Il Superiore Generale dei Salvatoriani salvò numerose famiglie ebree dalla furia nazista durante l’occupazione di Roma, intercedendo presso le autorità naziste anche dopo la razzia del ghetto.
Il Superiore Generale dei Salvatoriani salvò numerose famiglie ebree dalla furia nazista durante l’occupazione di Roma, intercedendo presso le autorità naziste anche dopo la razzia del ghetto.
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Per ricordare il turpe rastrellamento perpetrato alle prime luci dell’alba di quel triste 16 ottobre di settantanove anni fa, ripropongo, qui di seguito, il mio articolo pubblicato il 16 ottobre 2011 nelle pagine culturali de “L’Osservatore Romano” dal titolo “La lista di Pfeiffer”, che dà conto di una ricerca realizzata, con dovizia di particolari, da chi scrive compulsando il fondo “P. Pankratius Pfeiffer, Occupatio germanica”, presso l’Archivio Generale Salvatoriano dal quale è emersa l’opera encomiabile di P. Pfeiffer nel trarre in salvo quattrocento vite dalla furia nazista durante l’occupazione di Roma.
el primo pomeriggio del 10 settembre 1943, il gen. Giacomo Carboni, responsabile della difesa di Roma, a distanza di appena due giorni dalla firma dell’armistizio, affidò al tenente colonnello Leandro Giaccone, l’incarico di siglare a Frascati, presso il Quartier generale tedesco. l’ordine di resa che spianò la strada al feldmaresciallo Kesselring di occupare la “città eterna” ed insediarvi il suo comando. Da quel momento in poi, fino alla liberazione della capitale – avvenuta com’è noto il 4 giugno 1944 – proprio nei paraggi della casa madre della Società del Divin Salvatore, situata ad un tiro di schioppo da Piazza S. Pietro, nel Palazzo Cesi in via della Conciliazione 51, si accampò un distaccamento di soldati tedeschi che, in più di una circostanza, beneficiarono della generosità dei sacerdoti salvatoriani i quali, di buon grado, provvedevano a rifornirli d’acqua. È a questo punto che entra in scena il superiore generale dei salvatoriani, un prete austero dall’aspetto severo di origini bavaresi di nome Pancrazio Pfeiffer (Brunnen, 18 ottobre 1872 – Roma, 12 maggio 1945), il quale, approfittando delle circostanze, allacciò subito i suoi primi contatti con le forze di occupazione tedesche. Era molto conosciuto nelle alte sfere della Curia romana perché aveva insegnato tedesco presso l’Accademia Ecclesiastica del Servizio Diplomatico della S. Sede e, inoltre, a partire dal 1908, era stato chiamato a lavorare in Vaticano come segretario nell’ufficio preposto ai ricevimenti ed alle udienze papali, venendo impiegato nel servizio di anticamera presso la Segreteria di Stato.
Era un uomo davvero paziente ed infaticabile al punto che, godendo della fiducia del pontefice, riuscì a svolgere un’intensa attività di mediazione con il comando tedesco, grazie alla quale fu possibile carpire delle preziose informazioni e trarre in salvo un gran numero di persone. Difatti, in più di un’occasione, finanche il papa ed altri influenti prelati della Curia romana, ricorsero al suo provvidenziale aiuto per ottenere la liberazione di qualche persona tratta in arresto dai soldati tedeschi. Per portare a termine questa delicata missione, il sacerdote salvatoriano faceva ben attenzione a non fornire resoconti fin troppo circostanziati delle sue attività per non mettere a repentaglio l’incolumità degli ufficiali ai quali si rivolgeva, in modo da poter contare ancora, in futuro, sul loro aiuto. Grazie alla sua proverbiale perspicacia si calcola che soltanto nella città capitolina riuscì a salvare la vita a ben 400 persone tra ostaggi e prigionieri già condannati dai tedeschi, tra i quali bisogna annoverare almeno otto ebrei che riuscì a liberare pochi attimi prima dell’esecuzione. Il 7 ottobre di quello stesso anno, padre Pancrazio aveva ricevuto in dono dal generale Stahel una sua foto sulla quale aveva trascritto di proprio pugno un importantissimo messaggio da adoperare in caso di pericolo:
Al mio egregio Generale compagno (senza sciabola) in ricordo dei giorni inconsueti trascorsi a Roma. Stahel, Generale Maggiore, 7.10.1943; da utilizzare come lasciapassare in caso di cattura da parte di gente cattiva.
Del resto il vincolo di sincera amicizia che si instaurò immediatamente con l’alto ufficiale tedesco è confermato anche dal rapporto scritto da quest’ultimo il 12 ottobre successivo nel quale, riconoscendo la lealtà del clero romano, riteneva opportuno salvaguardare le loro proprietà al punto tale che qualsiasi atto teso a danneggiarle doveva essere severamente punito. Scriveva, infatti, il comandante militare di Roma:
Il clero di Roma e provincia ha dimostrato di comportarsi con lealtà, e le truppe tedesche per svolgere i loro compiti non solo non hanno incontrato difficoltà, ma in molti casi sono stati direttamente facilitati. Il clero e le loro proprietà sono quindi da prendere in particolare protezione, gli attacchi contro di loro saranno puniti da me in modo particolarmente severo.
Ad ogni modo proprio alcuni giorni prima della partenza del generale Stahel da Roma, padre Pfeiffer – verso la metà di ottobre del 1943 – fu protagonista di una missione di estrema delicatezza e di carità cristiana. Leggiamo su un foglio di calendario un laconico appunto che si riassumeva nelle seguenti parole: «Hauptsturmbannführer Danegger [sic] Collegio Militare», dietro al quale era trascritto il nome del vicegerente del Vicariato mons. Luigi Traglia.
Tratto da “Speciale Tg1”– La razzia – (28/01/2019).
Il 16 ottobre 1943, fu scritta una delle pagine più vergognose che si possono ricordare a memoria d’uomo nella storia millenaria del popolo ebraico. Difatti esso rappresentò, non solo per gli ebrei ma per il mondo intero, davvero uno dei giorni più funesti e drammatici della nostra storia, segnato da un’onta d’infamia e di lutto che calò sull’intera nazione, rendendo universale una tragedia che ancora oggi continua ad interrogare le coscienze di ogni individuo.
Alle 5,30 del mattino di quel triste sabato – mentre gli ebrei si accingevano a celebrare il terzo giorno della festa di Sukkot – 365 soldati tedeschi armati di tutto punto, appartenenti alla brigata S.S. “Einsatzgruppen” al comando del capitano Theodor Dannecker, muniti di appositi elenchi con nomi e indirizzi delle famiglie ebree forniti dall’Ufficio Demografia e Razza del Ministero dell’Interno, diedero il via a quella scellerata operazione che passò tristemente alla storia col nome in codice Judenaktion, durante la quale i militari tedeschi rastrellarono nel ghetto 1.259 ebrei romani: 363 uomini, 689 donne e finanche 207 bambini.
A quel punto il papa, appresa questa triste notizia, decise di rompere ogni indugio ed intervenire immediatamente allo scopo di arginare la ferocia perpetrata fino a quel momento dal Comando Militare tedesco ai danni degli sventurati ebrei romani.
Pertanto incaricò di questa delicata missione suo nipote, il principe Carlo Pacelli, il quale si recò dal rettore del Pontificio Collegio Teutonico di Santa Maria dell’Anima, mons. Alois Hudal, che secondo i bene informati intratteneva cordiali rapporti con le alte sfere del comando nazista a Roma, per indurlo a scrivere un’accorata lettera al governatore tedesco di Roma, il Generale Stahel, chiedendogli di far cessare immediatamente quella ignominiosa strafexpedition. La missiva venne poi consegnata brevi manu al Generale Stahel proprio da padre Pfeiffer, il quale con estrema circospezione e senza destare alcun sospetto, riuscì ad ottenere un incontro con l’ufficiale tedesco per consegnargli una lettera di protesta ufficiale da parte della S. Sede nella quale mons. Hudal affermava perentoriamente:
Ho appreso or ora da un alto funzionario del Vaticano, vicino al S. Padre [il principe Carlo Pacelli, n.d.r.], che questa mattina hanno avuto inizio gli arresti degli ebrei di nazionalità italiana. Nell’interesse delle buone relazioni che sino ad ora intercorrono tra il Vaticano e l’alto comando militare tedesco, grazie innanzitutto all’intuito politico e alla magnanimità di Sua Eccellenza, che passerà un giorno alla storia di Roma, la prego di dare ordine di sospendere immediatamente tali arresti a Roma e nei dintorni. Altrimenti temo che il papa – concludeva laconicamente il prelato austriaco – sarà costretto a prendere apertamente posizione contro queste azioni, il che servirà indubbiamente ai nemici della Germania da arma contro noi altri tedeschi.
Nel frattempo, il generale Stahel, che era evidentemente indignato per il modus operandi delle S.S. e della Gestapo, senza alcun indugio provvide a far pervenire una dura protesta ad Heinrich Himmler in Germania facendogli osservare che, se non impartiva l’ordine di immediata cessazione di quell’azione punitiva ai danni degli ebrei, si correva il serio rischio di provocare una sollevazione popolare.
«Hauptsturmbannführer Danegger [sic] Collegio Militare», dietro al quale era trascritto il nome del vicegerente del Vicariato mons. Luigi Traglia. Il 16 ottobre 1943, fu scritta una delle pagine più vergognose che si possono ricordare a memoria d’uomo nella storia millenaria del popolo ebraico. Difatti esso rappresentò, non solo per gli ebrei ma per il mondo intero, davvero uno dei giorni più funesti e drammatici della nostra storia, segnato da un’onta d’infamia e di lutto che calò sull’intera nazione, rendendo universale una tragedia che ancora oggi continua ad interrogare le coscienze di ogni individuo.
Alle 5,30 del mattino di quel triste sabato – mentre gli ebrei si accingevano a celebrare il terzo giorno della festa di Sukkot – 365 soldati tedeschi armati di tutto punto, appartenenti alla brigata S.S. “Einsatzgruppen” al comando del capitano Theodor Dannecker, muniti di appositi elenchi con nomi e indirizzi delle famiglie ebree forniti dall’Ufficio Demografia e Razza del Ministero dell’Interno, diedero il via a quella scellerata operazione che passò tristemente alla storia col nome in codice Judenaktion, durante la quale i militari tedeschi rastrellarono nel ghetto 1.259 ebrei romani: 363 uomini, 689 donne e finanche 207 bambini. A quel punto il papa, appresa questa triste notizia, decise di rompere ogni indugio ed intervenire immediatamente allo scopo di arginare la ferocia perpetrata fino a quel momento dal Comando Militare tedesco ai danni degli sventurati ebrei romani.
Pertanto incaricò di questa delicata missione suo nipote, il principe Carlo Pacelli, il quale si recò dal rettore del Pontificio Collegio Teutonico di Santa Maria dell’Anima, mons. Alois Hudal, che secondo i bene informati intratteneva cordiali rapporti con le alte sfere del comando nazista a Roma, per indurlo a scrivere un’accorata lettera al governatore tedesco di Roma, il Generale Stahel, chiedendogli di far cessare immediatamente quella ignominiosa strafexpedition. La missiva venne poi consegnata brevi manu al Generale Stahel proprio da padre Pfeiffer, il quale con estrema circospezione e senza destare alcun sospetto, riuscì ad ottenere un incontro con l’ufficiale tedesco per consegnargli una lettera di protesta ufficiale da parte della S. Sede nella quale mons. Hudal affermava perentoriamente:
Ho appreso or ora da un alto funzionario del Vaticano, vicino al S. Padre [il principe Carlo Pacelli, n.d.r.], che questa mattina hanno avuto inizio gli arresti degli ebrei di nazionalità italiana. Nell’interesse delle buone relazioni che sino ad ora intercorrono tra il Vaticano e l’alto comando militare tedesco, grazie innanzitutto all’intuito politico e alla magnanimità di Sua Eccellenza, che passerà un giorno alla storia di Roma, la prego di dare ordine di sospendere immediatamente tali arresti a Roma e nei dintorni. Altrimenti temo che il papa – concludeva laconicamente il prelato austriaco – sarà costretto a prendere apertamente posizione contro queste azioni, il che servirà indubbiamente ai nemici della Germania da arma contro noi altri tedeschi.
Nel frattempo, il generale Stahel, che era evidentemente indignato per il modus operandi delle S.S. e della Gestapo, senza alcun indugio provvide a far pervenire una dura protesta ad Heinrich Himmler in Germania facendogli osservare che, se non impartiva l’ordine di immediata cessazione di quell’azione punitiva ai danni degli ebrei, si correva il serio rischio di provocare una sollevazione popolare.
Questo tipo di azione violenta contro gli ebrei italiani – scriveva l’alto ufficiale tedesco – altera i miei piani militari per rinforzare le divisioni tedesche di combattimento al sud di Roma, e può creare anche qui problemi seri a Roma.
Come si può notare il generale Stahel, per dissuadere Himmler dai suoi propositi malvagi, fece ricorso ad una sottile astuzia adducendo argomenti di natura squisitamente militare che, se non riuscirono a far breccia nel suo cuore, servirono almeno a indurlo a più miti consigli, e a farlo ritornare sui suoi passi, al punto che subito provvide ad impartire precisi ordini affinché cessasse quella rappresaglia ai danni degli ebrei romani. Fu così che, in virtù di un suo provvidenziale intervento si riuscì a salvare in extremis la vita di questi malcapitati grazie a un tacito compromesso in base al quale il Comando Militare tedesco avrebbe dovuto fare buon viso a cattivo gioco, rilasciando almeno i coniugi e i figli di matrimoni misti, in cambio della rinuncia, da parte della S. Sede, ad una protesta ufficiale per il rastrellamento nel ghetto.
Del resto anche tra gli appunti di padre Pfeiffer contenuti nel suo archivio personale conservato premurosamente dalla Società del Divin Salvatore di Roma, è emerso in modo incontrovertibile l’intervento da parte della Santa Sede a beneficio degli ebrei romani, come attesta un documento che reca la data del 25 ottobre 1943, nel quale è contenuta la richiesta di aiuto in favore di Allegra Livoli e Vittoria Livoli in Sonnino che, insieme ai loro figli, erano state catturate proprio nel corso del rastrellamento del ghetto.
A distanza di qualche mese, per la precisione il 25 novembre successivo, in un memorandum è contenuta la richiesta d’aiuto anche in favore del rabbino Nachmann Freiberg, della sorella e di Ernesto della Riccia. Bisogna rilevare poi che, a questo appello, ne fece seguito un altro il 28 novembre a beneficio di Luigi Del Monte, ed un altro ancora per Rita di Nepi in Terracina con i suoi figli Leonello e Marco, rispettivamente di uno e tre anni, anch’essi tratti in arresto il 16 ottobre 1943 dai nazisti in via Taranto 59 a Roma. Inoltre, in questa richiesta d’aiuto comparivano anche i nomi delle tre sorelle di Rita Di Nepi-Terracina: Cesira, Franca e Mirella; rispettivamente di ventisei, diciotto e dieci anni.
Del Monte Luigi fu Alfredo – si legge nella lettera inviata a padre Pfeiffer – israelita, commerciante, coniugato con due figli, già residente a Napoli, sfollato sul Lago di Como (Villa Giuseppina, Moltrasio), è stato arrestato insieme al suocero Giuseppe Levi ed ai cognati Levi da militari germanici nella terza decade di ottobre. È stato portato prima alle carceri di Como e poi a quelle di Milano. La famiglia supplica il Santo Padre di degnarsi di intercedere per la liberazione degli arrestati.
Anche la Croce Rossa seguì pedissequamente la strategia adottata dal Vaticano, impegnandosi a salvare gli ebrei senza, tuttavia, ricorrere a denunce pubbliche, nel timore che una presa di posizione del genere, per una sorta di eterogenesi dei fini, potesse rivelarsi controproducente. A suffragare questa tesi basta citare le numerose richieste d’intervento che giunsero a p. Pfeiffer come quella di padre Fausto M. Codato, postulatore generale dei Barnabiti il quale, il 18 aprile del 1944, gli scrisse un’accorata lettera per perorare la causa degli anziani genitori di un suo amico di origine ebraica, i coniugi Samuele Della Seta e Giulia Di Segni, catturati dai tedeschi proprio il 16 ottobre 1943.
Rev.mo P. Generale, mi rincresce incomodarla nuovamente, ma Lei si è sempre mostrato così compiacente e benevolo ch’io oso rivolgermi a Lei per chiederle di compiere un atto di carità.
Un mio conoscente di razza ebraica ebbe catturati dai tedeschi il 16-10-943 i due vecchi genitori, dei quali più nulla riuscì a sapere. Lei immagini lo stato d’animo di questo pover’uomo e la sua angustia. Con fiducia a mio mezzo si rivolge a Lei per pregarla di vedere di conoscere almeno se i poveri vecchi genitori sono tuttora vivi e dove, nel caso, si trovino.
Veda se le riesce attraverso le conoscenze e le aderenze di cui Lei dispone se può ottenere queste informazioni. Gliene sarò molto grato.
Nel frattempo, il 4 novembre del 1943, padre Pfeiffer fece il suo primo incontro ufficiale con un altro personaggio di spicco del Comando Militare tedesco di stanza nella capitale, che passerà tristemente alla storia per il suo coinvolgimento nell’eccidio delle fosse Ardeatine, il tenente Erich Priebke il quale, negli anni a venire, confondendo chiaramente le circostanze, ha più volte adombrato l’ipotesi di essere stato aiutato nella sua fuga, all’indomani della disfatta dell’Asse, proprio da padre Pancrazio Pfeiffer che, a suo dire, gli avrebbe consentito di ottenere la nuova identità di Otto Pape in virtù della quale riuscì a far ritorno in treno a Sterzing, prima di prendere il largo verso l’Argentina di Juan Domingo Perón sotto mentite spoglie.
Tutto sembrerebbe filare, senonché si trascura un piccolo particolare e cioè che nel 1946 – quando l’ex ufficiale nazista evase dal campo di prigionia di Rimini e giunse a Roma – ahimè, il buon padre Pfeiffer aveva già fatto ritorno alla “Casa del Padre” a causa delle gravi ferite riportate in un incidente stradale, avvenuto il 12 maggio 1945, ad opera di un militare delle truppe Alleate proprio nei pressi del suo convento, in Largo Cavalleggeri a due passi da piazza San Pietro.
Il giorno 4 novembre 1943 – scrive, con dovizia di particolari, padre Pfeiffer – incontrai all’ambasciata germanica presso il Quirinale il vice-capo delle SS-truppe, un certo Erich Priebke […]. Credetti bene di avvicinarlo e di dirgli una parola. […] Presi coraggio e gli dissi, che proprio l’altro giorno correva voce che essi intenderebbero invadere le case religiose in cerca di persone latitanti. Egli replicò che questa voce non era esatta, ma vero era che loro ricevettero la segnalazione che nel Vaticano sarebbe una commissione che si occuperebbe di procurare a delle persone ricercate un rifugio in case religiose. Gli risposi che ciò certamente era falso. Egli lo ammise, ma osservò che nel Vaticano vi sarebbero forse dei preti che lo farebbero. Replicai che se in Vaticano un prete si interessasse di ciò, lo farebbe certamente senza l’autorizzazione del Superiore. Egli accettò anche questa risposta e si dimostrò soddisfatto.
Ad ogni modo, per scongiurare ogni eventuale pericolo, il solerte sacerdote salvatoriano, il 10 novembre 1943, si precipitò da Pio XII proprio per metterlo al corrente di questo minaccioso avvertimento pronunciato dal tenente Priebke, in modo da predisporre le opportune precauzioni.
Inoltre, il 7 aprile del 1944, anche vari prelati della Curia romana, come il Sostituto alla Segreteria di Stato di Sua Santità mons. Montini, ed i cardinali Tisserant e Giovanni Mercati – quest’ultimo bibliotecario archivista della S. Sede – si rivolsero a p. Pfeiffer per ottenere la liberazione dell’insigne professore ebreo Mario Segrè, docente di fama mondiale di epigrafia classica che, il 5 aprile precedente, insieme alla moglie ed al figlioletto di pochi mesi, era stato tratto in arresto dalla Polizia fascista repubblicana. La generosa opera di mediazione del superiore dei Salvatoriani presso le alte sfere del Comando Militare germanico per far rilasciare alcuni malcapitati finiti in qualche imboscata, naturalmente, non si fermò qui.
Un’altra richiesta che richiese il suo provvidenziale intervento fu quella che riguardò Giuliano Vassalli, un personaggio di spicco della Resistenza capitolina che negli anni a venire salirà alla ribalta della scena politica nazionale il quale, all’epoca dei fatti qui narrati, era un soggetto ben noto alle autorità tedesche. Proprio per questi motivi, il 3 aprile del 1944, fu catturato dai nazisti e condotto insieme a tanti altri prigionieri in via Tasso, dove in seguito fu condannato a morte dal Comando Militare germanico di Roma, subendo efferate sevizie da parte dei marescialli tedeschi Hotop e Bannek, al comando del famigerato Erich Priebke.
Per scongiurare l’esecuzione dell’esponente socialista, il sacerdote guanelliano don Angelo Lecchi, su espressa richiesta del padre di Vassalli, prese a cuore questa vicenda e si preoccupò di intercedere in suo favore presso p. Pfeiffer recandosi, di buon mattino, presso la Curia Generalizia dei Salvatoriani col preciso intento di esporgli questo caso pietoso. Tuttavia non riuscendo ad incontrarlo di persona, pensò bene di scrivergli un’accorata lettera nella quale dichiarava:
Reverendissimo Padre, sono venuto due volte stamane per raccomandarle vivamente il figlio del Prof. Vassalli, titolare in Diritto all’Università di Roma, che si presume in mano germanica in Via Tasso. Stamane v’andò il padre stesso ma non ne poté sapere nulla. Mi permetto unirle generalità e nel contempo assicuro sulla onestà pubblica e privata della persona raccomandata. Nella sua grande bontà veda di poter sapere se realmente è trattenuto in Via Tasso e perché e, se possibile, dire una parola buona. Alla raccomandazione perenne del Professore unisco la mia con l’assicurazione di una fervida preghiera.
Inoltre, ai principi di giugno del 1944, finanche il cardinale Camillo Caccia Dominioni esortò padre Pfeiffer ad interporre i suoi buoni uffici con le autorità militari tedesche per ottenere la liberazione del giovane Giuliano Vassalli, anche in considerazione dell’amicizia che legava il padre del giovane esponente socialista al fratello del papa, Francesco Pacelli, che aveva conosciuto durante i lavori per la firma del Concordato del 1929.
Fu così che, proprio la mattina del 3 giugno, appena seppe da una staffetta tedesca giunta da Frascati che la sera di quello stesso giorno avrebbero incominciato a lasciare la capitale per trasferirsi al nord, padre Pancrazio si precipitò da Kappler sussurrandogli con un sorriso sornione: «Non mi fa nessun regalo prima di partire?». La contropartita avanzata dall’ufficiale nazista si rivelò a dir poco inquietante, considerato che in cambio del rilascio di Vassalli pretese la consegna del generale Bencivenga, che allora era rifugiato nel Seminario Romano Maggiore del Laterano insieme ad altri esponenti antifascisti quali il democristiano De Gasperi, il liberale Alessandro Casati ed il ministro prefascista Ivanoe Bonomi, che in tal caso avrebbero rischiato seriamente di finire anch’essi nelle grinfie dei tedeschi.
Tuttavia, dopo qualche istante di esitazione, Kappler si lasciò persuadere da padre Pfeiffer, al punto che non poté opporgli più alcun diniego e subito afferrato un foglio sul tavolo scrisse un nome; dopodiché rivolgendosi al sacerdote aggiunse: «Le do uno di questi. È l’ultimo regalo che faccio a Lei e al Vaticano». Si trattava proprio di Giuliano Vassalli. Non trascorsero neanche due ore che il condannato a morte fu scarcerato e consegnato nelle mani del superiore generale dei Salvatoriani. Tuttavia, prima di lasciare l’orribile prigione di via Tasso, il comandante delle S.S. Herbert Kappler gli si avvicinò sussurrandogli ad un orecchio: «Ha da ringraziare esclusivamente il Santo Padre se lei nei prossimi giorni non viene messo al muro, come ha meritato. Non è forse vero che lo ha meritato, signor Vassalli?».
Quindi, appena rimise piede fuori dalla sua prigione, l’esponente socialista salì a bordo di un’auto della Santa Sede che lo condusse immediatamente da padre Pfeiffer, presso il Generalato dei Salvatoriani in via della Conciliazione da dove poi, finalmente, poté riacquistare la tanto agognata libertà. In realtà la liberazione di Vassalli si materializzò nel corso di un incontro segreto tra Pio XII ed il generale Karl Wolff, organizzato in Vaticano il 10 maggio 1944 proprio da padre Pfeiffer. In tale circostanza, infatti, il pontefice chiese espressamente al gen. Wolff di dimostrargli le sue buone intenzioni liberando due condannati a morte, cosa che il gerarca nazista si affrettò a fare come abbiamo visto il 3 giugno successivo, mentre i tedeschi si accingevano a lasciare la capitale.
Come si evince chiaramente anche da queste carte conservate premurosamente nell’archivio dei Salvatoriani, finanche Pio XII intervenne personalmente in aiuto di molti capi della Resistenza senza distinzione di religione o di colore politico, tanto è vero che debiti di riconoscenza ebbero verso il pontefice anche Bruno Buozzi, Giacomo Mattei, Leone Ginzburg, Enzo Malatesta, Gianfranco Mastei, il gen. dei carabinieri Angelo Oddone, Mario Sbardella, Carlo Scalara, Stefano Siglienti e il capo dei G.A.P. di Roma, Antonello Trombadori.
Proprio in merito alla vicenda che riguardò quest’ultimo, nell’archivio di padre Pfeiffer è stato rinvenuto un appunto della Segreteria di Stato, datato 29 febbraio 1944, che esortava il superiore salvatoriano ad interporre i suoi buoni uffici a beneficio del dirigente comunista che era stato tratto in arresto dai nazisti il 2 febbraio precedente.
Tutto ciò contribuisce a dimostrare, al di là di ogni ragionevole dubbio, come la Chiesa, in quelle tragiche contingenze storiche, si sia sempre adoperata per trarre in salvo chiunque, indipendentemente dalla loro fede religiosa o dal loro colore politico, come del resto ha più volte rimarcato il compianto card. Pietro Palazzini – all’epoca dei fatti qui narrati, aiutante del rettore Roberto Ronca presso il Pontificio Seminario Romano Maggiore del Laterano – il quale non mancava mai di sottolineare che: «L’indirizzo dato dal Papa Pio XII era di salvare vite umane, da qualsiasi parte stessero». Padre Pancrazio Pfeiffer era una persona che non amava ostentare la sua generosità, in quanto riteneva che chiunque, in quelle circostanze, al suo posto avrebbe fatto altrettanto.
Il mio dovere – ripeteva spesso – è quello di aiutare. Non è mio compito collegare la mia azione con speculazioni di stampo politico. Al mio posto si agisce per la giustizia, non perché ci si aspetta gratitudine o si teme ingratitudine.
© Giovanni Preziosi, 2022
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