DAL CRACK SINDONA ALL’ATTENTATO A WOJTYLA, CON LA P2 AL SERVIZIO DI MOSCA
Con la sua caduta, il Vaticano, socio in affari di Sindona perse prestigio. E infatti, a suggello di questo, va detto che la Sezione A del KGB, caduta la Franklin e la Privata Finanziaria, ricevette l’ordine di lanciare una campagna denigratoria della Santa Sede, presentata a torto come la sponsor di Sindona, che invece era cresciuto all’ombra degli inglesi e affondato a quella della P2 del bifronte Gelli.
Il 17 marzo del 1981 i finanzieri inviati da Gherardo Colombo e da Giuliano Turone perquisiscono la sede della Giovane Lebole (Gio.Le.) di Castiglion Fibocchi, appartenente a Licio Gelli, e trovano, con grande facilità, una lista ordinata di 962 nomi di iscritti alla Loggia Massonica di Propaganda Due. Vi sono arrivati perché stanno indagando sull’omicidio di Giorgio Ambrosoli. Nelle carte di Michele Sindona, oltre alle prove dei suoi contatti con Licio Gelli e la sua Loggia – coperta, ma non segreta, tanto che tutti ne conoscevano l’esistenza e lo stesso Maestro Venerabile poteva rilasciare una celebre intervista al suo sodale Maurizio Costanzo sulle colonne del Corriere della Sera – vi era anche quell’indirizzo presso cui vennero rinvenute le liste degli iniziati ad aurem.
Dal carcere americano dove era rinchiuso, Sindona aveva forse qualche motivo di soddisfazione. Per due volte, dinanzi all’inerzia di Licio Gelli nei suoi confronti, aveva tentato di fare arrivare agli organi competenti informazioni relativi ai suoi fratelli di Loggia. Un primo tentativo si era arenato perché i documenti erano finiti nelle mani di magistrati piduisti. Per sensibilizzarlo alla sua causa, Sindona aveva offerto a Gelli persino la sua lista dei Cinquecento, senza successo. Durante il suo finto sequestro, Sindona aveva chiesto, a nome dei suoi fantomatici rapitori, che il suo avvocato mettesse a loro disposizione la lista dei Cinquecento e la documentazione dei finanziamenti illegali ai partiti politici e delle operazioni finanziarie clandestine fatte dal banchiere per conto terzi. Alla fine Gelli cercò di aiutare Sindona tramite Philip Guarino, lo stesso politico della destra repubblicana che lo inviterà all’insediamento di Ronald Reagan, avvenuta nel 1981. Ma la cosa non ebbe particolare successo e fu probabilmente una mera operazione di facciata, boicottata dallo stesso Maestro Venerabile. Ora, con la scoperta delle liste della P2, Sindona sapeva di non essere più il solo in mezzo ai guai.
La stessa soddisfazione non dovettero provarla i sodali della Loggia e le istituzioni della Repubblica Italiana. Le liste furono spedite dagli inquirenti al presidente del Consiglio Arnaldo Forlani prima ancora di essere rese note, e questi, letti i nomi, preferì dimettersi. I vertici dei servizi segreti e delle forze armate furono decapitati. Di lì a poco, il 13 maggio del 1981, avvenne l’attentato a Giovanni Paolo II. I servizi italiani, neutralizzati, non poterono in nessun modo allertare la Santa Sede del pericolo imminente. Acutamente, Achille Silvestrini, Segretario agli Affari Pubblici della Chiesa, e Paul Kasimir Marcinkus, Presidente dello IOR, annotarono che l’attacco al Vaticano non sarebbe potuto avvenire senza lo Scandalo P2. Non si può ritenere casuale la connessione tra il ritrovamento delle liste della P2 e l’attentato al Papa, che fu una operazione di intelligence del KGB, tramite la STASI e il DS bulgaro, che a loro volta si servirono dei Lupi Grigi per la mediazione della mafia turca.
Ulteriori elementi in tal senso si evincono con facilità. Gelli era agente doppio del KGB sin dal 1943 e il controspionaggio italiano lo sapeva dal 1951. Le relazioni tra Gelli e il KGB sono ampiamente documentate dal dossier numero 876349/07, che fu pubblicato nel 1994 sul quotidiano azero Zarkalo, in un numero ad oggi irraggiungibile, che doveva convincere Boris Eltsin che il presidente Aliev era capace di ricattare la Russia. Era stato Gelli ad informare il generale Vitaly Pavlov, capo della divisione del KGB a Varsavia, dell’arrivo del finanziamento illegale di Roberto Calvi, suo adepto di Loggia, al sindacato libero di Solidarnosc. L’intera carriera di Gelli si era svolta all’ombra del servizio sovietico, per ordine del quale egli si era avvicinato all’OSS, poi diventato CIA. Gelli era sempre a disposizione dei suoi amici d’Oltrecortina e il suo oltranzismo atlantico era una copertura, agli occhi dei suoi stessi sodali, della sua funzione di guardiano dell’ordine di Yalta e, quindi, di garante anche degli interessi sovietici in Italia, paese assegnato all’influenza americana ma con un fortissimo partito comunista.
Gelli sapeva che si stava indagando su Sindona, si rendeva conto che la sua frequentazione della P2 sarebbe stata passata a setaccio, sapeva quali nomi importanti potevano uscire allo scoperto, conosceva anche le manovre ricattatorie di Sindona stesso, ma non fece nulla per occultare le liste della Loggia, che vennero rinvenute con facilità. Anzi, sebbene gli iscritti alla P2 fossero 1720, divisi in 17 sezioni sparse tra l’Europa e le Americhe, egli censurò le liste, mettendo sotto il naso dei magistrati solo una parte dei suoi sodali. Operazione che dimostra come il Venerabile Maestro sacrificò deliberatamente determinate persone, tutte in Italia e tutte molto importanti. La grande cagnara della stampa, infiltrata dagli agenti sovietici e fautrice delle toghe rosse, fece il resto e la P2 divenne lo scandalo degli scandali, quello di cui molti avevano avuto sentore. La Lettre de Information di Pierre e Daniele de Villemarest, infatti, per i suoi selezionatissimi destinatari, poco prima della scoperta delle liste della P2, aveva avvertito dell’imminenza di uno scandalo che avrebbe squassato l’Occidente intero. Come si vede, Gelli avrebbe potuto mettere in sicurezza la sua creatura, forse lo promise anche ai suoi sodali, ma non lo fece. Saldò così il suo debito con Mosca, anche se a caro prezzo. Al termine di una lunga traversia giudiziaria, sarebbe rientrato nei suoi possedimenti e morto indisturbato a casa propria, con un potere nascosto e ancora intatto. Nelle sue ultime interviste dichiarò esplicitamente quello che anche la Commissione Anselmi aveva detto, ossia che le liste intere della P2 erano all’estero, in Uruguay, e che egli stesso aveva provveduto a distruggerle.
La domanda che sorge spontanea è a questo punto la seguente: se lo scandalo P2 venne orchestrato da Oltrecortina, se il KGB portò per mano Colombo e Turone senza che se ne accorgessero, perché gli preparassero il terreno per attentare alla vita del Papa e destabilizzare l’Occidente, la cosa come si concretizzò? I due giudici stavano indagando sulla morte di Giorgio Ambrosoli e sul suo mandante, Michele Sindona. L’assassinio di Ambrosoli era stato commesso l’11 luglio del 1979. Da allora, il percorso d’indagine non si era mai interrotto. A quella data, i sovietici già stavano preparando l’opzione terroristica contro Giovanni Paolo II, eletto il 16 ottobre del 1978. Non convince che essi colsero l’occasione solo fortuita della morte di Ambrosoli per inserirsi nell’inchiesta su Sindona e condurla fino a Gelli, ma appare più logico che aprissero loro stessi questa macabra strada. Tanto più che Gelli, come abbiamo visto, apparentemente contro i suoi stessi interessi, fece molto poco per il suo banchiere, evidentemente per compiacere qualcuno. Sia Tina Anselmi che Gherardo Colombo hanno parlato di una piramide rovesciata sovrastante quella della P2, per rendere l’idea del potere che sovrastava Gelli, il quale era solo il vertice della piramide inferiore. Ebbene, in tali circostanze, la presenza di questa piramide occulta è abbastanza evidente: essa induce Gelli a comportarsi molto diversamente da come la base piduista si aspettava che facesse.
Nel 1979 Sindona inscenò il suo rapimento per mano della mafia, per recarsi a Palermo per chiedere aiuto a Bernardo Provenzano, dove, auspice Licio Gelli, concluse un accordo: se fosse stato arrestato, avrebbe avuto la libertà provvisoria o sarebbe stato aiutato ad evadere, così da rifarsi una vita finanziaria. Ma così non andò. Sindona sarebbe morto in circostanze misteriose, ma solo nel 1986, quando l’Operazione Papa, concepita da Yurj Andropov contro Giovanni Paolo II, sarebbe oramai terminata. Strano che Sindona sia stato lasciato in vita fino ad allora. Sempre nel 1979 Robert Boulin era stato suicidato a Rambouillet, per evitare di svelare i segreti della Loggia P2 in Francia, a partire dalla sua base operativa di Monaco, dove pure Gelli si sarebbe rifugiato in latitanza. Come mai Sindona fu lasciato vivo, visto che avrebbe condotto dritto dritto alle liste piduiste? Doveva forse, suo malgrado, realizzare un piano altrui.
Aveva Sindona davvero ordinato l’omicidio di Ambrosoli, come pure aveva minacciato in conversazioni private con Enrico Cuccia? E ne aveva davvero l’interesse, visto che la liquidazione della sua Banca Privata era avvenuta, che quel delitto sarebbe stato attribuito a lui aggravando la sua posizione giudiziaria, e che in ragione di ciò sarebbe stato estradato dagli USA in Italia? Non era strano che, nel corso delle telefonate minatorie che prelusero all’omicidio di Ambrosoli, il mafioso Giacomo Vitale minacciasse l’Avvocato esplicitamente a nome di Sindona e Andreotti, sebbene le conversazioni fossero registrate, compromettendoli in modo inusitato? Era stato l’ex narcotrafficante Henry Hill, ora collaboratore dell’FBI, ad accusare Sindona di essere il mandante dell’omicidio Ambrosoli, in quanto egli stesso aveva venduto al killer, William Joseph Aricò, la pistola con cui avrebbe sparato all’Avvocato milanese. Nell’intervista resa al giornalista Nick Tosches, in quella concessa ad Enzo Biagi e nel corso dei vari processi, Sindona negò sempre di essere il mandante dell’omicidio, asserendo che esso, avvenuto al termine degli accertamenti, sarebbe stato per lui inutile e controproducente, mentre avrebbe tratto vantaggio da una disamina critica della deposizione di Ambrosoli e dei suoi accertamenti. Il banchiere additò nel suo collaboratore infedele Carlo Bordoni il vero mandante dell’omicidio, commesso per coprire le sue responsabilità nello storno di fondi sindoniani verso suoi conti dell’UBS e per ragioni di odio verso il suo vecchio superiore. L’avvocato di Sindona, Robert Costello, ottenne poi da George Gregory Korkola, detenuto del Green Haven Correctional Facility di Stormville a New York, una dichiarazione in cui attestava di aver saputo da Aricò stesso di essere stato l’assassino di Ambrosoli, ma che Sindona non c’entrava nulla, anche se – a suo avviso – quell’omicidio gli aveva fatto piacere. Lo stesso Aricò ammise la sua responsabilità e quella di Sindona dinanzi agli inquirenti americani il 16 luglio 1982 – con atti che furono poi utilizzati anche in Italia – ma poi fece sapere a Costello, tramite il proprio legale, di essere stato indotto a tali testimonianze. In un interrogatorio fattogli da Costello alla presenza del suo legale, nel giugno del 1983, Aricò dichiarò che Sindona non c’entrava nulla con il delitto Ambrosoli.
Il 19 febbraio 1984, Aricò morì in circostanze poco chiare mentre attendeva l’estradizione in Italia per il processo Ambrosoli: precipitò mentre tentava di calarsi con alcune lenzuola annodate da una finestra del Metropolitan Correctional Center di Manhattan, dove si trovava detenuto.
In quanto a Sindona, condannato negli USA nel 1980, estradato per l’omicidio Ambrosoli nel 1984, condannato all’ergastolo per questo crimine il 18 marzo del 1986, il 20 dello stesso mese ingerì un caffè al cianuro alle 8,30 del mattino. Andato in coma, morì il 22 marzo.
Questi delitti sono a mio avviso parlanti. La morte di Ambrosoli, che Sindona aveva tutto l’interesse di ordinare prima che il suo rapporto liquidatorio fosse redatto, avvenne in un momento in cui fu del tutto inutile e dannoso. Servì altresì ad avviare quel meccanismo che, come abbiamo visto, condusse allo scandalo P2 in vista dell’attentato a Wojtyła. Aricò, indotto verosimilmente ad evadere per evitare di dover rendere testimonianza a favore di Sindona e contro Hill e l’FBI, venne ucciso nel corso della fuga per chiudergli la bocca definitivamente. La morte di Sindona fu il risultato dell’accordo tra lui, Gelli e Provenzano. Il bancarottiere si fece recapitare una dose di cianuro che non credeva fosse letale, in quanto doveva permettergli di far credere di essere in pericolo di vita e fargli avere il trasferimento in un carcere meno duro. Chi glielo inoltrò, permettendogli di prepararsi il caffè letale, lo ingannò e ne causò la morte, prima che il processo d’appello potesse permettergli di argomentare a suo favore sia per la gestione bancaria che per l’omicidio di Ambrosoli. Naturalmente, morendo, Sindona si portò nella tomba altri segreti. Ma il suo decesso mise una pietra tombale anche sul percorso misterioso che aveva portato allo scandalo P2 e aveva reso permesso l’attentato a Giovanni Paolo II. Certo, determinare mandanti ed esecutori è difficile: ad un certo punto l’interesse del KGB coincideva con quelli della CIA, del SISDE, del SISMI, dell’alta finanza mondialista americana e di quella laica italiana, persino degli ex protettori e sodali di Sindona, ma nessuno di costoro aveva necessità di inchiodare Sindona ad un omicidio come quello di Ambrosoli, avvenuto quando la sua nobile e coraggiosa missione era terminata. Si trattò in effetti di tre delitti che si inquadrano soltanto nell’ambito della guerra fredda. Una guerra fredda che Sindona combatté in chiave anticomunista, con mezzi scorretti e spregiudicati, ma che non erano solo i suoi, e non solo della parte politica con cui si identificava.
II
Il ruolo dei servizi segreti inglesi nell’ascesa di Sindona e le modalità sconvolgenti dei fallimenti delle sue banche dimostrano che egli fu un finanziere che fece politica e che ad un certo punto perse la sua battaglia e venne sacrificato.
Per quanto concerne il rapporto con i servizi inglesi, nel 1943 Michele Sindona conobbe, durante l’occupazione alleata della Sicilia, John McCaffery e Jocelyn Hambro, due agenti britannici, che rimarranno suoi punti di riferimento per gli anni a seguire e con i quali le relazioni sindoniane sono molto più documentate di quelle, vere e presunte, con Cosa Nostra. McCaffery, coordinatore delle forze partigiane non comuniste, lo mise in contatto con Franco Marinotti, padrone della SNIA Viscosa, che a sua volta permise una rapida ascesa di Sindona nel mondo finanziario. Fu Marinotti a presentare Sindona a Ernesto Moizzi, proprietario della Banca Privata Finanziaria. Fu con Marinotti che Sindona acquistò questa banca e fu grazie a Marinotti e Moizzi che egli acquisirà la fama di fiscalista d’assalto. Quando Sindona, nel 1960, acquistò dallo IOR il pacchetto di maggioranza della Privata Finanziaria, a cui lo aveva fatto vendere da Moizzi, portò nel CdA anche la Hambros Bank di Jocelyn Hambro e la Continental Illinois National Bank, presieduta da David Kennedy, già vice segretario al Tesoro degli USA, presentatogli da Anthony Porco, poi accusato di essere complice di Sindona in un traffico di stupefacenti, di cui però non si trovò alcuna prova. Ancora, nel 1961, Sindona acquistò la Continental Illinois National Bank assieme alla Banca Hambros, mentre si impossessò della Banca di Messina e della Banque de Financement di Ginevra e si fece cedere dallo IOR la quota di controllo della Finabank della stessa Ginevra. Fu ancora con la Hambros che Sindona rilevò le società che il Vaticano voleva vendere: la Società Generale Immobiliare, le Ceramiche Pozzi e la Società Condotte d’Acqua. In questa veste di finanziere vorace e onnipresente, le frequentazioni politiche di Sindona si moltiplicarono ed egli entrò in contatto con importanti lobby del Partito Repubblicano USA, compreso il gruppo di John McCone, capo della CIA e impegnatissimo ad ostacolare l’ascesa del Centrosinistra in Italia. Nel 1963 Sindona conobbe anche Richard Nixon al quale, durante la Presidenza, fu molto vicino. Negli anni sessanta Sindona si avvicinò all’Opus Dei, ancora tramite John McCaffery, e riuscì a fondare, con uomini d’affari legati all’Opera, la Union Industrial Bancaria a Barcellona, di cui la Privata Finanziaria fu socia e nel cui CdA fece poi entrare anche la Continental Illinois Bank. Sempre negli anni sessanta nacque la consolidata inimicizia tra Sindona ed Enrico Cuccia: sebbene concittadini e confratelli massoni nella Loggia CAMEA, essi rappresentavano due diverse politiche finanziarie: la prima cattolica e anticomunista, l’altra laica e riformista. Anche i punti di riferimento politici dei due erano diversi: Sindona guardava ad Andreotti, Piccoli e Fanfani; Cuccia a Colombo, Rumor e La Malfa. Nel 1967 la scalata sindoniana alla società finanziaria La Centrale avvenne con potenti alleati italiani – Orlando Bonomi Pirelli Agnelli – e ancora una volta stranieri – Banca Lombard, Banca d’America e d’Italia. Nel 1971 Paul Marcinkus si insediò al vertice dello IOR con l’appoggio di David Kennedy, divenuto Segretario al Tesoro di Nixon. Il Vaticano veniva arruolato nello schieramento finanziario atlantista, nonostante la Ostpolitik di Paolo VI. Nello stesso anno, in società con Mark Antonucci, amico di David Kennedy, Sindona acquistò il Rome Daily American, giornale legato alla CIA. Ancora nel 1971, insieme alla Hambros, Sindona tentó l’assalto alla Bastogi, il sancta sanctorum della finanza italiana, per fonderla con la Centrale. Simultaneamente, scaló l’Italcementi e tentó di acquisire la Banca Nazionale dell’Agricoltura. Un grande rassemblement politico finanziario, formato dalla finanza inglese, dal Vaticano e dalla corrente andreottiana, cercó di sovvertire l’oligarchia capitalistica italiana dominata da Enrico Cuccia, per seppellire per sempre l’opzione politica del Centrosinistra. L’operazione fallí, per l’opposizione politica degli Agnelli e della sinistra della finanza globalista, e da quel momento la Hambros non ebbe più rapporti con Sindona, che nel frattempo, sempre dal 1971, si era avvicinato alla P2, la quale aveva preso il posto della CAMEA come loggia egemone in Italia. Questi due eventi, la rottura con i britannici e l’avvicinamento alla roccaforte massonica dell’atlantismo, erosa dall’interno dal suo stesso Maestro Venerabile, non a caso prelusero alla fase repentina della discesa di Sindona.
Tutto questo dimostra che Michele Sindona svolse una carriera finanziaria sotto l’egida dei poteri forti dell’Occidente, ostili al comunismo. Mi sembra logico dedurre che, se l’ascesa avvenne sotto le insegne anglosassoni, vaticane e massoniche, la caduta possa esser stata segnata dall’ombra della Lubjanka. Questo perché Sindona assestò parecchi colpi all’URSS nelle battaglie politiche ed economiche della guerra fredda: sostenne Nixon e Andreotti, finanziò le destre eversive, sostenne forse Franco e i Colonnelli greci, fu amico di Chang Kai Shek ma, soprattutto, nel 1971, tentò di arginare, senza successo, una enorme speculazione sul dollaro fatta dalla Banca Centrale d’Ungheria per conto dell’URSS, e nel 1972 salvò la lira da una speculazione analoga.
Per quanto concerne il fallimento delle banche sindoniane, vale la pena di leggere la versione del bancarottiere. Il primo crack fu quello americano. Nel gennaio 1972 la Kuhn Loeb & Co. Informò Sindona del fatto che Laurence Tisch della Loews Corporation, che possedeva una quota importante della Franklin New York Corporation, casa madre della Franklin National Bank di Long Island, voleva vendere il suo pacchetto azionario. Fu così che la FASCO International Holding SA del Lussemburgo, a sua volta controllata interamente dalla FASCO A.G. del Liechtenstein, cuore dell’impero sindoniano, acquistò quella quota ed entrò nel CdA della Franklin New York Corporation. L’obiettivo di Sindona e del suo alter ego Carlo Bordoni era fare della Franklin Bank una grande banca internazionale. Essa era già la ventesima banca statunitense e, nonostante molte perdite creditizie, rimaneva una istituzione sana. Nel maggio del 1972 fu tuttavia istituito il Mercato Monetario Internazionale, divisione della Borsa Mercantile di Chicago, che cominciò a negoziare affari in valuta estera, inondando il mondo finanziario, e gettò le basi della rovina di Sindona. Carlo Bordoni, senza informarlo, strinse rapporti con la National Westminster Bank di Londra, per operazioni in valuta di quattro miliardi di dollari. Una cifra che Sindona non avrebbe mai autorizzato, sapendo che la National Westminster Bank non era in grado di sostenerne il rischio. Sindona pensò che si trattava di un affare mascherato per la Banca d’Inghilterra, d’intesa con altre Banche centrali. Bordoni gli parlò invece di affari non contabilizzati dalla Westminster e Sindona rifiutò di risarcire le perdite della banca partner. L’impennata del dollaro salvò la Westminster e anche Sindona. L’11 gennaio del 1973 Bordoni aprì un conto segreto presso la Union des Banques Suisses di Chiasso, il numero 634612, sul quale, entro l’anno, spostò clandestinamente 8 milioni e 440 mila dollari del patrimonio sindoniano. Un secondo conto segreto, il numero 636503, nel 1974, fu rimpinguato da ulteriori transazioni segrete. Bordoni aveva cominciato ad erodere la ricchezza del capo, non essendo riuscito a farlo con l’affare della Westminster. Si può immaginare che lo facesse per conto di terzi molto importanti, essendo Sindona una persona di peso con amicizie di gran rilievo. Nello stesso anno numerose operazioni in valuta non contabilizzate portarono alle perdite della Franklin, favorite dalle faide interne tra i grandi manager della banca: Schreiber, Gleason, Luftig, Schaddick. Erano perdite per altri quattro milioni di dollari, più altre non quantificabili per operazioni criptate. Emersero alla fine perdite non contabilizzate di trenta milioni di dollari. Si può immaginare che i controlli interni saltassero per favorire avversari senza volto, ma non che Sindona distruggesse da solo il suo impero. La recessione mondiale fece il resto e la Franklin si espose con la Federal Reserve Bank per centinaia di milioni di dollari, ad un tasso di interesse a due cifre e in continua crescita. A quel punto la finanza di Wall Street decise di sbarazzarsi di Sindona. Tra il 12 e il 13 maggio la Federal Reserve autorizzò una ricapitalizzazione di 50 milioni di dollari tramite la FASCO, ma Sindona doveva nominare un fiduciario con diritto di voto sulle azioni alla Franklin. Sindona oppose resistenza alla nomina di Schreiber, il cui ruolo di boicottaggio ora appariva chiaro, e pretese di scegliere Kennedy. Ma le notizie sulla stampa spinsero i correntisti a ritirarsi dalla Franklin, a partire dal 14 maggio. Alcuni alti funzionari della banca, che le avevano alimentate, furono licenziati. Il 15 l’eco delle perdite della Franklin giunse in Italia sulla stampa locale. I correntisti della Privata Italiana e della Banca Unione si ritirarono in massa e le azioni della Società Generale Immobiliare precipitarono. Sindona dovette informare la Banca d’Italia della crisi di liquidità dei suoi istituti. Nel frattempo l’emorragia finanziaria della Franklin continuava e si estese, per la paura dei correntisti, anche alla Finabank. Fu allora che Sindona, ottenuto un prestito di 100 milioni dal Banco di Roma, realizzò la fusione tra la Banca Privata e la Banca Unione, nella Banca Privata Italiana, il 5 agosto del 1974. Nel frattempo la Securities and Exchange Commission scoprì che parecchie transazioni di cambio estero della Franklin con la Amincor in Svizzera avevano i tassi di cambio gonfiati per favorire la prima. La Banca d’Italia propose a Sindona il salvataggio della Privata Italiana, purchè essa fosse acquistata dal Banco di Roma. Questo però non poté muoversi per il veto dell’IRI e di Enrico Cuccia. COMIT, CREDIT e Banco di Roma si spartirono le spoglie dell’impero sindoniano. La Banca d’Italia aprì un procedimento contro Sindona per le infrazioni commesse nella redazione dei libri contabili della Privata Italiana, infrazioni di per sé molto comuni nel mondo della finanza per l’esistenza della doppia contabilità riservata. Il CREDIT si ritirò allora dalla cordata rilevatrice della Privata e questa venne messa in liquidazione coatta per decreto di Emilio Colombo, ministro del Tesoro, nel settembre del 1974. Alla fine di quel mese, Carlo Bordoni scomparve dalla circolazione. Il 3 ottobre la Federal Reserve respinse qualsiasi progetto di salvataggio della Franklin, che l’8 del mese fu dichiarata insolvente e affidata alla curatela fallimentare della FDIC, che la vendette a 125 milioni di dollari alla European American Bank and Trust Company. Dopo qualche giorno, Sindona venne dichiarato in bancarotta dal Tribunale di Milano, che confiscò e liquidò i suoi beni. Nel frattempo Carlo Bordoni aprì la Inversiones Marfal in Venezuela, dove si era rifugiato. Il 7 gennaio 1975 la Finabank chiuse per ordine delle autorità elvetiche. In seguito Bordoni divenne collaborante dell’FBI contro Sindona, cambiando identita’ ma mantenendo il suo patrimonio.
Si impongono alcune considerazioni: se la versione sindoniana dei fatti scarica allegramente su amici e nemici tutte le responsabilità, appare evidente che è impossibile che tutte le sue banche fossero in una crisi di liquidità causata da lui stesso, mediante sottrazioni di fondi e affari spregiudicati che, in ultima analisi, non potevano che causare la catastrofe, come poi accadde. Forse Sindona si ingannò sul reale potere di Nixon e della P2, nei quali cercò sostegno per il suo erigendo impero politico finanziario. Ma, se egli fu davvero il banchiere della mafia, della destra anticomunista, dell’Opus Dei e del Vaticano, come mai ebbe quella crisi tanto drammatica di liquidità? L’ammanco improvviso e profondo di fondi appare causato da una forza terza. Sindona l’identificò con l’alta finanza mondialista, alleata dei Democratici americani, desiderosi di ammorbidire l’anticomunismo di Nixon, e con i suoi mandatari del partito trasversale italiano, imperniato su Cuccia, la Sinistra DC, il PRI e il PCI. Ma questa accusa non sembra convincente. La finanza americana venne essa stessa minacciata dalla crisi del dollaro, una crisi che, come abbiamo visto, fu favorita dalle speculazioni sovietiche. Non avrebbe avuto motivo di affondare la Franklin, a rischio di tirarle dietro tutte le altre banche americane. In Italia, poi, gli avversari di Sindona non riuscirono a fermare la sua fusione per la nascita della Privata Finanziaria, salvo disarcionarlo solo dopo il crack incipiente in USA.
Chi rimane allora come soggetto terzo che entra nel circuito finanziario dell’impero sindoniano e ne disarticola i nessi, facendo perdere ingenti capitali, anche grazie a impiegati infedeli e a soci inaffidabili, ma soprattutto ben conoscendo i segreti dello spregiudicato banchiere? I suoi nemici di sempre, ossia i sovietici. Con la sua caduta, la posizione della Sinistra in Italia e in USA si rafforzò, e con essa la loro attitudine dialogante con Mosca. Con la sua caduta, la crisi monetaria dell’Occidente si estese. Con la sua caduta, il Vaticano, socio in affari di Sindona perse prestigio. E infatti, a suggello di questo, va detto che la Sezione A del KGB, caduta la Franklin e la Privata Finanziaria, ricevette l’ordine di lanciare una campagna denigratoria della Santa Sede, presentata a torto come la sponsor di Sindona, che invece era cresciuto all’ombra degli inglesi e affondato a quella della P2 del bifronte Gelli. Come capiterà a Roberto Calvi.
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