Dalla rottura dell’arco costituzionale alle elezioni del 18 aprile 1948
Dopo l’estromissione di socialisti e comunisti dal governo e la rottura dell’alleanza dei partiti espressione dei governi di unità antifascista nati durante la Resistenza, alla fine del 1947, l’Italia entrava definitivamente nell’alleanza atlantica guidata dagli Stati Uniti.
Il 1947 fu contrassegnato, nella storia d’Italia, dal deterioramento dei rapporti tra le forze politiche che si riconoscevano nel fronte antifascista. Le premesse si fanno risalire alla fine di novembre del 1946, allorché il responsabile degli affari italiani presso il Dipartimento di Stato, Walter Dowling, comunicò all’ambasciata americana a Roma di rivolgere l’invito a De Gasperi di recarsi negli Stati Uniti. Il pretesto era rappresentato da una manifestazione, di sapore tipicamente messianico, com’era del resto nelle trovate fumose ed idealistiche dell’America di quegli anni, denominata enfaticamente Consiglio per gli Affari del Mondo.
De Gasperi, in realtà, era ben consapevole che non si sarebbe trattata soltanto di una semplice manifestazione accademica, e perciò aveva i piedi ben piantati per terra, sapendo di avere dietro di sé un paese legittimamente preoccupato per le proprie sorti. In effetti, più che di discorsi l’Italia aveva bisogno di grano… e di dollari. Grano per i quarantacinque milioni di abitanti che versavano in condizioni deplorevoli, dollari per l’apparato industriale da rimettere in sesto e per un’economia depressa e iugulata dalla crisi determinata dagli sforzi bellici. Per questi motivi il primo ministro italiano sapeva fin troppo bene che qualora si fosse recato in America, l’avrebbe fatto per battere cassa e chiedere urgenti aiuti economici al fine di rivitalizzare il tessuto economico del paese.
In effetti, i documenti di Myron Taylor confermavano le posizioni che stavano emergendo nel Dipartimento di Stato, al punto che, subito dopo le elezioni per la Costituente, scrivendo al Presidente Truman, affermava:
«personalmente sceglierei l’ex ministro Orlando come presidente, con un attivo vice presidente come l’ex primo ministro Bonomi, e De Gasperi come ministro degli esteri (…), forse i rappresentanti eletti dei diversi partiti non permetteranno che un gruppo così sperimentato guidi il loro governo».
D’altronde anche il pontefice Pio XII si trovava sulla stessa lunghezza d’onda del rappresentante statunitense in Vaticano, secondo il quale era necessaria una ferma opposizione all’avanzata del comunismo soprattutto in Italia. Pertanto, quando De Gasperi si recò in America dovette affrontare immediatamente due grossi problemi: strappare il modesto prestito Eximbank di 100 milioni di dollari e persuadere Truman e il Dipartimento di Stato ad appoggiare il suo disegno di tagliare i ponti col passato, rompendo ogni rapporto con il P.C.I appena le condizioni l’avessero reso possibile. La diffidenza degli americani verso lo Stato italiano era tale che per attuare la loro politica di aiuti alla ricostruzione preferirono il contatto diretto con gli industriali.
Nella prima metà del 1947 i prezzi fecero registrare un incremento vertiginoso del 50%, che si ripercuoteva negativamente sulle condizioni di vita dei lavoratori salariati e, più in generale, su tutti i lavoratori dipendenti. Questa disastrosa situazione economica generò i primi contrasti nel governo in merito ai divergenti punti di vista relativi alle misure urgenti da porre in essere. Da un lato erano schierati Ferrari e Sereni e dall’altro Campilli, il quale nel corso del Consiglio dei Ministri, del 21 marzo, respinse le richieste di aumenti salariali avanzate dai ferrovieri e criticò aspramente le ingenti spese effettuate per i lavori pubblici. Inoltre, realizzò una politica di chiaro stampo liberista affermando, diversamente da quanto sosteneva l’Alto Commissario per l’Alimentazione Giulio Cerreti, che occorreva abolire il prezzo politico del pane, riguardante la razione giornaliera di 230 grammi, visto e considerate le rilevanti spese all’estero per l’acquisto del grano. In definitiva, la tesi formulata dal ministro Campilli attribuiva la pressione inflazionistica al livello elevato delle spese sociali. Questa proposta fu accolta favorevolmente dalla Confindustria che, tramite Angelo Costa, il 14 aprile successivo fece pervenire a De Gasperi un memorandum in cui erano elencate le misure che, secondo gli industriali, dovevano essere prese per salvare la lira.
In esso si auspicava l’abolizione dei prezzi politici, l’eliminazione dei lavori pubblici superflui, l’abolizione delle imposte sugli utili e sui dividendi, la riduzione delle tasse sugli scambi, mantenendo inalterata la tregua salariale e subordinando gli aumenti degli stipendi all’incremento della produzione; allo stesso tempo veniva richiesta anche la piena libertà di licenziamento. La preponderante pressa di posizione degli industriali, indusse lo stesso primo ministro italiano, in un intervento tenuto il 30 aprile durante il consiglio dei ministri, ad affermare che in Italia ormai esisteva un quarto partito che decideva ed orientava le campagne della stampa indipendente e che era in grado perfino di paralizzare e di rendere vano ogni sforzo organizzando il sabotaggio del prestito e la fuga dei capitali all’estero, l’aumento dei prezzi e le campagne scandalistiche, dimostrando in modo inconfutabile il primato dell’economia sulla politica.
Così, il primo maggio di quello stesso anno, il segretario di Stato americano George Marshall, succeduto nel frattempo a Byres, chiese all’ambasciatore a Roma James C. Dunn se era auspicabile un governo senza la partecipazione dei comunisti. Quest’ultimo, fin dal marzo precedente, scrivendo al Dipartimento di Stato, si era persuaso della necessità di continuare la collaborazione governativa tra D.C., socialisti e comunisti, almeno fino alle elezioni del 1948, tuttavia il primo aprile fu costretto a fare repentinamente marcia indietro segnalando, con preoccupazione, un accenno all’azione diretta a cui aveva fatto riferimento Togliatti in un suo discorso pronunciato alla Costituente l’11 marzo. Pertanto, il 3 maggio Dunn comunicò che c’erano le condizioni per formare un governo senza la partecipazione dei comunisti, consigliando una ferma persa di posizione di Washington rispetto ad un’ipotesi di governo di estrema destra o di estrema sinistra. Ad ogni modo, appena tre giorni dopo Dunn informò che in un colloquio tenuto il giorno precedente con De Gasperi, aveva avuto la netta sensazione che quest’ultimo si era contrario ad estromettere i comunisti dal governo. Questa suo presagio, comunque, fu smentito il 12 maggio successivo, allorché il leader democristiano non avendo la forza necessaria per sciogliere il nodo gordiano del rapporto con i socialcomunisti, i quali non erano più disposti ad assecondarlo nelle sue scelte centriste, si decise a rassegnare inopinatamente le dimissioni.
Così, posto di fronte all’alternativa di ricevere gli aiuti per la ripresa economica, subordinati alla formazione di un governo senza il contributo del P.C.I. o, al massimo, con una sua effimera presenza, il 27 maggio De Gasperi cambiò radicalmente rotta, dando vita al suo quarto ministero con la partecipazione di democristiani, liberali e indipendenti.
Ad ogni modo, mentre infuriavano le dispute politico–ideologiche, nella seconda metà del 1947 si verificò l’ennesima impennata dell’inflazione, favorita anche dall’aumento dei prezzi controllati e dalle tariffe ad opera del governo. Così, a giungo aumentò il prezzo del pane di 15 lire il chilo, a settembre fu la volta di un altro genere alimentare di prima necessità il latte, il cui prezzo lievitò del 30%. In questo vortice inflazionistico, il 27 ottobre, venne modificato persino il cambio con la moneta statunitense, che fu portato da 350 a 600 lire nel giro di appena due mesi. A quel punto De Gasperi si vide costretto a correre ai ripari, prendendo drastici provvedimenti per combattere l’inflazione, che si tradussero nella restrizione del credito bancario, per bloccare le speculazioni di borsa e l’aumento delle scorte, nonché l’immissione sul mercato a basso prezzo di generi alimentari acquistati all’estero.
Intanto, nell’ambito della Chiesa cattolica si erano delineati diversi punti di vista riguardo le strategie da mettere in atto per contrastare l’offensiva comunista. All’interno della S. Sede, infatti, coesistevano due posizioni distinte che facevano capo agli autorevoli prelati Tardini e Montini. Quest’ultimo costituiva anche il principale punto di riferimento del leader democristiano De Gasperi, col quale spesso scambiava punti di vista in merito alla politica italiana. Tuttavia, Pio XII non sembrò avallare nessuna di queste due posizioni, giungendo finanche a rifiutare il suggerimento avanzato dal caudilloFrancisco Franco, di posporre le elezioni in modo da mettere, nel frattempo, fuori legge il Partito Comunista, prima che si giungesse al voto.
Ad ogni modo, l’intervento della Chiesa nella campagna elettorale si rivelò davvero massiccio, sia attraverso l’Azione Cattolica, che nei mesi precedenti aveva dato una mano rilevante alla D.C. in quanto appariva troppo debole rispetto alle forze di sinistra, e soprattutto mediante i Comitati Civici, sorti il 18 febbraio del 1948 ad opera di Luigi Gedda il quale, come precisava un dispaccio dell’ambasciata statunitense, fu ritenuto il più idoneo a «dirigere come ai tempi della campagna elettorale la guerra psicologica ed ideologica per piegare il comunismo, questa volta all’interno del mondo del lavoro». Il leader dei Comitati Civici, immediatamente, mise in atto il cosiddetto piano S[1], che prevedeva una capillare schedatura delle correnti politiche «a cui ogni lavoratore faceva riferimento, in modo da individuare quelli più trattabili». In perfetta sintonia con la linea filo–occidentale di Gedda, il 10 marzo successivo, il Pontefice Pio XII rivolse un discorso ai parroci ed ai quaresimalisti di Roma, nel quale affermò che era un diritto–dovere del clero attirare l’attenzione dei fedeli sull’eccezionale importanza delle imminenti elezioni, sottolineando che chi si asteneva dal voto avrebbe commesso un peccato grave, una colpa mortale; poiché ogni sincero cattolico doveva esprimere la sua preferenza a favore dei candidati e delle liste che offrivano «garanzie veramente sufficienti per la tutela dei diritti di Dio e delle anime, per il vero bene dei singoli, delle famiglie e della società, secondo la legge di Dio e la dottrina morale cristiana».
Tuttavia, negli ambienti ecclesiastici vi era anche chi si rendeva conto che insistendo su questa linea si rischiava di elevare steccati insormontabili tra i credenti, scavando un solco troppo profondo tra gli italiani, ragion per cui la distinzione tra errore ed errante, che sarà formulata in seguito da Giuseppe Roncalli quando ascese al soglio pontificio, cominciò a persuadere una frangia rilevante del clero e dell’intellighentia cattolica, al punto che don Mazzolari giunse a scrivere dalle colonne della rivista di DossettiCronache Sociali che «Un buon terzo di italiani non può essere lasciato ai margini della cristianità (…)».
Pertanto vi era chi, come l’arcivescovo di Reggio Calabria, mons. Lanza, auspicava la ricerca di una via di riavvicinamento e di riconciliazione per porre rimedio a questa incresciosa situazione, chiedendosi se
«Furono proprio e solo le due opposte ideologie a passare intieramente nelle coscienze degli uomini, e a determinare, con la discriminazione, l’atteggiamento? Se così fosse, dovremmo anzitutto, pur nell’ovvia e confortevole constatazione della prevalenza delle forze che intendono ispirasi ai principi cristiani, sentire profondo ed angoscioso il tormento più vivo di quello che oggi non sia, per la massa non indifferente degli otto milioni di elettori che hanno dato il loro voto e il loro appoggio al comunismo (…)».
L’ammonimento rivolto dal presule calabrese al mondo cattolico, esortava a leggere i consensi attribuiti al Fronte Popolare, anziché come un’adesione consapevole all’ideologia comunista,
«un desiderio ancor grezzo e informe, male interpretato e male espresso, di una giustizia e di un ordine sociale che certamente non (era) né nello spirito né nella programmazione di quella corrente politica, in cui malauguratamente esso (era) stato incarnato».
Ad ogni modo, la Chiesa decise di sostenere la Democrazia Cristiana, nel timore di un’affermazione dell’ideologia comunista e per difendere i valori cristiani e la libertà della nazione. Dietro queste dichiarazioni di principio si celavano anche altri propositi ben diversi, quali ad esempio l’attuazione moderata di alcune riforme sociali e la costituzione di un sistema di profitto senza responsabilità dirette, che prevedeva un’apposita tutela di interessi e privilegi. Era diffuso, infatti, il timore che l’avvento del comunismo avesse generato mutamenti talmente sconvolgenti da compromettere seriamente i valori e le abitudini tradizionali. In questa prospettiva, nell’immaginario collettivo, la Chiesa appariva l’unico baluardo a cui aggrapparsi per scongiurare questo pericolo, per cui forte del suo ruolo non esitò ad alimentare questi timori, diffondendo l’idea che la salvezza si poteva ottenere solo nell’affermazione della Democrazia Cristiana. Per questi motivi si corse subito ai ripari mettendo in atto una propaganda in grande stile, intensa e capillare, mediante i Comitati Civici o ricorrendo alle processioni e alle devozioni popolari, le sole in grado di cementare profondi vincoli di solidarietà e di collaborazione tra le diverse componenti locali del mondo cattolico.
Così, nel biennio ‘47–’48, su iniziativa di Pio XII, presero il via le missioni religioso–sociali affidate a vari predicatori, con risvolti eminentemente politici e che si concentrarono proprio nelle zone meridionali, in quanto la preoccupazione del pontefice era
«grandissima perché in questa parte d’Italia – dichiarava Mons. Montini, nel dicembre del 1947, nel corso di una riunione dei presidenti centrali di A.C.– la situazione (era) fluida e la propaganda avversaria (era) fortissima. Bisogna che il Mezzogiorno sia invaso dalla propaganda cattolica. Aiutatemi ad evangelizzare il Mezzogiorno: è l’invito del Papa all’A.C.».
Pertanto, fu organizzata una campagna propagandistica denominata emblematicamente per la salvezza del Mezzogiorno, che si avvalse anche nella provincia irpina della peregrinatio Mariae, a cui fu dato un notevole impulso per suscitare un sentimento di protezione nell’ambito delle masse cattoliche, pervase dal timore del sopravvento dell’impero del male. Il viaggio della Madonna di Montevergine tra le popolazioni irpine, infatti, prese il via ufficialmente in una rigida giornata di febbraio dal palazzo badiale di Loreto e si concluse soltanto il 4 luglio successivo, non prima di aver percorso in lungo e in largo numerosi paesi della provincia[2].
«La Peregrinatio Mariae nel mondo cristiano – scriveva il cronista benedettino – rimarrà una manifestazione (…) tanto più misteriosa nella sua finalità in quanto si sa che quando si muove la Madre è l’ultima carta che si gioca, in una partita che si delinea quasi disperata».
Il timore ossessivo della scristianizzazione delle masse rurali e la constatazione della debolezza organizzativa della D.C., indussero la gerarchia ecclesiastica a rimediare a questo inconveniente favorendo l’ingresso nelle liste democristiane di vecchi esponenti liberali ed altre personalità di destra, in modo da rendere più coeso il fronte anticomunista. Tuttavia, questa manovra decretò il de profundis delle forze conservatrici, che subirono proprio a partire da queste consultazioni elettorali una lenta ma progressiva erosione dei consensi di cui ne beneficiarono i partiti di massa.
Così, dalla tornata elettorale del 18 aprile scaturiva una D.C. meridionale bicefala, in cui agli homines novi faceva da pendant la presenza degli epigoni del vecchio mondo liberale.
In effetti, bisogna rilevare che la campagna elettorale, più che con i programmi fu combattuta con le emozioni, agitando spesso e volentieri lo spettro del comunismo, che suscitava timori ed incertezze che, in realtà, ne riassumeva in sé altri alimentati anche dagli episodi che si verificarono nei paesi dell’Est proprio a ridosso del 1948. Le attenzioni erano tutte rivolte al responso delle urne, tanto che ogni attività commerciale e industriale, ogni progetto di lavoro, ogni decisione venne letteralmente sospesa. Dovunque non si parlava d’altro che dell’imminente tornata elettorale, tanto che ogni discussione che non riguardava questo argomento veniva troncata drasticamente con la frase comune: Ci vediamo dopo le elezioni.
Gli Stati Uniti, infatti, avevano investito circa cinque miliardi di dollari per sostenere la D.C., che si faceva interprete della pregiudiziale anticomunista. Le fasi preliminari di questa importante tornata elettorale avevano fatto registrare una propaganda molto capillare, tanto che furono raggiunte persino le più minuscole contrade. I Comitati Civici pullularono un po’ dappertutto, usufruendo della preziosa collaborazione dei membri dell’Azione Cattolica, delle confraternite e di tutte le altre associazioni cattoliche. Il responso delle urne, infatti, confermò gli auspici formulati dalla gerarchia ecclesiastica, poiché la Democrazia Cristiana riportò una vittoria schiacciante – legata anche al crollo delle vecchie forze liberali e repubblicane – conseguendo il 48,51% dei suffragi a fronte di ben 12.740.042 voti che si tradussero in 305 seggi in Parlamento, rispetto ad un 30,98% che aveva raccolto la lista del Fronte Democratico Popolare al quale gli elettori attribuirono 8.136.637 equivalenti a 183 seggi.
[1] Il piano S, stava ad indicare un piano Sindacale, reso noto dallo stesso Gedda mediante una circolare riservata del 12 settembre 1948, che assicurava l’invio a tutti i Comitati Civici locali delle «schede anagrafiche» per «annotare» le tendenze politiche dei vari lavoratori ad opera delle rispettive parrocchie. Ad ogni modo, dopo alcuni mesi di lavoro, i risultati si rivelarono alquanto deludenti.
A tal proposito cfr. C. Falconi, Gedda e l’Azione Cattolica, Firenze 1958, pp. 149–150.
[2] Il comitato organizzatore della Peregrinatio Mariae era presieduto dal Vescovo di Avellino Bentivoglio e composto da D.Ambrogio Branca, superiore della Congregazione benedettina di Montevergine, D. Luigi Barbarito e dal sig. Mario Celestino che ricopriva la carica di segretario. Per tale occasione il Papa Pio XII fece pervenire anche un telegramma, mediante il suo Sostituto alla Segreteria di Stato, Mons. Montini, nel quale si leggeva: «Ecc.mo Vescovo di Avellino.
Sua Santità accompagna con voti e preghiere devote Peregrinatio Mariae et invocando largamente propizia celeste Madre invia di cuore auspicio consolante successo spirituale implorata apostolica benedizione.
Montini – Sostituto». (Corriere dell’Irpinia del 21 febbraio 1948).
Inoltre, dalle colonne del Corriere dell’Irpinia in merito a questa manifestazione si leggeva: «Rileviamo che molte insinuazioni d’ordine politico–speculativo sono state ingenerate da chi vorrebbe dalla religiosa cerimonia trarre i materiali vantaggi per le prossime battaglie elettorali. A costoro si risponde che è fuori posto e da vile sacrilegio sfruttare un avvenimento tradizionale che vuole rivestire il carattere di profonda e sentita religiosità, per delle finalità che esulano dal campo della buona fede ed entrano in quelli della più insana propaganda. Comunque, prescindendo da queste insinuazioni deprecate dalla buona massa, si è constatato, in omaggio alla verità, che la grande parte del popolo avellinese ha partecipato alla manifestazione con vero spirito di comprensione e di fede» (Ivi).
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