Ulteriori note sul vatileaks ai tempi di Benedetto XVI.
Ulteriori note sul vatileaks ai tempi di Benedetto XVI.
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Nel vatileaks ai tempi di Benedetto XVI, un posto importante ebbero anche le questioni, topiche, dell’Istituto Opere di Religione (IOR). Ratzinger, che nel 2009 scrisse l’importante ed esigente enciclica Caritas in Veritate proprio sulla dottrina sociale, voleva assolutamente che la Santa Sede mondasse la sua immagine finanziaria dal retaggio di trent’anni e passa di scandali, veri o falsi. Il suo impegno riformatore era necessario anche in quel settore e ancora segna la linea di condotta del Successore. I delegati all’esecuzione della volontà benedettina presso le varie amministrazioni della Santa Sede furono i cosiddetti Ratzi-banker: il cardinale Ivan Dias alla Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli, al posto del cardinal Crescenzio Sepe, lambito da qualche ombra amministrativa e mandato a fare l’Arcivescovo a Napoli; i cardinali Sergio Sebastiani, Velasio de Paolis e Giuseppe Versaldi alla Prefettura degli Affari Economici e Attilio Nicora e Domenico Calcagno all’Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica (APSA); i cardinali Giovanni Lajolo e Giuseppe Bertello al Governatorato dello Stato della Città del Vaticano come Presidenti e i monsignori Renato Boccardo, Carlo Maria Viganò e Giuseppe Sciacca come segretari generali. Non tutti sono sempre stati all’altezza, ma l’attenzione del vatileaks si focalizzò solo sull’amministrazione dello IOR.
Proseguendo sulla falsariga degli altri articoli pubblicati su queste colonne, voglio esaminare i fatti e proporre delle riflessioni, conscio del fatto che anche quella gestione, coronata dal successo, fu strumentalizzata e viene ancora deformata contro Benedetto XVI, grazie alla presenza di uno o più corvi, annidati persino nell’inespugnabile Torrione di Niccolò V, sede dello IOR.
Uno degli ultimi atti del Segretario di Stato Angelo Sodano fu, nel 2006, quello di nominare Prelato dello IOR il suo segretario personale monsignor Pietro Pioppo, scelto senza nemmeno informare il Pontefice, che inviò il segretario monsignor Georg Gänswein a chiedere al Torrione di Niccolò V chi fosse stato designato. Quella nomina avrebbe permesso a Sodano di continuare a controllare politicamente la fiduciaria anche dopo le sue oramai imminenti dimissioni, anche perché egli rimaneva Presidente della Commissione Cardinalizia di Vigilanza sullo IOR, ma rivelava anche il timore che il Papa disarcionasse i diplomatici dal controllo della fiduciaria, che in quegli anni gestiva un capitale di fondi per 2,3 miliardi di euro e investimenti per 5 miliardi. Cifre tutto sommato modeste per gli standard bancari internazionali, ma vitali per la Chiesa e le sue strutture, centrali e periferiche. Infatti lo IOR, che pur essendo ente centrale della Chiesa e insistendo nella Città del Vaticano, non è Santa Sede dai tempi della II Guerra Mondiale, può operare in proprio ovunque nel mondo senza sottostare ai vincoli giuridici e diplomatici di uno Stato sovrano. E’ attraverso lo IOR, per esempio, che arrivano le provvidenze ai missionari, anche dove essi operano illegalmente. Ed è anche per questo suo status che chi vuol mobilizzare i propri capitali senza troppi vincoli spesso cerca di utilizzarlo e altrettanto frequentemente vi è riuscito.
Comunque, tornando al nostro discorso, al Cardinal Sodano, nello stesso 2006, subentrò il cardinale Tarcisio Bertone, rompendo una tradizione consolidata che metteva ai vertici della Terza Loggia sempre un diplomatico di carriera. Nel luglio 2007 il cardinale presidente della Prefettura degli Affari Economici, Sergio Sebastiani, diede lettura del bilancio vaticano, annunziando un saldo passivo di sette milioni di euro e dando dettagli mai forniti prima in simili circostanze, come l’ammontare dei sussidi versati dalle diocesi alla Santa Sede e quello dell’Obolo di San Pietro. Ciò rivelava la volontà di trasparenza di Papa Benedetto persino nella rendicontazione dei bilanci.
Un’occasione importante per accreditare il nuovo corso si ebbe quando ad Angelo Caloja, dimissionario un anno e mezzo prima della fine del suo mandato, nel febbraio 2008, subentrò, quale Presidente dello IOR, Ettore Gotti Tedeschi, vicino all’Opus Dei, amico di Bertone e responsabile degli affari italiani del Banco Santander, ma anche legato alla Banca d’Italia e al ministro delle Finanze del IV Governo Berlusconi Giulio Tremonti, nonché collaboratore alla redazione dell’enciclica di Benedetto XVI Caritas in Veritate. In questo modo la supervisione politica della fiduciaria passava al Segretario di Stato, al quale il Papa conferì anche la presidenza della Commissione di Vigilanza dello IOR stesso, fino ad allora ancora guidata da Angelo Sodano, diventato Decano del Sacro Collegio. Nella Commissione entrò anche lo stimato cardinale Attilio Nicora, presidente dell’APSA, e così tutto apparve chiaro: Benedetto XVI voleva una gestione trasparente, come del resto lui stesso aveva dichiarato alla plenaria del Consiglio dei Cardinali per lo studio dei problemi economici ed organizzativi della Santa Sede, e la voleva nel quadro dell’organigramma scelto da lui. Così nel 2009 Pietro Pioppo fu nominato Nunzio Apostolico in Camerun e lasciò la Prelatura dello IOR nel 2010. Il 23 settembre nel Consiglio di Sovrintendenza dello IOR entrarono Carl Anderson, cavaliere supremo dei Cavalieri di Colombo (ricchissimo e cattolicissimo Ordine statunitense), Giovanni de Censi presidente del Credito Valtellinese, Ronaldo Hermann Schmitz della Deutsche Bank e Manuel Soto Serrano di Indra Sistemas.
Tuttavia Ettore Gotti Tedeschi non trovò una buona accoglienza allo IOR, dove lo si percepiva come un estraneo, un commissario. Lui a sua volta portò un atteggiamento messianico nello svolgimento del suo mandato, più purificatorio che gestionale. La sua scelta, voluta dal Segretario di Stato, si sarebbe rivelata un grandissimo errore.
Per favorire questo avvicendamento qualcuno vibrò un colpo basso e passò a Gianluigi Nuzzi le presunte carte dell’archivio del defunto monsignor Renato Dardozzi, consulente economico di Agostino Casaroli, così da permettergli di scrivere Vaticano SPA. Le modalità di consegna, descritte da Nuzzi stesso nell’introduzione, sono più da servizio segreto che da lascito testamentario, anche perché il Monsignore e l’autore non si incontrarono mai in vita.
Il libro gettava un’ombra sulla gestione dello IOR sotto Angelo Caloja e il prelato monsignor Donato De Bonis e del Governatorato della Città del Vaticano sotto il cardinale Rosalio Josè Castillo Lara. Sullo sfondo c’era la contrapposizione tra il nuovo Segretario di Stato e i diplomatici orfani di Angelo Sodano. Tuttavia i fatti descritti non erano molto diversi da quelli che si sarebbero potuti raccontare in ogni amministrazione finanziaria e di veramente importante c’era solo il transito della tangente ENIMONT per i conti della fiduciaria vaticana. In ogni caso, il volume metteva una pietra tombale sulla gestione passata di due importanti organismi finanziari del Vaticano e spianava la strada a quella targata Tarcisio Bertone-Ettore Gotti Tedeschi-Carlo Maria Viganò, che arrivò al Governatorato come segretario generale proprio in quell’anno. Da qui la mia personale convinzione che sia probabile che il materiale alla base di Vaticano SPA fosse passato all’autore da persone vicine al nuovo Segretario di Stato, e che il buon Dardozzi, che Nuzzi lo sapesse o meno, non gli aveva lasciato proprio nulla.
Lo sforzo gestionale dell’economia vaticana fu comunque notevole e positivo. Negli anni della lotta alla pedofilia, i bilanci papali erano in condizioni migliori di quelli di altri Stati, nonostante la grande recessione iniziata nel 2008 per il crollo dei subprime americani e che colpì anche il Vaticano, grazie anche ai consigli contabili del cardinale arcivescovo di Genova Angelo Bagnasco, presidente della Conferenza Episcopale Italiana. Fu così che il cardinale Velasio de Paolis, successore di Sebastiani alla Prefettura degli Affari Economici, annunziò che per il 2009 il deficit si era ridotto a poco più di 4 milioni di euro. Nello stesso anno iniziò, per volontà del Papa, l’adeguamento del Vaticano agli standard internazionali stabiliti dalle raccomandazioni del Gruppo di Azione Finanziaria (GAFI) del Fondo Monetario Internazionale (FMI), allora retto da Christine Lagarde. Seguirono la cosa il sottosegretario della Segreteria di Stato agli Affari Pubblici Ettore Balestrero e l’avvocato Jeffrey Lena. Essa riguardava solamente lo IOR, perché l’APSA era lontana da avventurismi finanziari ed aveva una solida reputazione sui mercati.
Inoltre la fiduciaria era nel mirino del Consiglio dell’Unione Europea, che aveva deciso, sempre nel 2009, di rivedere gli accordi con Monaco, San Marino e Vaticano in materia monetaria, apparentemente per il motivo di uniformare le regole antiriciclaggio e antiterrorismo. L’obiettivo era in realtà controllare le transazioni delle banche locali, in primis lo IOR, e condizionare la sovranità monetaria dei microstati, considerati alla stregua di enclavi. La trattativa tra UE e Segreteria di Stato fu serrata e alla fine divenne un diktat della prima alla Santa Sede, che non poteva sospendere la monetazione in euro. L’alternativa, suggerita da Carlo Maria Viganò, ancora segretario generale del Governatorato della Città del Vaticano, era l’uscita dall’euro della Santa Sede, così da salvaguardare la sua sovranità monetaria, ma la proposta fu respinta sia dal presidente del Governatorato, il cardinale Lajolo, che dal Segretario di Stato Bertone. Essa era infatti irrealizzabile all’epoca, in quanto avrebbe messo la Santa Sede ai margini delle transazioni internazionali, anche se ad oggi sembra essere stata profetica.
Una volta raggiunto, l’accordo, che prevedeva la recezione da parte del Vaticano delle stringenti normative contro riciclaggio, frode, contraffazione e coniazione, subì un ulteriore ritardo per il rifiuto del presidente della Commissione europea, il socialista spagnolo Joaquim Almunia, di firmarlo alla presenza del Nunzio Apostolico, preferendo scambiarlo tramite i funzionari. Almunia era in fondo un villano che rivestiva i suoi gesti di contenuti anticlericali, da buon socialista spagnolo, ma Benedetto XVI teneva moltissimo a ripulire l’immagine finanziaria del Vaticano e accettò anche questa trafila, perché anche lui, come la UE, voleva quelle norme. Il Papa non vide il rischio della perdita della sovranità monetaria, mentre Bruxelles mirava a togliergliela. Su questo equivoco si giocò la relazione tra il Vaticano e Bruxelles. La Convenzione finanziaria fu comunque sottoscritta il 17 settembre 2009 e modificava le relazioni bilaterali, introdotte in materia dai Patti Lateranensi, tra Italia e Santa Sede, sostituendole con quelle tra Vaticano e UE.
Tuttavia la sua recezione in una legislazione specifica per lo IOR fu ulteriormente rallentata, nello stesso mese, dall’inopinato blocco di 23 milioni di euro trasferiti dalla fiduciaria in giroconto per tesoreria, a partire dai propri conti del Credito Artigiano, su quelli propri alla Banca del Fucino e alla JP Morgan di Francoforte. La Banca d’Italia di Ignazio Visco pretese chiarimenti sul movimento e, ricevutili, non li considerò soddisfacenti, in mancanza di una legge antiriciclaggio che proprio essa, col suo intervento abusivo, faceva dilazionare. Entrò in gioco la magistratura italiana, in dispregio della sovranità vaticana, e i soldi furono bloccati, col pretesto che la Santa Sede non volesse rivelare i nominativi di coloro che beneficiavano dei movimenti, che semplicemente non esistevano, appunto trattandosi di giroconto. Sembrava come se ogni volta ci fosse un gioco al rialzo: l’adattamento ai parametri del FMI si trasformava in quello alla normativa europea, poi diventava una contesa internazionale finanziaria e infine addirittura una controversia di giurisdizione. Per la propria trasparenza, sembrava che il Vaticano dovesse pagare l’assurdo prezzo di non essere più Stato sovrano, quasi lo si volesse mettere al bivio di proseguire perdendo la libertà o di conservare quest’ultima a scapito della credibilità.
Ettore Gotti Tedeschi e il direttore generale dello IOR Paolo Cipriani fecero allora una scelta giuridicamente scorretta e spontaneamente andarono a conferire coi magistrati il 30 settembre 2010, ignorando il fatto che la loro fiduciaria era sottoposta solo alla Santa Sede. I chiarimenti furono inoltre considerati insufficienti dai giudici Nello Rossi e Stefano Rocco Fava – che, il 20 dicembre, confermarono il blocco delle somme – e non stornarono dallo IOR una tempesta mediatica del tutto ingiustificata. In compenso i cardinali Nicora e Jean Louis Tauran, entrambi in Commissione di Vigilanza, si irritarono per la scelta fatta dal Presidente e dal Direttore Generale, che, da quel momento, non assecondò più il suo superiore. Bertone sembra che non fosse stato nemmeno consultato, dando solo un generico assenso tramite l’avvocato Scordamaglia della Segreteria di Stato, avvisato da Gotti Tedeschi. Dal canto suo Paola Severino, avvocato del Presidente dello IOR e poi ministro della Giustizia del Gabinetto Monti, sembra abbia influito sull’incauta scelta del suo cliente.
In ogni caso, Gotti Tedeschi aveva creato un precedente a cui gli avversari del Vaticano potevano da allora in poi rifarsi.
Alla fine Benedetto XVI, ottemperando alle richieste UE e non lasciandosi impressionare dalle inframmettenze italiane e dalle intemperanze del suo banchiere, il 30 dicembre 2010, con la Legge 127 dello Stato, pubblicata con Motu Proprio, assoggettò tutti gli organismi finanziari del Vaticano, IOR compreso, all’Autorità di Informazione Finanziaria (AIF), appositamente costituita ed affidata allo stimatissimo cardinale Attilio Nicora, che lasciava così tutti gli altri incarichi. L’estensore della norma fu l’avvocato Marcello Condemi, collaboratore sia della Segreteria di Stato che dell’AIF e amico di Ettore Gotti Tedeschi. L’avvocato Francesco De Pasquale, altro amico di Gotti Tedeschi ed estensore, con Condemi, dei Lineamenti della disciplina internazionale di prevenzione del riciclaggio e del finanziamento del terrorismo, edite dalla Banca d’Italia nel 2008, divenne Direttore dell’AIF. I suoi membri, tutti italiani, furono scelti con l’intento di potenziare al massimo le relazioni con la Banca d’Italia e rimuovere di fatto ogni motivo di contrasto, dando segno di voler collaborare ed adeguarsi alle normative italiane, nella salvaguardia della sovranità pontificia. Ma non sarebbe bastato.
Nell’aprile 2011, forte di quanto realizzato, Benedetto XVI chiese a Moneyval, il comitato antiriciclaggio del Consiglio d’Europa, di avviare la valutazione delle procedure in materia adottate dalla Santa Sede. Il 14 settembre il Vaticano inviò i suoi documenti al comitato e i suoi ispettori, guidati dal russo Vladimir Nechaev, visitarono più volte il piccolo Stato. Iniziò così una lunga procedura che continuamente venne soggetta a tentativi di sabotaggio, ma che avanzò costantemente, pur coincidendo, non casualmente, col periodo più oscuro del vatileaks, quello di Paolo Gabriele e di Carlo Maria Viganò.
Comunque, sebbene ancora nel 2011 il Dipartimento di Stato USA considerasse il Vaticano un paese a rischio di infiltrazioni di capitali di dubbia origine, gli dava atto degli sforzi che aveva fatto e Benedetto XVI poté, di lì a poco, recepire le normative del GAFI del FMI in Vaticano e farlo inserire nella white list degli Stati virtuosi in materia finanziaria. Questa buona prassi corrispondeva ai buoni principi enunciati dal Pontificio Consiglio per la Giustizia e la Pace in un suo documento ufficiale dell’ottobre di quell’anno, che auspicava la Tobin Tax e la distinzione tra attività creditizia ordinaria e quella di investimento speculativo, nel quadro di una riforma globale della finanza in crisi. Tuttavia, tra le banche ostili alla distinzione, la cosiddetta Volcker Rule, c’era la JP Morgan, con cui lo IOR aveva relazione e che aveva inventato i titoli derivati sul debito sovrano, permettendo una speculazione su di esso. La cosa avrebbe avuto un suo sviluppo, come vedremo.
Il 25 gennaio 2012 la Legge 127 fu bilanciata con un decreto d’urgenza su riservatezza e scambio di informazioni, il Decreto 159 del Governatorato, a firma del Cardinal Bertello e voluto dal Cardinal Bertone, che prevedeva il nulla osta della Segreteria di Stato all’attività dell’AIF, che avrebbe dovuto svolgersi secondo un regolamento da promulgarsi da parte del Governatorato stesso. Si trattava di modifiche necessarie per le situazioni pratiche in cui lo IOR spesso si trovava ad operare e a cui abbiamo fatto riferimento, oltre che per salvaguardare l’ordinamento politico del Vaticano, che è una monarchia assoluta. Nel decreto era previsto anche un ruolo della Gendarmeria Vaticana. La nuova norma inoltre prevedeva intese bilaterali per lo scambio di informazioni finanziarie tra il Vaticano e altri Stati sovrani, cosa non fatta nemmeno dall’Italia e che metteva la Santa Sede all’avanguardia delle politiche di sicurezza finanziaria. Tuttavia il 31 del mese un documento riservato arrivò al Fatto Quotidiano e informò il mondo del fatto che vi era un dibattito su come intendere le nuove norme antiriciclaggio, se retroattivamente o no. In realtà in quel documento si propendeva per il sì, ma il testo era pubblicato in un contesto di ambiguità, tale da screditare quanto il Papa andava facendo e obbligare il Vaticano ad accettare la retroattività, sebbene giuridicamente impossibile in campo legislativo. Sempre sul Fatto Quotidiano uscì il 15 febbraio un appunto del Cardinal Nicora al Cardinal Bertone, datato 12 gennaio e reso noto anche a Gotti Tedeschi, nel quale il porporato esprimeva riserve sul Decreto 159, che rischiava di esautorare l’AIF e di far fare brutta figura alla Santa Sede, se non avesse applicato la Legge 127. Nello stesso articolo si riportavano due pareri sulla retroattività delle norme vaticane allo IOR: uno favorevole del direttore AIF De Pasquale e uno contrario, nonché del pronunciamento, anch’esso contrario in punta di diritto, del professor Giuseppe Della Torre, presidente del Tribunale dello Stato. Lo sforzo riformatore veniva offuscato da queste fughe di notizie e un parere del tutto ovvio come quello di Della Torre sembrava voler coprire chissà quali crimini. Si continuava ad alimentare la leggenda nera della fiduciaria vaticana, per screditare il Papa nonostante la sua politica riformatrice.
Nel febbraio 2012, a Gli Intoccabili di La7, condotto da Gianluigi Nuzzi e all’epoca frequentati da Paolo Gabriele in incognito e allietati dalla lettura delle lettere private di Viganò fornite da lui stesso, venne riesumato il caso IOR-Ambrosiano e il magistrato Luca Tescaroli, che lo seguiva, accusò il Vaticano di non aver dato corso alle sue tre rogatorie internazionali presentate tra il 2002 e il 2008. La Santa Sede puntualizzò che esse, sincronicamente riesumate da Repubblica, non erano state presentate nelle forme legali. La rete dei corvi si era rimessa in moto, allo scopo di far sembrare fittizie le riforme vaticane.
Subito dopo la JP Morgan Italia il 15 febbraio annunziò che avrebbe chiuso il conto che lo IOR aveva presso di essa a Milano entro il 30 marzo, in quanto la fiduciaria non voleva fornire le informazioni richieste dalla legge italiana e dal regolamento della banca sui movimenti svolti, che nel corso del 2009 erano arrivati a circa un miliardo, perché non ricadenti sotto l’italica giurisdizione. I chiarimenti erano stati sollecitati dall’Unità di Informazione Finanziaria della Banca d’Italia, a sua volta interpellata dai magistrati Nello Rossi e Stefano Rocco Fava. Bankitalia e magistratura continuavano a trattare il Vaticano come una enclave italiana, rendendo di fatto difficile l’applicazione delle riforme e tentandolo di lasciarle cadere, così da screditarsi. Il denaro depositato alla JP Morgan venne trasferito su un conto IOR a Francoforte. Su questa procedura si confrontarono Bertone e Gotti Tedeschi. E’ probabile che la JP Morgan abbia così voluto anche pareggiare i conti col Papa per l’appoggio dato alla Volcker Rule. La notizia arrivò alla stampa il 18 marzo. In ogni caso, lo IOR il 22 marzo chiuse ogni rapporto con le banche italiane e spostò il suo denaro da esse alla Deutsche Bank, anche se questo danneggiava quelle Congregazioni religiose che, avendo sede in Italia, avrebbero d’allora in poi dovuto spostare il loro denaro tramite bonifici a pagamento o abbandonare lo IOR, riducendo la sovranità della Santa Sede in materia temporale ecclesiastica. Inoltre la Deutsche Bank non rientrava pienamente negli standard etici sostenuti dal magistero papale con l’Istruzione del 2011, in quanto fino a poco tempo prima aveva emesso titoli derivati sulle materie prime agricole che avevano fatto levitare il prezzo del cibo, per cui c’erano potenziali motivi di attrito o imbarazzo. Qualcuno voleva ancora una volta rendere difficile la vita del Vaticano in via di rinnovamento.
Nel 2012 il Papa, evidentemente non piegato da questo infuriare di controversie, completò l’opera normativa conferendo, il 9 marzo, alla Prefettura degli Affari Economici, ora affidata al cardinale Giuseppe Versaldi, competenze proprie di un ministero delle Finanze.
Il 24 maggio, il giorno dopo dell’arresto di Paolo Gabriele, il Consiglio di Sovrintendenza dello IOR sfiduciò unanime Ettore Gotti Tedeschi, guardato con sospetto per le fughe di notizie e per aver sostenuto la linea della retroattività giuridica delle norme antiriciclaggio, nonché per l’opposizione al Cardinal Bertone per determinati progetti politico-finanziari, come quello del risanamento del San Raffaele e della creazione di un polo sanitario cattolico italiano. E’ assolutamente falso che il Segretario di Stato nulla sapesse della sfiducia, anzi cercò di evitarla perché sapeva che lo avrebbe infangato in quanto era stato lui a scegliere Gotti Tedeschi. I consiglieri si erano tuttavia procurati anche una diagnosi psichiatrica del defenestrato Presidente, sin dal mese di marzo, a firma del dottor Pietro Lasalvia, e l’avevano consegnata al Segretario di Stato. Essa, formulata all’insaputa del paziente e puntualmente finita sul Fatto Quotidiano il 9 giugno successivo, dimostra che furono i consiglieri a voler imporre a Bertone la sostituzione di Gotti Tedeschi, con una procedura che destò comprensibile sconcerto nel mondo finanziario. L’unico che aveva cercato di mediare tra il Presidente e il Segretario di Stato era stato l’avvocato Jeffrey Lena, ma inutilmente. Il Papa non venne informato della manovra e rimase molto sorpreso ma decise di accettare il fatto compiuto, fidandosi delle valutazioni fatte dai consiglieri. Il giorno dopo la Commissione Cardinalizia di Vigilanza affidò l’interim della presidenza al vice-presidente Ronaldo Hermann Schmitz che, assieme a Carl Anderson, aveva operato energicamente per la sostituzione di Gotti Tedeschi. Quel che accadde attestò che la rimozione era avvenuta appena in tempo per evitare altri scandali.
Infatti il 5 giugno i Carabinieri, per mandato della Procura di Napoli, perquisirono la casa piacentina di Gotti Tedeschi e il suo ufficio milanese, nel quadro di una inchiesta su Finmeccanica, il cui amministratore delegato Giuseppe Orsi era in relazione con l’ex-Presidente IOR, il quale, alla vigilia della sua rimozione, gli aveva anticipato che si sarebbe dimesso per non essere sfiduciato e gli chiese la direzione di una filiazione di Finmeccanica stessa, cosa che l’interlocutore non escluse. Anche la magistratura romana interrogò Gotti Tedeschi, indagato per riciclaggio per la sua attività allo IOR, e acquisì due documenti: un memoriale del gennaio, che descriveva la sua attività alla fiduciaria ed era destinato al Papa tramite, forse, monsignor Gänswein, e un appunto che il banchiere aveva predisposto per due amici, il suo avvocato e il giornalista Massimo Franco, in caso gli fosse successo qualcosa. Dai documenti si evinceva che Gotti Tedeschi riteneva di non essere più in grado di proseguire il suo mandato, perché favorevole alla retroattività delle norme adottate in Vaticano e per contrasti col direttore generale dello IOR Cipriani. Nel corso dei suoi interrogatori, Gotti Tedeschi formulò i peggiori sospetti sullo IOR, senza addurre nessuna prova, dimenticando il piccolo dettaglio che ne era stato il Presidente e che quindi avrebbe dovuto averne. Fece numerosi nomi di potenziali nemici che però non avevano nulla a che spartire con lui. Forse non era tutto falso quello che riferiva la perizia, fraudolentemente formulata, sullo stato mentale del banchiere. In ogni caso, il direttore Cipriani concesse una intervista al Corriere della Sera e difese bene la posizione dello IOR, anche se i media continuarono a presentarlo come un verminaio e a fare di Gotti Tedeschi un Savonarola della finanza che per questo era stato cacciato. Il tocco che non poteva mancare era quello suggerito da Carlo Maria Viganò, ossia che Bertone, considerando il banchiere un uomo di punta del gruppo che voleva esautorarlo, lo aveva defenestrato. Questa versione era in effetti l’esatto contrario di quello che stava accadendo. Infatti Bertone stesso era stato cacciato dallo IOR assieme a Gotti Tedeschi, forse la più mal riuscita delle creature del Segretario di Stato.
Il 10 giugno 2012 la Santa Sede espresse la sua preoccupazione per le vicende di Gotti Tedeschi, la sua fiducia nei nuovi gestori dello IOR e soprattutto rammentò alla magistratura italiana la sovranità della Santa Sede, facendo propria la linea del Consiglio di Sovrintendenza.
Nel luglio dello stesso anno Moneyval riconobbe che il Vaticano si era dato un apparato di controllo soddisfacente, anche se esso andava giudicato alla prova dei fatti. Nonostante la tempesta dei Corvi – Gabriele e Sciarpelletti, arrestati a maggio – e la tumultuosa gestione Gotti Tedeschi, la politica faticosamente perseguita da Benedetto XVI era arrivata al successo. Fu per rafforzarla che nel settembre del 2012 la Santa Sede assunse René Brulehart come esperto di antiriciclaggio. Egli aveva lavorato otto anni in Liechtenstein come direttore della Financial Intelligence Unit. E fu ancora per intralciare quella politica che il 2 gennaio 2013 la Banca d’Italia bloccò le attività della Deutsche Bank Italia che, da decenni, gestiva dal nostro Paese, in deroga alle norme vigenti in esso, i servizi bancomat in Vaticano. A spingere all’intervento fu l’impossibilità di risalire ai titolari dei movimenti sul conto su cui confluivano i pagamenti, conto, secondo gli ispettori italiani, troppo pingue ed alimentato soprattutto da un solo bancomat della Città del Vaticano. Fu così che chi andava nello Stato del Papa non poteva usare il POS, mentre ovviamente chi vi risiedeva ed aveva un bancomat dello IOR poteva effettuarli. La cosa creava un danno economico agli esercizi commerciali del Vaticano – tutti statali – ed era ancora una volta la conseguenza di una violazione, almeno parziale, della sovranità del Papato. Evidentemente in Italia era molto forte il partito che voleva quasi azzerarla. Infatti, nessuna sponda Benedetto XVI aveva trovato nei Governi italiani succedutisi in questi anni cruciali, né nel IV Berlusconi né in quello Monti, che pure ostentava una così grande ortodossia monetaria e il cui capo era un qualificatissimo esponente del mondo della finanza e degli apparati dell’UE.
L’11 febbraio 2013 Benedetto XVI abdicò, con decorrenza dal 28 del mese, e vi fu chi vide in questo la conseguenza del blocco dei bancomat, quasi che la Santa Sede fosse stata privata delle possibilità di compiere transazioni all’estero essa stessa. In realtà già il giorno dopo, con una notevole astuzia che salvaguardò ancora una volta la minacciata sovranità del Vaticano dall’invadenza italica, il servizio di bancomat interno fu appaltato ad una società svizzera, la Aduno Sa, che non era tenuta a seguire alcuna legge promulgata al di qua del Tevere. Il 15 febbraio venne infine eletto il nuovo Presidente dello IOR, Ernst von Freyberg.
Alla fine dell’esposizione dei fatti, si impongono alcune considerazioni e riflessioni. La prima verte sulla natura del vatileaks finanziario, profondamente diverso da quello “pettegolo” di Viganò e Gabriele. In questo la fuga di notizie fu centellinata e funzionale ad un disegno politico-economico che avrebbe potuto dispiegarsi anche senza quel supporto. Fu senz’altro molto più insidioso. La seconda è sul suo scopo: non si trattava di denigrare Ratzinger in quanto tale, ma di erodere e di fatto sopprimere la sovranità finanziaria e quindi temporale del Papato, o in alternativa di fargli perdere prestigio, abbandonando la politica di trasparenza iniziata sin da Giovanni Paolo II, dopo il crack dell’Ambrosiano. La terza è sulle forze che visibilmente cooperarono alla manovra antipapale, ossia, dal basso verso l’alto, la magistratura italiana – specie la romana, sempre sotto l’influenza della politica – la Banca d’Italia, il Governo italiano, l’UE e, sullo sfondo, il FMI, che fu sempre correttissimo formalmente ma che non poteva non avvedersi di quanto altri organismi finanziari andavano facendo contro la Santa Sede sulla via di Moneyval. Ognuno di questi poteri, consapevolmente o meno, fu portato per mano da quello di rango superiore. Sconcerta che, di fatto e (si spera) inconsapevolmente, Gotti Tedeschi abbia favorito, con le sue azioni avventate, questi poteri già così pervasivi. La quarta considerazione riguarda la reazione del mondo vaticano al vatileaks finanziario e ai presunti scandali connessi: esso fu tutto compatto nel respingere l’attentato alla sovranità della Santa Sede, mettendo in questo da parte le lotte fratricide che erano in corso in altri ambiti. Il più incerto, perché inesperto, fu proprio il Cardinal Bertone sul quale, quindi, fu comodo, a scopo denigratorio e forse non senza l’aiuto di qualche fazione vaticana, cucire addosso l’abito di colui che, resistendo alle riforme dopo averle volute, aveva innescato il cortocircuito. Ma questo ritratto, specularmente a quello di Gotti Tedeschi senza macchia né paura, è falso e di comodo, anche se sostenuto, all’epoca, da giornalisti importanti e dalla grancassa mediatica. La quinta considerazione richiama il ruolo dei media e riguarda l’intersezione del vatileaks finanziario con quello amministrativo e “familiare”. I due filoni si mescolano nei terminali d’azione (i corvi, Nuzzi, La7, certa stampa) e quindi anche supportandosi per i reciproci scopi. La lotta alla pedofilia venne ostacolata – come ho dimostrato da queste pagine – esattamente come la trasparenza finanziaria e quindi si creò, nei fatti, una convergenza di interesse. Ne deriva una prima riflessione, ossia che se si potesse sapere se tale convergenza fu orchestrata da un potere più alto e, se sì, quale, avremmo la chiave per interpretare tutto l’attacco concentrico portato contro il Vaticano tra il 2010 e il 2012. Una cosa è certa, se quel potere esistette, doveva essere per forza quello globale del mondialismo USA.
L’ultima riflessione riguarda Joseph Ratzinger. Il suo coraggio, la sua tenacia e la sua costanza, anche in mezzo alle difficoltà, portarono a compimento la sua politica di riforma, sia dei costumi del clero che dell’amministrazione finanziaria. Non è vero, come sembrava nel bel mezzo della cagnara mediatica del 2012, che egli non concludeva nulla. Aveva concluso e pure molto. Proprio per non far vedere i risultati i suoi avversari facevano clamore. Per cui, quando egli, concretizzando una aspirazione che covava da anni, abdicò alla tiara, non lasciò la Chiesa nel bisogno, ma anzi con dei fondamentali più solidi di quelli che aveva trovato.
© Gianvito Sibilio, 2022
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