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“Non c’è più niente da fare”

Padre Pancrazio Pfeiffer era stato compagno di scuola del comandante della città di Roma il generale Kurt Mälzer. Fu incaricato di tentare una mediazione ma non riuscì a salvare i 335 che furono massacrati dai nazisti alle Fosse Ardeatine.

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Dopo la fuga del re e dei membri del governo Badoglio, Roma divenne teatro di cruenti combattimenti tra le varie formazioni partigiane e le forze d’occupazione tedesche, considerate fin dall’inizio come un autentico corpo estraneo. A rendere il clima se possibile ancora più incandescente, contribuì alcuni mesi dopo, l’attentato che si consumò nella capitale alle 15,45 del 23 marzo 1944 in via Rasella – proprio nello stesso giorno in cui i fascisti celebravano il 25° anniversario della fondazione dei Fasci di Combattimento – ad opera di un nucleo dei gruppi di Azione Patriottica (G.A.P.) delle brigate Garibaldi capeggiati da Rosario Bentivegna, ai danni della 11ª Compagnia di riservisti altoatesini del 3° Battaglione SS-Polizei-Regiment “Bozen” agli ordini del maggiore Helmut Dobbrick, che quel giorno erano reduci dalle esercitazioni al poligono di tiro di Ponte Milvio.

Alla fine questo atto temerario costò la vita a ben 33 soldati dei 156 che componevano la pattuglia, senza contare le altre persone, tra militari e civili, che rimasero ferite piuttosto seriamente. Nello scontro a fuoco, infatti, furono uccisi anche Antonio Chiaretti, Enrico Pascucci, Antonietta Baglioni e un ragazzo di tredici anni Piero Zuccheretti, che lavorava come apprendista ottico in via degli Avignonesi. Le reazioni dei nazisti non si fecero attendere al punto che, per rappresaglia, subito dopo furono rastrellate circa 110 persone ammassate lungo il muro di recinzione di palazzo Barberini, in via Quattro Fontane. Quindi, su espressa indicazione di Hitler, pervenuta tramite l’Oberkomando der Wehrmacht fu impartito l’ordine perentorio di trucidare dieci italiani per ogni vittima tedesca. In realtà, all’inizio il Führer, montato su tutte le furie per l’accaduto, aveva dato precise disposizioni che fossero passati per le armi ben 50 italiani per ogni tedesco ucciso a via Rasella!

Piero Zuccheretti, all’anagrafe Pietro (Roma, 4 maggio 1931 – Roma, 23 marzo 1944)

Nella lista dei Todeskandidaten meticolosamente stilata da Kappler, oltre agli ebrei, furono inclusi anche tutti coloro che nei mesi precedenti erano stati condannati a morte e poi graziati, gli antifascisti accusati di reati per cui era prevista la pena capitale, gli ufficiali del Fronte Militare Clandestino del colonnello Montezemolo, quelli della Marina, dell’Aviazione e dell’Esercito, nonché tutti i carabinieri prigionieri dei tedeschi ritenuti estremamente pericolosi, ai quali si aggiunsero anche i prigionieri politici comunisti e azionisti.

Pancrazio (al secolo Markus) Pfeiffer (Brunnen, 18 ottobre 1872 – Roma, 12 maggio 1945)

Ma nonostante ciò i conti a Kappler ancora non tornavano, considerato che era riuscito a racimolare soltanto 285 persone. Si rivolse, perciò, al questore Pietro Caruso che, con l’autorizzazione del Ministro Buffarini Guidi, gli procurò gli altri 50 nominativi per completare la lista. Come in altre circostanze analoghe, anche stavolta padre Pancrazio Pfeiffer cercò di interporre i suoi buoni uffici, col chiaro intento di mitigare il furore dei militari tedeschi che, a quel punto, erano seriamente intenzionati a fare sfoggio di tutta la loro crudeltà. Se non che, improvvisamente, alle ore 10,15 del 24 marzo in Vaticano giunse una telefonata di un funzionario del Governatorato di Roma, che si qualificò come un certo ingegner Ferrero, il quale comunicava che di lì a poco si sarebbe verificata una rappresaglia in seguito all’attentato di via Rasella, aggiungendo tra l’altro: «Finora sono sconosciute le contromisure: si prevede però che per ogni tedesco ucciso, saranno passati per le armi 10 italiani».

Messa in allarme da quel messaggio inquietante, la Segreteria di Stato immediatamente contattò l’Ambasciata tedesca presso la S. Sede per avere maggiori delucidazioni in merito. Tuttavia, la risposta fornita dal ministro consigliere dell’Ambasciata, von Kessel, si dimostrò estremamente evasiva. Non avendo ricevuto alcuna rassicurazione al riguardo, la S. Sede decise allora di adoperare i propri canali riservati per riuscire ad ottenere qualche informazione più precisa.

Don Pietro Pappagallo

Pertanto fu contattato in gran segreto proprio padre Pancrazio Pfeiffer il quale era l’unico che, a quel punto, poteva portare a termine questa delicata missione visto che era stato compagno di scuola proprio del comandante della città di Roma, il Generale Kurt Mälzer. In realtà, il superiore generale dei Salvatoriani appena venuto a conoscenza di questo attentato, già si era messo all’opera fin dal 23 marzo, precipitandosi dal tenente colonnello Herbert Kappler per indurlo a più miti consigli, col preciso intento di ridurre le rappresaglie e salvare la vita ad almeno 35 malcapitati, tra cui il colonnello Montezemolo e il salesiano don Pietro Pappagallo. Tentò, quindi, fino all’ultimo di adempiere a questo gravoso incarico che aveva ricevuto, non lasciando nulla di intentato, ma ciò nonostante, non riuscì a raccogliere i frutti sperati perché il capo della Gestapo era, a quel punto, praticamente irreperibile. Tuttavia non si diede affatto per vinto e, alle prime luci dell’alba del giorno successivo, poche ore prima che venisse eseguito l’ordine di giustiziare barbaramente 335 persone innocenti alle Fosse Ardeatine, si ripresentò in via Tasso per cercare in tutti i modi di conferire con Kappler; ma anche stavolta i suoi febbrili tentativi si rivelarono vani, perché ormai l’ufficiale tedesco era altrove per consumare la sua turpe vendetta.

Difatti quando giunse sul luogo, la mattina del 24 marzo, padre Pfeiffer trovò improvvisamente tutti gli uffici e i comandi tedeschi chiusi. Si sa che in tale circostanza avrebbe dovuto sottoporre all’attenzione del comandante della Gestapo anche la domanda di grazia in favore del comandante del Fronte Militare, il generale Simoni – tratto in arresto nella sua abitazione dalla Polizia tedesca il 23 gennaio 1944 – che però, con il precipitare degli eventi, non riuscì a consegnare al diretto interessato. Ad ogni modo, proprio mentre stava ancora attendendo Kappler in via Tasso, l’intraprendente sacerdote apprese tutti i particolari di quanto era accaduto alle Fosse Ardeatine da alcuni ufficiali tedeschi che avevano preso parte all’eccidio. In quelle ore drammatiche perfino Giulio Andreotti decise di rivolgersi a padre Pancrazio per avere notizie di un suo amico, il sarto Gaetano Sepe – fermato dalla Questura di Roma per motivi politici – che poi purtroppo fu trucidato alle Fosse Ardeatine.

[…] il Padre non mi seppe dire nulla – scrive Andreotti il 7 aprile 1981 in una lettera indirizzata a Giorgio Angelozzi Gariboldi –. Ricordo che passò almeno una settimana, prima di sapere che il mio amico Gaetano Sepe era tra le vittime. Ma il Padre non mi seppe dire, né quante fossero, né dove si trovasse il cadavere. Nei colloqui che ebbi con il Papa, dopo il 23-24 marzo, non raccolsi il minimo cenno che il Papa avesse saputo prima della strage quanto era stato nella notte ed al mattino deciso ed approvato dai tedeschi.

Giulio Andreotti
Il rastrellamento degli abitanti di via Rasella.

Quindi, il 24 marzo del 1944, proprio nell’imminenza dell’esecuzione di quella scellerata sentenza, l’esponente democristiano sollecitò anche l’intervento a beneficio del giovane membro della resistenza romana, capo della VIª Zona, Giuseppe Lo Presti che, però, non sortì gli effetti sperati. Difatti, ricoprendo la carica di presidente della Federazione degli Universitari Cattolici Italiani (F.U.C.I.), di cui era assistente proprio mons. Montini, spesso e volentieri Andreotti si rivolgeva a padre Pancrazio per ottenere la liberazione di molti di questi giovani i quali, come è facile immaginare, facendo parte attiva della Resistenza, inevitabilmente finivano per essere acciuffati dai soldati tedeschi e si ritrovavano dietro le sbarre a Regina Coeli.

Biglietto di Giulio Andreotti a P. Pfeiffer.

Per questo motivo, quasi quotidianamente era costretto, suo malgrado, a recarsi presso la Casa Generalizia dei Salvatoriani per intercedere in loro favore. Nessun dettaglio trapelò della rappresaglia nazista. Difatti, astutamente, quella mattina Kappler aveva dato ordine di vietare categoricamente l’accesso alle prigioni di via Tasso e Regina Coeli ai familiari dei detenuti, col preciso intento di evitare qualsiasi fuga di notizie da parte di qualche carcerato che era al corrente della situazione. Il ruolo che ebbe in questa vicenda l’ineffabile sacerdote salvatoriano, lo possiamo desumere da due lettere scritte dall’avvocato Otto Vinatzer che descrivono, con dovizia di particolari, il giorno del turpe attentato di via Rasella.

Il 23 marzo 1943 – scriveva l’avvocato trentino –, l’avv. Cassinelli venne da me – avevo lo studio in piazza Cola di Rienzo – raccontandomi la tragedia di via Rasella. Si sapeva che non trovandosene gli autori, i tedeschi [avrebbero] proceduto alla rappresaglia, come avevano pure praticato tre o quattro volte […]. Discussa la grave situazione coll’avv. Cassinelli, decisi di telefonare al P. Pancrazio Pfeiffer dei PP. Salvatoriani, mio cliente da molti anni, per sapere come “la pensavano” in Vaticano, dato che P. Pfeiffer era l’uomo di fiducia del Vaticano nei rapporti colle autorità tedesche.

Avvocato Otto Vinatzer

Inoltre, nella lettera scritta il 18 novembre 1973 al direttore della redazione romana de “L’Espresso-Colore”, riferendosi a padre Pfeiffer, l’avvocato Vinatzer dichiarava:

Lo trovai subito [e mi rispose] che aveva già avuto l’incarico di sondare gli umori dei comandi tedeschi e di indurli alla calma ed alla comprensione, onde non cadere nel tranello teso loro dagli attentatori, ai quali non interessava l’uccisione di una trentina di vecchi piantoni, ma che volevano provocare l’inevitabile rappresaglia tedesca, onde costruire a Roma […] un momento di odio antitedesco, perenne.

Avvocato Otto Vinatzer

Ad ogni modo la febbrile attività dell’intrepido sacerdote salvatoriano, non si fermò neanche di fronte a questi ostacoli; difatti da una testimonianza rilasciata da fra Cassio Brauchle – che all’epoca svolgeva le mansioni di portinaio presso la Casa Generalizia dell’ordine – si apprende che:

Il 24 mattina, giorno della rappresaglia, salutai Padre Pancrazio che andava al comando tedesco di via Tasso. Andava là per la faccenda di via Rasella e per farsi mettere una firma in fondo a un mandato per liberare un generale italiano [pare un certo Simoni, n.d.r.]. Dopo alcune ore lo vidi tornare. Mi ricordo che allargò le braccia e disse: “Non ho trovato nessuno, non c’è niente da fare”.

fra Cassio Brauchle
Erich Priebke (Hennigsdorf, 29 luglio 1913 – Roma, 11 ottobre 2013)

Persino nel memoriale di Erich Priebke si trova traccia di questo tentativo disperato compiuto da padre Pfeiffer per salvare la vita a quei 335 malcapitati, tra i quali furono inclusi anche 75 ebrei detenuti nel carcere di Regina Coeli.

«Alle 18 circa – scrive Priebke – è venuto nel mio ufficio il padre Pfeiffer, che per tutto il giorno aveva cercato Kappler senza trovarlo. Quando il buon padre ha visto il mio stato d’animo, ha capito subito che non c’era più speranza. (…) Il buon padre Pfeiffer è venuto molte volte a chiedere misericordia. Secondo un mio calcolo, lui ha segnalato fino al maggio 1944 più di settanta nomi. Credo che abbia avuto successo per 25-28 persone».

Difatti, l’ordine era già stato eseguito dai militari della Polizia di Sicurezza e della SD, al comando proprio del Capitano delle SS Erich Priebke e del Capitano Kurt Schütz, sulla via Ardeatina nei pressi di una serie di grotte artificiali alla periferia di Roma a circa un chilometro dalla Porta San Sebastiano.

© Giovanni Preziosi, 2023

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