“Caccia agli ebrei”. I rastrellamenti nazifascisti a Firenze dell’autunno 1943.
Il 9 novembre 1943 partì dal binario 16 della Stazione di Santa Maria Novella il primo convoglio per deportare ad Auschwitz circa 300 ebrei fiorentini e non, tra donne, uomini anziani e bambini. Su indicazione dell’arcivescovo Elia Dalla Costa nei giorni dei rastrellamenti nazifascisti le Francescane Ancelle di Maria di Quadalto spalancarono le porte agli ebrei in fuga.
Dopo aver portato a termine con successo il rastrellamento e la deportazione ad Auschwitz di 1.022 ebrei romani, il reparto specializzato del capitano Theodor Dannecker risalì rapidamente la penisola spostandosi verso il Nord per effettuare analoghe retate a sorpresa nelle principali città italiane, seguendo il medesimo cliché sperimentato nella capitale. Tuttavia, poiché dopo la razzia nel ghetto di Roma Dannecker si era ammalato, la guida dell’organizzazione passò nelle mani del suo vice Alvin Eisenkolb, il quale subito prese di mira la città di Firenze che, così, pagò il suo atroce tributo alla Shoah subendo ben due rastrellamenti il 6 e il 26 novembre 1943.
Difatti, l’11 settembre, a distanza di appena tre giorni dalla proclamazione dell’armistizio, i tedeschi occuparono manu militari il capoluogo fiorentino scatenando immediatamente, con la complicità del famigerato Reparto Servizi Speciali diretto dal maggiore Mario Carità, una feroce caccia all’uomo ai danni di tutti gli ebrei che si trovavano a Firenze, compresi i profughi appena giunti dai vari paesi limitrofi occupati dai nazisti con la speranza, destinata purtroppo a rivelarsi vana, che la loro sorte in Italia potesse essere migliore.
A spianare la strada alle retate delle SS contribuì in modo rilevante anche la legislazione dichiaratamente antisemita adottata, fin dal 14 novembre 1943, dalla Repubblica Sociale Italiana con l’emanazione della Carta di Verona che al capitolo settimo considerava gli ebrei «stranieri e parte di una nazione nemica», disponendo persino l’internamento in appositi campi predisposti ad hoc dal Ministero dell’Interno. In tal modo tutti gli ebrei vennero braccati, arrestati e reclusi alle Murate, a Santa Verdiana o nei vari campi di internamento, come quello di Villa Le Selve presso Bagno a Ripoli, prima di essere deportati verso i campi di sterminio nazisti.
Con l’incalzare delle persecuzioni antiebraiche, valutata la gravità della situazione, dopo aver appreso da alcuni amici della polizia e del Clnt che i tedeschi avevano richiesto gli elenchi di tutti gli ebrei fiorentini, il Comitato di assistenza ebraico allestito dal giovane rabbino capo di Firenze Nathan Cassuto, d’intesa con Matilde Cassin, visto che ormai da soli non riuscivano più a far fronte alle continue richieste che provenivano dai tanti profughi ebrei, decisero di rivolgersi alla Curia fiorentina con la quale allacciarono i primi contatti tramite Giorgio La Pira (di cui, tra l’altro, proprio quest’oggi ricorre il 40° anniversario della sua scomparsa), che allora dimorava nel convento domenicano di San Marco. L’arcivescovo di Firenze Elia Dalla Costa, non se lo fece ripetere due volte e subito incaricò il parroco di Varlungo don Leto Casini e il padre domenicano Cipriano Ricotti di coadiuvare il Comitato di assistenza ebraico – che agiva da terminale degli aiuti internazionali forniti dalla DELASEM – per mettere al sicuro i profughi ebrei nei vari monasteri e istituti religiosi disseminati nella diocesi, in modo da sottrarli al pericolo della deportazione.
Fu così che una mattina degli ultimi di ottobre del 1943 – scrive, con dovizia di particolari, nel suo memoriale don Leto Casini – Mons. Meneghello presentò don Casini al Comitato comprendente il rabbino di Firenze Dr. Nathan Cassuto, il Rag, Raffaello Cantoni, Giuliano Treves, Joseph Ziegler di origini ungheresi, Kalberg, Matilde Cassin, le sorelle Lascar e due altri dei quali sfugge il nome. Furono di valido aiuto il domenicano P. Cipriano [Ricotti], don Giovanni Simeoni e, naturalmente, Mons. Meneghello che, tramite il noto ciclista Gino Bartali, riuscì a procurarsi le carte d’identità opportunamente falsificate con la macchina Felix della tipografia di Luigi Brizi di Assisi, per gli ebrei nascosti nei vari conventi di Firenze. Il Comitato si riuniva tutti i giorni – continua don Leto –, tanti erano i problemi che si presentavano e urgeva risolvere. Il luogo delle riunioni veniva cambiato spesso per evitare pericoli di pedinamento. Nella cappella degli Orafi, presso la Chiesa di S. Stefano e Cecilia, don Casini riuniva settimanalmente gli Ebrei fiorentini per informarsi delle loro necessità e distribuire denaro ai più bisognosi. Il denaro occorrente per sopperire alle innumerevoli necessità – si doveva provvedere vitto, alloggio, indumenti, medicinali, carte d’identità (naturalmente false) a diverse centinaia di persone – veniva versato a don Casini dal ragioniere Cantoni.
Di tutto ciò si occupava anche un piccolo gruppo di giovani che si riuniva nei locali della Libreria Editrice Fiorentina per procedere alla falsificazione dei documenti che poi venivano distribuiti agli ebrei. A quel punto, seguendo alla lettera le direttive impartite dal card. Dalla Costa, nel capoluogo fiorentino e nei suoi dintorni, oltre ventuno conventi e istituti religiosi – senza contare le varie parrocchie – spalancarono le porte per offrire un rifugio sicuro ad oltre 110 ebrei italiani e 220 stranieri. Quando andiamo dicendo trova puntuale conferma anche dalla testimonianza di P. Egidio, un anziano monaco dei carmelitani scalzi, dal quale apprendiamo che presso il convento di S. Paolino a Firenze, dove nel ’36 Gino Bartali aveva preso i voti di terziario carmelitano:
negli anni 1943-’44 […] nella biblioteca del suddetto Convento, si riuniva il Comitato di liberazione nazionale e si tennero nascosti per vario tempo, due giovani di origine ebraica.
Tra le varie testimonianze degli ebrei che beneficiarono dell’aiuto del celebre ciclista, spicca quella dell’ebreo di origine fiumana Giorgio Goldenberg, il quale riannodando i suoi ricordi, sul filo della memoria racconta, qui di seguito, la sua rocambolesca storia per sfuggire ai nazifascisti. Giorgio, all’epoca, ogni giorno era costretto a fare la spola tra Fiesole e Firenze dove frequentava la scuola elementare ebraica. Proprio in quel periodo i suoi genitori avevano allacciato una cordiale amicizia con Bartali e suo cugino Armandino Sizzi. Poi, col precipitare degli eventi, fu nascosto proprio da Bartali, in una casa di sua proprietà che sorgeva in via del Bandino, insieme ai genitori, la sorellina e un cugino. In precedenza Giorgio era stato nascosto nel convento delle suore di Santa Marta, prima che la madre andò a riprenderselo per portarlo con sé nella cantina di Bartali.
La cantina – ricorda Giorgio – era molto piccola. Una porta dava su un cortile ma non potevo uscire perché avrei corso il rischio di farmi vedere dagli inquilini dei palazzi adiacenti. Dormivano in quattro in un letto matrimoniale: io, il babbo, la mamma e mia sorella Tea. Non so dove i miei genitori trovassero il cibo. Ricordo solo che il babbo non usciva mai da quella cantina mentre mia madre usciva con due secchi a prendere acqua da qualche pozzo.
Poi, finalmente, giunse la Liberazione:
Mi ricordo – prosegue Giorgio – che tutti gridavano che erano arrivati gli inglesi e io uscii per vedere. Così vidi un soldato inglese con la scritta Palestina e con la Stella di Davide cuciti sulle spalle, mi avvicinai e mi misi a canticchiare la Hatikwa (l’inno del futuro Stato di Israele, ndr). Lui mi sentì e si rivolse a me in inglese. Tornai di corsa in cantina, chiamai il babbo che uscì e cominciò a parlargli in yiddish. In quel momento capii che eravamo liberi”.
Fu così che, proprio grazie a questa sofisticata rete clandestina di assistenza, che poteva contare su un’organizzazione ben collaudata che collegava, come in questo caso, la DELASEM con la Curia genovese e quella di Firenze, si riuscirono a salvare dalla deportazione diversi ebrei, nascondendoli in vari conventi e istituti ecclesiastici come la Casa Madre delle Francescane Ancelle di Maria di Quadalto, una frazione del comune di Palazzuolo sul Senio in provincia di Firenze che, fin dal settembre 1943 era stata inclusa nella lunga lista da consegnare agli ebrei che chiedevano asilo.
Nuovo sangue si è sparso anzi si è già cominciato a spargere – scriveva il 15 settembre, con un velo di mestizia, la cronista del Santuario S. Maria della Neve –. I migliori cittadini cercati a morte. Anche il nostro convento viene adocchiato da Sua Eminenza il Cardinale (Dalla Costa) per nascondere i perseguitati. Oggi arriva da noi il Prof. Levi. È un vecchietto il quale ha speso tutta la sua vita nello studio e nella Scuola. È cercato perché di razza ebraica. Da oltre dieci anni si è convertito al cattolicesimo (…) I suoi articoli venivano pubblicati perfino sull’Osservatore Romano. La nostra Madre Generale lo ha accolto tanto volentieri pur sapendo che prestarsi a tale atto vuol dire mettere in pericolo la vita perché il nuovo governo nato col nome di Repubblica Italiana Fascista (rectius, Repubblica Sociale Italiana) condanna a morte i protettori degli ebrei. La B. V. di Quadalto ci proteggerà perché facciamo un’opera buona: proteggiamo i perseguitati per amore della giustizia.
Difatti, avendo constatato di persona durante la vista pastorale del 22 agosto la sicurezza del luogo, il card. Dalla Costa poco dopo decise di rivolgersi alla madre generale suor Teresa Serantoni per chiederle la disponibilità ad accogliere nel suo convento quanti erano in serio pericolo di vita a causa delle persecuzioni dei nazi-fascisti, raccomandando in modo particolare il prof. Giulio Augusto Levi che all’epoca, come scrisse Gentile, era considerato «uno dei più valenti interpreti del pensiero leopardiano».
Tuttavia, in seguito all’introduzione delle vituperanti leggi razziali, nel 1938 gli era stata revocata la cattedra di letteratura italiana che aveva esercitato brillantemente fino ad allora presso il Liceo-Ginnasio “Galileo” di Firenze costringendolo, insieme alla sua famiglia, ad intraprendere la strada della clandestinità per sottrarsi al pericolo della deportazione. Così, fin dal settembre del 1943, cominciarono ad affluire a Quadalto, presso il Santuario S. Maria della Neve, una moltitudine di persone, in prevalenza ebrei, tra cui anche EugeniaLevi, figlia minore dell’insigne critico letterario, per trovare riparo all’ombra di quel monastero sebbene, come scriveva con malcelata preoccupazione la cronista,
crescendo il numero degli ebrei ricoverati cresceva la probabilità che questi venissero scoperti e quindi di conseguenza che la nostra buona Madre Generale venisse arrestata e condannata.
Il 17 ottobre successivo, subito dopo aver appreso dell’efferata razzia che si era appena consumata nel ghetto di Roma, raggiunsero il prof. Levi e la figlia minore Eugenia anche la moglie e l’altra figlia Sara. Tuttavia, appena giunte appresero dalle suore che, per precauzione, avevano lasciato il loro convento per recarsi dal Priore di Mantigno, don Primo Grandi. Difatti era accaduto che, il 10 ottobre, il prof. Levi con sua figlia Eugenia, incautamente, si erano fatti vedere in Chiesa, cosicché subito in giro si era sparsa la voce che nel convento dimorava un vecchio con una signorina. Così, nel timore di qualche prevedibile delazione, visto che a Palazzuolo si aggiravano molte spie fasciste, si ritenne opportuno trasferire i due ospiti presso il Priore di Mantigno che, insieme alla Contessa Strigelli ed ai suoi due figli, si prodigava alacremente per tenere nascosti inglesi e ricercati dai nazi-fascisti.
Speriamo – scriveva con trepidazione la cronista – che il Professore e la sua figliola non vengano scoperto. La scoperta del Professor Levi oltre a portare danni a lui porterebbe un grave danno alla nostra cara Madre Generale al Priore di Mantigno forse alla Contessa Strigelli e ai suoi due figlioli e porterebbe danni anche a Sua Eminenza Rev.ma il Cardinal Elia Dalla Costa nostro amatissimo Arcivescovo perché si è interessato del caso ed è stato lui ad indirizzare da noi il Prof. Levi.
Benché ancora affaticate per il lungo viaggio, la moglie del prof. Levi insieme alla figlia Sara, a quel punto, decisero di raggiungere subito i loro cari ma, dopo aver constatato che don Primo Grandi non poteva ospitarli, sul far della sera, di comune accordo, tutti insieme fecero di nuovo ritorno a Quadalto.
Cosa fare? – si chiedevano sbigottite le suore – Lasciarli sulla strada? Mandarli di nuovo in giro col pericolo che vengano scoperti ed arrestati? E quel che peggio in un campo di concentramento? Vengono narrati fatti atroci accaduti a questi poveri meschini. Scoprirli è facile perché basta che facciano vedere la loro carta di identità e il loro cognome è quello che li accusa. La nostra Madre Generale dopo aver tutto considerato piena di fiducia nella Beata Vergine li alloggia tutti e li nasconde nelle due camere del secondo piano della foresteria
Il 28 ottobre 1943 le Ancelle di Maria nascosero, per qualche giorno, nel loro convento anche due ufficiali inglesi che erano diretti ad Ancona – dove speravano d’imbarcarsi per Bari – dopo essere riusciti ad evadere da un campo di prigionia, grazie all’aiuto del figlio della contessa Strigelli, tal Franco. Non fecero in tempo a salutare gli ufficiali inglesi che, il 31 ottobre, al calar della sera, accompagnato da Suor Domenica Ricciarelli, sopraggiunse l’arciprete di Lagosanto don Giuseppe Folegatti, costretto a fuggire dal suo paese perché ritenuto un fiancheggiatore della Brigata “M. Babini” e per questo accusato di antifascismo.
Narra una storia dolorosa. – si legge nelle cronache conventuali – (…) Il Federale di Ferrara (Igino Ghisellini) il 24 corrente era stato a trovar(lo) in canonica e gli aveva detto che se entro una settimana non avesse fatto propaganda fascista e tedescofila per lui sarebbe stato troppo tardi e non avrebbe avuto più tempo per rimediare. La sua coscienza si ribellò a tale proposta e senz’altro disse che non poteva accettare. Domenica 31 verrò di nuovo soggiunse il Federale e farò quello che dovrei fare in questo momento
Per scongiurare questo pericolo, a quel punto, non gli restava altro da fare che far perdere immediatamente le proprie tracce. Così, con il beneplacito del suo vescovo, mons. Paolo Babini – che si premurò perfino di scrivere una lettera al card. Dalla Costa per raccomandarlo – don Giuseppe Folegatti decise di rifugiarsi a Quadalto, presso il Santuario di S. Maria della Neve. Nel frattempo, il 14 novembre successivo, mentre i nazi-fascisti a Firenze avevano sferrato la prima ondata di rastrellamenti, inaspettatamente, verso mezzanotte le suore furono svegliate di soprassalto da una insistente scampanellata. Con una certa inquietudine si precipitarono alla finestra dalla quale riuscirono a scorgere un uomo e una donna che, alquanto concitati, chiesero loro: «È qui il Prof. Levi con la sua famiglia?».
Noi non conosciamo il Prof. Levi; e in Convento non vi è alcun estraneo», tagliò corto suor Teresa Serantoni. «Non tema buona sorella, ci apra – replicò il misterioso interlocutore –. Io sono il fratello del Prof. Levi e questa è la mia figliola. Sappiamo di certo che mio fratello con la sua famiglia è qui.
Nel frattempo i familiari del celebre letterato dalla loro camera, sentendo bisbigliare, si avvicinarono per cercare di capire cosa stesse succedendo; appena intuirono di chi si trattava, tirando un sospiro di sollievo, fecero un cenno di approvazione alle suore per confermare che quanto asserivano rispondeva al vero, pregando la madre superiora di ospitare anche loro nel convento. Naturalmente suor Teresa anche stavolta accettò di buon grado, sebbene, come sottolineava la cronista, la faccenda incominciava ad assumere dei risvolti preoccupanti, visto che a
Firenze si da(va) caccia spietata agli ebrei e ci p(oteva) stare che qualcuno a(vesse) visto questi due smontare dalla Corriera di Palazzuolo e venire da noi. (…) Siamo molto in pensiero per questa famiglia di perseguitati che possano venire scoperti da un momento all’altro – continua la religiosa –e siamo anche molto in pensiero per la nostra Madre Generale perché basta che l’arrestino perché muoia essendo malatissima e non potendo il suo debolissimo fisico sopportare un viaggio in un camion e la reclusione in una prigione.
Il sinistro presagio si materializzò qualche giorno dopo, il 17 novembre, allorché, sul far della sera, inaspettatamente, si presentò in convento una spia fascista, il Maresciallo dei Carabinieri Mariottini il quale, con un tono intimidatorio, rivolse alla madre generale una domanda che suscitò un certo sconcerto: «Circolano voci in paese che voi alloggiate in Convento una famiglia di ebrei». A quel punto, senza alcuna esitazione, suor Teresa Serantoni, con tono compito e al tempo stesso perentorio, replicò: «In Convento io non ho persona alcuna. Venga pure a perlustrare il Convento e si convincerà di quanto affermo». Al che il carabiniere replicò con altrettanta fermezza: «Vi avverto che se ciò fosse vero mettereste in serio pericolo la vostra vita perché le leggi vigenti sono severissime a questo riguardo».
Appena vide che l’ufficiale visibilmente corrucciato lasciava il convento, tirando un lungo sospiro di sollievo, l’audace religiosa immediatamente si precipitò dal prof. Levi per esortarlo a fare presto le valigie perché era stato purtroppo scoperto e quel luogo ormai non garantiva più alcuna sicurezza.
Piove è buio pesto per Palazzuolo – scrive angosciata la cronista – non conviene passare perché vi è il coprifuoco e verrebbero fermati dalla Milizia Fascista. L’unica strada è quella di prendere per Lozzole e arrivare a Marradi. Strada pericolosa quella di Lozzole con un buio così pesto colla pioggia che ha reso il viottolo sdrucciolevole. Il Professore è vecchio ormai cadente e una delle figlie è febbricitante. Decidono di partire e lasciare qui la sposa del Professore perché ammalata e incapace di far tanta strada a piedi. La separazione è dolorosissima tutti piangono.
Ad ogni modo, in quella stessa notte, inerpicandosi per i sentieri di montagna a piedi sotto la pioggia battente, riuscirono a fuggire ed a raggiungere, alle prime ore del mattino, Marradi per trovare un nascondiglio sicuro nei pressi di Firenze: Eugenia e Sara furono, infatti, ospitate in un convento di suore, mentre «il professore si nascose nel Ricovero dei vecchi mendicanti a Firenze». Anche l’altra casa delle Ancelle di Maria di Coverciano-Firenze, guidata egregiamente dalla madre superiora suor Candida Resta, si adoperò in quest’opera di carità per cercare di mitigare «l’odio cieco, implacabile, indiscriminato» e la lunga scia di sangue che lasciava dietro di sé l’atroce vendetta dei nazi-fascisti. Difatti, con l’incalzare della guerra e delle persecuzioni antiebraiche,
tragici furono i giorni del dolce settembre fiorentino e quanto mai doloroso fu l’autunno 1943. (…) e così, per quelle porte sempre arditamente, sempre fraternamente aperte, passarono uomini messi in fuga dalle indiscriminate retate; soldati scampati alle deportazioni; compromessi politici braccati con orribile bramosia di vendetta; ebrei perseguitati senza sosta; anime in pena in cerca di scampo; superstiti terrorizzati dai bombardamenti; giovani insofferenti di vestire una divisa che li avrebbe messi al servizio del nemico e dei fascisti fratricidi; vecchie inglesi e vecchie americane ammalate o inferme, destinate ai campi di concentramento; innocenti minacciati da orribili rappresaglie. (…) In tal modo, la dolce Casa (…) accolse, soccorse, confortò, ospitò, con imperturbabile calma, consapevolmente incurante del pericolo a cui esponeva, in quel triste tempo, ogni forma di pietà. (…) le soccorrevoli porte continuarono perciò a rimanere confidentemente aperte e nessuna restrizione fu imposta neppure agli ospiti più indiziati e più attivamente ricercati.
Difatti, con il favore delle tenebre, alle tre del mattino del 27 novembre 1943 dopo aver tratto in arresto i membri del Comitato di assistenza ebraico-cristiano nella sede fiorentina dell’Azione Cattolica, in via de’ Pucci al civico 2, un’altra pattuglia di circa trenta SS, coadiuvati dai miliziani fascisti, in seguito alla delazione del segretario di Joseph Ziegler – tale Marco Ischio – diedero libero sfogo alla loro violenza non risparmiando neanche i luoghi sacri, dove erano convinti di scovare gli ebrei nascosti con la compiacente complicità delle religiose.
La razzia più efferata si rivelò proprio quella perpetrata nel convento delle Suore Francescane Missionarie di Maria di piazza del Carmine, guidato all’epoca dalla giovane madre superiora suor Sandra (al secolo Ester Busnelli) che, accogliendo l’invito del card. Dalla Costa, aveva spalancato le porte del proprio convento ad una cinquantina di donne, quasi tutte profughe ebree, con i loro bambini, tra cui spiccava la moglie del rabbino capo di Genova, Wanda Abenaim Pacifici, con suoi due figli Emanuele e Raffaele, rispettivamente di 12 e 5 anni. Giunsero il 19 novembre 1943 e appena arrivati, su indicazione di don Leto Casini, furono dapprima ospitati dalle suore Missionarie di Maria in piazza del Carmine che, all’epoca, erano guidate dalla superiora madre Sandra Busnelli e dalla sua assistente suor Benedetta Vespignani. In questo convento, tuttavia, i due bambini restano soltanto una notte perché la rigida clausura li costringe a separarsi dalla madre che resta nascosta dalle suore.
Di conseguenza, la mattina del 20 novembre, Emanuele e Raffaele vengono trasferiti a Settignano, una località a poca distanza da Firenze, dove trovano ospitalità presso il collegio maschile retto dalle suore dell’Istituto di Santa Marta. Qui subito sono affidati alle amorevoli cure di madre Marta Folcia fino alla liberazione di Firenze. Il 26 novembre i due bambini ricevono una telefonata della madre che promette di andarli a trovare la domenica successiva. Purtroppo, quella sarà l’ultima volta che ascolteranno la voce della loro cara madre perché proprio quella stessa notte fu tratta in arresto e deportata ad Auschwitz dove già si trovava il marito Riccardo.
Le Ebree nel salone sono prese come topolini nella trappola – scrive la cronista – e non sanno riaversi dalla sorpresa. (…) Una ragazza (Lea Lowenwirth-Reuveni). tenta di fuggire saltando dalla finestra ma è subito raggiunta da un SS. Difatti, nel frattempo, la responsabile del pensionato, suor Emma Luisa, appena sentiti i rintocchi di campana, aveva tentato «di farne fuggire parecchie [di loro] per una porta segreta di clausura, che esse già conoscevano. Sfortunatamente non arrivano in tempo e sono prese.
Suor Benedetta Vespignani con Emanuele e Raffaele Pacifici e un soldato della Brigataebraica
Le donne ebree fermate dai tedeschi furono tenute prigioniere nel convento con i loro bambini per quattro giorni di fila, affidate in custodia ai fascisti del famigerato Reparto Servizi Speciali – meglio noto come Banda Carità – i quali, la mattina del 30 novembre, si lasciarono andare ad ogni sorta di sopruso e sevizia al punto che,
per avere due o tre ragazze che essi pretendevano di avere (…) ci fu una (…) che per salvare le ragazze si offrì lei di darsi a quei fascisti, ed essi ne abusarono in un angolo della stanza (…), però nessuna fu liberata.
Difatti furono dapprima recluse nelle carceri fiorentine e poi trasferite a Verona prima di essere istradate verso il campo di Auschwitz-Birkenau da dove, purtroppo, non faranno più ritorno.
Proprio in virtù di questa opera profusa a beneficio di tante famiglie ebraiche il Museo dell’Olocausto Yad Vashem di Gerusalemme, il 26 novembre 2012, ha conferito l’alta onorificenza di “Giusto tra le Nazioni” al cardinale Angelo Elia Dalla Costa. Qui di seguito riportiamo il testo ufficiale pubblicato sul sito dell’importante istituzione ebraica.
Cardinal Elia Angelo Dalla Costa, Archbishop of Florence, Recognized as Righteous Among the Nations
26 November 2012
Elia Dalla Costa diploma d’onore di GIUSTO FRA LE NAZIONI2
Cardinal Elia Angelo Dalla Costa, Archbishop of Florence, has been recognized as Righteous Among the Nations. Cardinal Dalla Costa was recognized for spearheading the rescue of hundreds of Jews in Florence during the Holocaust. The Cardinal’s name will be engraved on the Wall of Honor in the Garden of the Righteous at Yad Vashem.
The rescue story:
During the Holocaust, Florence became the scene of a major rescue endeavor. Initiated by Rabbi Nathan Cassuto and Raffaele Cantoni, it became a joint effort of Church people, guided by Cardinal Elia Angelo Dalla Costa, Archbishop of Florence, and Jewish personalities. This Jewish-Christian network, set up following the German occupation of Italy and the onset of deportation of Jews, saved hundreds of local Jews and Jewish refugees from territories which had previously been under Italian control, mostly in France and Yugoslavia.
Cardinal Dalla Costa initiated and encouraged the participation and activity in the rescue activity of the clergy, and appointed his secretary, Father Meneghello, to be in charge of these dangerous life-saving operations. Dalla Costa played a central role in the organization and operation of a widespread rescue network, recruited rescuers from among the clergy, supplied letters to his activists so that they could go to heads of monasteries and convents entreating them to shelter Jews, and sheltered fleeing Jews in his own palace for short periods until they were taken to safe places.
In December 1943, following a denunciation, most of the Jewish activists were arrested. From that time on, it was the Church people who bore most of the responsibility for maintaining and upholding the rescue effort, even though some of the Church clergy too were arrested and in some cases even tortured.
There are a number of testimonies testifying to Della Costa’s personal involvement in rescue activities.
Lya Quitt testified that she fled from France to Florence in the beginning of September 1943 and was brought to the Archbishop’s palace where she spent the night with other Jews who were being sheltered there. The following day they were taken to different convents in the city.
Giorgio La Pira described Dalla Costa as “the soul of this ‘activity of love’ aimed to save so many brothers,” and Father Cipriano Ricotti wrote: “I don’t know about other cities, but in Florence a real organization to help Jews was set up by the wish of Cardinal Elia Dalla Costa. I remember being summoned to the Archbishop’s office – it was September 20, 1943 at the latest. I presented myself, accompanied by the Provincial Superior, Father Raffaele Cai. The Archbishop asked me, (in the presence of Monsignor Meneghello), if I believed that I could devote myself to helping Jews. He immediately gave me a letter of introduction he had written, so that I would have the authority to turn to monasteries – many of which may not have opened their gates, had I not such a letter in my possession – so as to find shelter for the numerous suffering persons.”
Earlier this year, Yad Vashem recognized Cardinal Elia Angelo Dalla Costa as Righteous Among the Nations. Despite many efforts, Yad Vashem has been unable to identify any next of kin for the Archbishop, and so the medal and certificate of honor will remain at Yad Vashem.
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