«Sull’alba della domenica 31 luglio 1944 — scriverà don Primo Mazzolari — fui arrestato insieme ai miei coadiutori dai militi della Brigata Pesaro di stanza in paese sotto l’accusa di favoreggiatore e finanziatore dei partigiani e degli sbandati della zona».
Fiumi d’inchiostro, infatti, sono stati scritti finora per raccontare le fasi cruciali che hanno segnato la lotta di Liberazione e la Resistenza al nazifascismo, ma soltanto da alcuni anni a questa parte la storiografia più avvertita – superando quella visione esclusivamente politico-militare della lotta di Liberazione – ha iniziato a riscoprire tutte quelle forme di Resistenza non armata, focalizzando l’attenzione sul contributo determinante fornito da tanti religiosi e religiose che, durante l’occupazione tedesca, contribuirono a scrivere una delle pagine più belle della nostra storia patria, imbracciando al posto dei fucili le armi della carità per fornire assistenza ed ospitalità a quanti erano in serio pericolo di vita, indipendentemente dalla loro fede religiosa o dal loro colore politico.
Una delle figure più rappresentative di questo periodo è proprio don Primo Mazzolari, originario di Boschetto, una piccola frazione nei pressi di Cremona, dove venne alla luce il 13 gennaio 1890, primogenito di Luigi e Grazia Bolli. La sua storia inizia a Cremona dove, per assecondare la sua vocazione sacerdotale, entrò in seminario proseguendo gli studi fino all’ordinazione che avvenne il 24 agosto 1912 nella chiesa parrocchiale di Verolanuova per mano del vescovo di Brescia mons. Giacinto Gaggia.
Subito dopo fu inviato, come vicario cooperatore, a Spinadesco – un paesino alle porte di Cremona – dopodiché fu trasferito nella parrocchia natale “S. Maria del Boschetto”, dove rimase per circa un anno, prima di essere richiamato di nuovo a Cremona, nell’autunno del 1913, perché gli era stata conferita la cattedra di lettere presso il ginnasio del seminario. Nel 1918, scoppiata la Prima guerra mondiale, per ben nove mesi, fu destinato come cappellano militare a seguire le truppe italiane inviate sul fronte francese. Appena fu congedato, evidentemente in seguito alla triste esperienza maturata durante la guerra, nell’agosto del 1920, don Mazzolari chiese espressamente al suo vescovo, mons. Giovanni Cazzani, di essere dispensato dall’insegnamento ed essere invece impiegato nel lavoro pastorale a contatto con la sua gente. Nell’ottobre successivo fu così inviato, in qualità di delegato vescovile, nella parrocchia della “Ss. Trinità” di Bozzolo, un piccolo paesino in provincia di Mantova, che però era incardinato nella diocesi di Cremona, dove rimase fino al dicembre dell’anno successivo, quando fu trasferito nel vicino paese di Cicognara.
Qui incominciò a manifestare apertamente la sua opposizione al nascente regime fascista, fin dal suo avvento al potere, non esitando a stigmatizzare le simpatie di alcuni ambienti cattolici verso il duce, giungendo a scrivere che «il paganesimo ritorna e ci fa la carezza e pochi ne sentono vergogna».
Ogni occasione era buona per sfidare il fascismo sul piano dei principi della religione e del Vangelo, al punto che, nel novembre del 1925, si rifiutò persino di cantare il Te Deum di ringraziamento per l’attentato sventato ai danni di Mussolini. Proprio per queste sue posizioni dichiaratamente ostili al regime, ben presto fu preso di mira da alcuni fanatici fascisti di Cicognara che, la notte del primo agosto 1931, ordirono un attentato ai sui danni sparando tre colpi di rivoltella verso la finestra della sua canonica che, per fortuna, non sortirono alcun effetto.
Nel luglio del 1932, don Primo fu inviato nuovamente a Bozzolo dove iniziò la sua vivace attività pubblicistica che, com’era prevedibile, subito fu censurata dalle autorità fasciste le quali, nel 1941, ritennero non conforme allo “spirito del tempo” un suo libro intitolato, emblematicamente, Tempo di credere che, tuttavia, continuò a circolare clandestinamente grazie all’abnegazione di alcuni suoi amici.
All’indomani della capitolazione di Mussolini e dell’occupazione tedesca in seguito alla proclamazione dell’armistizio, che sancì la spaccatura dell’Italia in due con la nascita a Salò della Repubblica Sociale Italiana, don Primo Mazzolari non esitò ancora una volta a schierarsi dalla parte degli oppressi e degli indifesi, aiutando i militari italiani in fuga di passaggio a Bozzolo, stringendo contatti e collaborando attivamente con la Resistenza che, considerava come un “secondo Risorgimento” perché aveva consentito al popolo italiano, per la prima volta, di prendere in mano i destini della patria.
In seguito, tra il dicembre ‘43 e il novembre ’44, insieme ad una modista-pellicciaia di Rivarolo Mantovano, la signora Margherita Beduschi Zanchi, si adoperò per trarre in salvo dalla furia nazifascista la famiglia di una sua conoscente ebrea, Susanna Roditi, che all’epoca era incinta del suo terzo figlio e viveva a Brescia dove gestiva un negozio di pellicceria insieme al marito Santo Benyacar – giunto in Italia nel 1924 dalla Turchia – ed ai loro due bambini Leone e Clara. L’audace parroco di Bozzolo riuscì, dapprima a confonderli tra un gruppo di sfollati provenienti da Montecassino e poi a procurare loro dei documenti falsi col nome di Benedetti. Leone rimase nascosto a Rivarolo presso l’abitazione di Margherita Beduschi Zanchi, mentre la piccola Clara fu accolta dalle suore di Maria Bambina di Bozzolo. La madre, viceversa, riuscì a trovare rifugio a San Martino presso le sorelle della signora Margherita e, quando nel maggio del 1944, diede alla luce il suo terzogenito presso l’ospedale di Bozzolo, per fugare ogni sospetto, don Mazzolari “consigliò di battezzarlo” col nome di Giorgio Benedetti.
Per queste sue posizioni spiccatamente antifasciste, nel febbraio del 1944, finì nell’occhio del ciclone delle autorità di P.S. cremonesi che lo convocarono dapprima in questura per alcuni accertamenti, dopodiché, verso la fine di luglio, fu addirittura tratto in arresto, con una ventina di parrocchiani e altri sette sacerdoti di vari paesi limitrofi, dal Comando tedesco di Mantova d’intesa con la Guardia nazionale repubblicana. Fu a questo punto che entrò in scena padre Enrico Zucca, un astuto frate minore milanese, che non esitò a interporre i suoi buoni uffici presso le competenti autorità tanto che, «dopo un lavoro improbo», grazie al suo provvidenziale intervento, in quella stessa giornata tutti riacquistarono la libertà. Il coraggioso frate francescano, inoltre, riuscì perfino a indurre a più miti consigli il comandante della Guardia nazionale repubblicana che era già sul punto di dare alle fiamme l’intero paese di Bozzolo.
Da quel momento in poi, fiutando il pericolo che incombeva su di lui, don Mazzolari lasciò Bozzolo e si trasferì nella bassa bresciana, a Gambara, dove – per circa quattro mesi – visse in clandestinità completamente segregato nella canonica fino alla Liberazione che, archiviò definitivamente il “bieco ventennio” restituendo all’Italia la tanto agognata libertà conculcata dal regime fascista.
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