ed in abiti civili fecero precipitosamente ritorno presso le proprie abitazioni pervasi dal desiderio di riabbracciare i loro cari.
Nel frattempo, un’altra componente delle forze armate decise di rimanere fedele ala Corona, impegnandosi attivamente in una stoica resistenza di cui uno degli esempi più eminenti fu la Divisione Acqui di stanza sull’isola greca di Cefalonia che, tuttavia, pagò con la vita questo eroico atto di fedeltà, finendo barbaramente passata per le armi dai nazisti. Un altro manipolo dell’esercito si diede subito alla macchia impegnandosi attivamente nei vari partiti e movimenti delle formazioni partigiane come la Brigata Maiella ed altre. Altri, infine, soprattutto dislocati nel settentrione, come ad esempio la Xª Flottiglia MAS, si schierarono apertamente con il vecchio alleato teutonico, aderendo al fascismo repubblichino di Salò usque ad finem. Proprio per questo, nonostante il proclama di Badoglio, gli alleati ostacolarono una massiccia e immediata scarcerazione dei POW italiani fedeli al Regno del Sud, col preciso intento di scongiurare un eventuale ricongiungimento con le forze armate fasciste presenti nel nord Italia.
Così, mentre nell’Italia centro–settentrionale occupata dalle truppe tedesche, la lotta politica si svolgeva nella più rigorosa clandestinità, nell’Italia meridionale, che già aveva beneficiato della liberazione ad opera degli alleati, essa poteva svolgersi apertamente, sia pure con notevoli limitazioni a causa dell’occupazione militare. In questo periodo, alle già precarie condizioni di vita faceva da pendant lo sfascio istituzionale: l’autorità detenuta fino a quel momento dai podestà venne, infatti, repentinamente svuotata di ogni legittimità da parte del fascismo, al punto che le loro funzioni venivano esercitate sotto l’egida attenta dell’esercito. Le manifestazioni di ribellione in ordine sparso, rappresentavano la valvola di sfogo per quegli animi a lungo repressi e tuttavia non costituivano la risposta più efficace ai problemi categorici imposti dalla gravità della situazione. Occorrevano, viceversa, delle idee ed un minimo di organizzazione. All’indomani dello sbarco degli Alleati in Sicilia, tutte le circostanze non lasciavano alcuno spazio a soverchie speranze coltivate premurosamente fino ad allora; e come un sinistro presagio sembrava annunciare che ormai un’imminente catastrofe si stagliava all’orizzonte.
Nel frattempo Badoglio, espressione di quella monarchia responsabile non solo dell’avvento del fascismo, ma anche della disfatta militare, non trovava di meglio che proclamare la continuazione della guerra, con buona pace delle legittime aspettative che serbava il Paese. La risposta immediata della popolazione fu la diserzione militare e la renitenza alla leva, fenomeni che raggiunsero ben presto proporzioni parossistiche dopo la firma dell’armistizio. Proprio contro questa politica, la moltitudine della popolazione italiana avvertiva l’esigenza di insorgere in qualche modo. D’altra parte, col trascorrere dei giorni il fervore degli animi, indotto dagli eventi, ma non sorretto – in realtà – da alcuna idea organizzativa, né da una precisa piattaforma programmatica, andava rifluendo traducendosi in uno stato di quieta preoccupazione e, tra i più avvertiti, di attesa spasmodica per un nuovo atto di governo che avrebbe finalmente posto fine alle ostilità.
«Il percorso di uscita dal tunnel della dittatura e della guerra – sostiene Guido D’Agostino – si e(ra) svolto, […] a partire dal disancoraggio della popolazione dall’appoggio al regime, maturato di fronte alle inadempienze politiche della dittatura nei confronti del problema meridionale e al sempre più duro impatto con la realtà, amarissima, della guerra, così come dal distacco dei circoli economici, sociali e culturali preminenti, via via persuasi dall’inevitabilità della sconfitta finale del fascismo». Ma, a mano a mano che si affievoliva la capacità di mobilizzazione delle masse, ricominciava invece a farsi sentire con più insistenza la voce delle autorità periferiche, intente ad eseguire gli ordini che provenivano dal centro e ad imporre il divieto degli assembramenti e di qualsiasi attività propagandistica.
È in questo clima di sostanziale ricomposizione del quadro repressivo – che appariva dunque immutato e riproduceva lo status quo ante il 25 luglio – che maturò la decisione di alcuni democratici di passare ad un’azione di denuncia del disegno reazionario che si celava dietro la manovra continuistica del governo-Badoglio, mirante a colmare qualsiasi vuoto di potere con la prosecuzione delle operazioni militari da un lato, e dall’altro con una progressiva riappropriazione di autorità da parte della Monarchia, a cui l’eliminazione dell’ipoteca fascista si sperava potesse far riacquistare il prestigio e il favore popolare svanito con l’avvento della dittatura.
Tuttavia, successivamente, il tramonto dell’ipotesi monarchico–autoritaria inaugurò una lunga fase nel corso della quale la coalizione dei partiti antifascisti si configurava come soluzione necessariamente transitoria, legata alla situazione di eccezionalità del Paese. Queste formazioni politiche, in seguito alla costituzione del C.L.N. nei giorni immediatamente successivi all’armistizio, si proponevano come gli autentici rappresentanti dell’Italia democratica, in contrapposizione ai fascisti ed alla stessa monarchia, ritenuta corresponsabile dell’instaurazione della dittatura e della guerra; tuttavia non avevano la forza necessaria per imporre il loro punto di vista. Difatti, il governo Badoglio godeva della fiducia degli alleati, in quanto garante degli impegni assunti mediante la stipulazione dell’armistizio. La contraddizione latente tra l’attività dei partiti nell’ambito del tessuto sociale e il loro peso nella compagine governativa metteva in risalto, tuttavia, la precarietà di questo governo di unità nazionale. Del resto, come gli eventi successivi s’incaricheranno di dimostrare, il compromesso raggiunto con la monarchia nella primavera del ‘44 costituiva appunto il riflesso di questa situazione alla quale i partiti antifascisti si piegarono in condizioni di estrema debolezza del C.L.N., senza convinzioni e con notevoli riserve da parte delle compagini non comuniste del frastagliato arcipelago del fronte progressista.
Ma questa è tutta un’altra storia che, magari, affronteremo prossimamente…