Dopo le retate sferrate dalle SS nel novembre del 1943, riuscì a sfuggire alla Shoah trovando rifugio, insieme al fratello Vittorio ed alla madre Marcella, nel convento fiorentino delle suore Pie Operaie in via via de’ Serragli.
Dopo le retate sferrate dalle SS nel novembre del 1943, riuscì a sfuggire alla Shoah trovando rifugio, insieme al fratello Vittorio ed alla madre Marcella, nel convento fiorentino delle suore Pie Operaie in via via de’ Serragli.
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Domenica scorsa, 3 marzo, si è spento a Londra Cesare Sacerdoti; durante gli anni convulsi della seconda guerra mondiale riuscì a sfuggire alle ignobili retate dei nazifascisti grazie al provvidenziale intervento della fondatrice e Madre Generale della Congregazione delle suore Pie Operaie di San Giuseppe, Madre Maria Agnese Tribbioli che, dal 6 novembre al 27 novembre 1943, si offrì di ospitarli – insieme alla madre Marcella e al fratello Vittorio, compresi tanti altri bambini ebrei – nel seminterrato della Casa Generalizia che sorgeva al civico 113 di via de’ Serragli a Firenze. Ad aiutarli contribuirono in modo rilevante anche altre tre consorelle – suor Grazia, suor Caterina e suor Gennarina – d’accordo con il cardinale Dalla Costa ed il suo segretario mons. Giacomo Meneghello che, a repentaglio della propria vita, non esitarono a proteggere non solo loro ma anche tanti altri ebrei braccati dai nazifascisti.
Questa triste notizia ci offre, dunque, l’occasione per ricordare la pregevole opera svolta negli anni più convulsi della Seconda Guerra Mondiale da tanti religiosi e religiose della Diocesi di Firenze – come la comunità delle Pie Operaie di San Giuseppe che, su esortazione dell’Arcivescovo card. Elia Dalla Costa, si prodigarono – a repentaglio della propria vita – per trarre in salvo numerose famiglie ebree in serio pericolo di vita, affluite a Firenze per sfuggire ai loro aguzzini.
Ma andiamo con ordine, facciamo un passo indietro e vediamo chi era, in realtà, Suor Maria Agnese Tribbioli, così come viene descritta da coloro che beneficarono del suo aiuto.
Dopo aver portato a termine con successo il rastrellamento e la deportazione ad Auschwitz di 1.022 ebrei romani, il reparto specializzato del capitano Theodor Dannecker risalì rapidamente la penisola spostandosi verso il Nord per effettuare analoghe retate a sorpresa nelle principali città italiane, seguendo il medesimo cliché sperimentato nella capitale. Tuttavia, poiché dopo la razzia nel ghetto di Roma Dannecker si era ammalato, la guida dell’organizzazione passò nelle mani del suo vice Alvin Eisenkolb, il quale subito prese di mira la città di Firenze che, così, pagò il suo atroce tributo alla Shoah subendo ben due rastrellamenti, rispettivamente, il 6 e il 26 novembre 1943.
Difatti, l’11 settembre, a distanza di appena tre giorni dalla proclamazione dell’armistizio, i tedeschi occuparono manu militari il capoluogo fiorentino scatenando immediatamente, con la complicità del famigerato Reparto Servizi Speciali diretto dal maggiore Mario Carità, una feroce caccia all’uomo ai danni di tutti gli ebrei che si trovavano a Firenze, compresi i profughi appena giunti dai vari paesi limitrofi occupati dai nazisti con la speranza, destinata purtroppo a rivelarsi vana, che la loro sorte in Italia potesse essere migliore. A spianare la strada alle retate delle SS contribuì in modo rilevante anche la legislazione dichiaratamente antisemita adottata, fin dal 14 novembre 1943, dalla Repubblica Sociale Italiana con l’emanazione della Carta di Verona che al capitolo settimo considerava gli ebrei «stranieri e parte di una nazione nemica», disponendo persino l’internamento in appositi campi predisposti ad hoc dal Ministero dell’Interno. In tal modo tutti gli ebrei vennero braccati, arrestati e reclusi alle Murate, a Santa Verdiana o nei vari campi di internamento, come quello di Villa Le Selve presso Bagno a Ripoli, prima di essere deportati verso i campi di sterminio nazisti.
A quel punto, con l’incalzare delle persecuzioni antiebraiche, valutata la gravità della situazione, mons. Meneghello e il cardinale Dalla Costa si adoperarono per mettere al sicuro anche i due fratelli Sacerdoti – di 2 e 5 anni – insieme alla loro madre individuando proprio il convento delle Pie Operaie di San Giuseppe, mentre il padre – Rav il rabbino Simone Sacerdoti (Firenze, 7 ottobre 1908 – Ferrara, 29 settembre 1990). fu nascosto, dapprima all’interno del convitto ecclesiastico di via San Leonardo, e successivamente nell’abitazione di mons. Capretti. Al termine della guerra, nel 1946, assumerà l’incarico di Maskil del Collegio Rabbinico Italiano (Beth haMidrash larabbanim haitalqi) di Roma.
A spianare la strada alle retate delle SS contribuì in modo rilevante anche la legislazione dichiaratamente antisemita adottata, fin dal 14 novembre 1943, dalla Repubblica Sociale Italiana con l’emanazione della Carta di Verona che al capitolo settimo considerava gli ebrei «stranieri e parte di una nazione nemica», disponendo persino l’internamento in appositi campi predisposti ad hoc dal Ministero dell’Interno. In tal modo tutti gli ebrei vennero braccati, arrestati e reclusi alle Murate, a Santa Verdiana o nei vari campi di internamento, come quello di Villa Le Selve presso Bagno a Ripoli, prima di essere deportati verso i campi di sterminio nazisti.
A distanza di molti anni da questi tristi eventi, Cesare Sacerdoti ha raccontato – sul filo della memoria – la vicenda del salvataggio della sua famiglia grazie a quella provvidenziale rete di solidarietà allestita in tutta la diocesi dall’arcivescovo di Firenze, card. Elia Dalla Costa, coadiuvato efficacemente da tutto il clero locale, tra cui spiccava anche Madre Maria Agnese Tribbioli. Complessivamente furono settanta le parrocchie e gli istituti religiosi che, sotto l’abile regia di don Leto Casini, diedero ospitalità e rifugio a numerosi ebrei fiorentini per impedire che potessero finire nelle grinfie dei loro aguzzini, che ormai erano già sulle loro tracce, ed essere deportati negli orribili lager nazisti. Don Leto Casini, infatti, aveva allacciato stretti contatti con la DELASEM, l’organizzazione di soccorso ebraica che ormai era entrata in clandestinità perché ritenuta illegale, e di comune accordo cercavano trovare rifugi sicuri per gli ebrei, aiutandoli persino a varcare il confine svizzero per trovare un via di salvezza.
Fu così che una mattina degli ultimi di ottobre del 1943 – scrive, con dovizia di particolari, nel suo memoriale don Leto Casini – Mons. Meneghello presentò don Casini al Comitato comprendente il rabbino di Firenze Dr. Nathan Cassuto, il Rag, Raffaello Cantoni, Giuliano Treves, Joseph Ziegler di origini ungheresi, Kalberg, Matilde Cassin, le sorelle Lascar e due altri dei quali sfugge il nome. Furono di valido aiuto il domenicano P. Cipriano [Ricotti], don Giovanni Simeoni e, naturalmente, Mons. Meneghello che, tramite il noto ciclista Gino Bartali, riuscì a procurarsi le carte d’identità opportunamente falsificate con la macchina Felix della tipografia di Luigi Brizi di Assisi, per gli ebrei nascosti nei vari conventi di Firenze. Il Comitato si riuniva tutti i giorni – continua don Leto –, tanti erano i problemi che si presentavano e urgeva risolvere. Il luogo delle riunioni veniva cambiato spesso per evitare pericoli di pedinamento. Nella cappella degli Orafi, presso la Chiesa di S. Stefano e Cecilia, don Casini riuniva settimanalmente gli Ebrei fiorentini per informarsi delle loro necessità e distribuire denaro ai più bisognosi. Il denaro occorrente per sopperire alle innumerevoli necessità – si doveva provvedere vitto, alloggio, indumenti, medicinali, carte d’identità (naturalmente false) a diverse centinaia di persone – veniva versato a don Casini dal ragioniere Cantoni.
In seguito alle retate sferrate dai nazisti, poiché all’epoca vivevano proprio al centro della città, il padre Simone e lo zio Fernando – stimati funzionari di culto nella sinagoga di Firenze – decisero immediatamente di correre ai ripari e, per precauzione, trovare un luogo sicuro dove potersi rifugiare lontano da occhi indiscreti.
«Madre Maria era piccola anche per un bambino di 5 anni – ricorda Cesare – ma era un gigante spirituale. Salvò non solo noi ma molte altre madri con bambini, e disse alle consorelle che eravamo tutti sfollati, vittime della guerra, tenendo segreta la nostra identità ebrea: in questo modo si prese tutta la responsabilità e protesse le altre suore da un’eventuale retata nazista».
Fu così che, proprio grazie a questa sofisticata rete clandestina di assistenza, che poteva contare su un’organizzazione ben collaudata che collegava, come in questo caso, la DELASEM con la Curia genovese e quella di Firenze, si riuscirono a salvare dalla deportazione diversi ebrei, nascondendoli in vari conventi e istituti ecclesiastici come la Casa delle Pie Operaie di San Giuseppe che, come altri ordini religiosi, prontamente risposero all’appello del loro Arcivescovo.
L’audacia nel proteggere con determinazione i suoi “ospiti” da parte di Madre Maria Agnese, del resto, è testimoniata da un episodio che, suo malgrado, la vide protagonista il 28 novembre 1943 in occasione di un’improvvisa retata compiuta dalle SS allorché, ebbe la prontezza di replicare a due ufficiali delle SS che le intimavano di voler perquisire il convento perché avevano ricevuto una soffiata che lì dentro si nascondevano degli ebrei: «qui non ci sono ebrei, ci sono solo figli di Dio, e anche voi siete figli di Dio». All’udire queste parole l’ufficiale restò disorientato e a quel punto non gli restò altro da fare che chinare il capo e andare via.
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