La ricostruzione della drammatica vicenda che vide protagonista Giovanni Paolo II e che coinvolse politici, militari, criminali, diplomatici, banchieri, gente comune e popoli interi nell’intrigo internazionale forse più oscuro e misterioso di tutti i tempi.
A distanza di trentanove anni, quasi ovunque nel mondo si ritiene che l’attentato fu voluto dal blocco sovietico. In Italia, questa verità storica è come una grande nave incastrata tra gli scogli che stenta a riprendere il largo, appesantita dagli esiti delle inchieste, sebbene esse abbiano solo il compito di appurare la verità giudiziaria, dai pregiudizi ideologici e dalla propaganda politica disinformatrice[1].
Quanto segue, sulla scorta principalmente delle inchieste di Ferdinando Imposimato e di Ilario Martella, ma anche di Rosario Priore, nonchè delle ricerche dello studioso francese Pierre De Villemarest, cerca di ricostruire e contestualizzare nel modo più sintetico ed esauriente possibile la vicenda drammatica che vide protagonista Giovanni Paolo II e che coinvolse politici, militari, criminali, diplomatici, banchieri, gente comune e popoli interi nell’intrigo internazionale forse più oscuro e misterioso di tutti i tempi. E cerca di connettere ad esso alcuni altri eventi misteriosi che di solito in Italia – ma non all’estero – non gli sono mai riportati[2].
IL COMPLOTTO
Mehemet Alì Ağca (n. 1958) fu condannato all’ergastolo alla fine della Prima inchiesta sull’attentato al Papa il 22 luglio 1981. Già la sentenza del Primo processo lanciava il sospetto sulla presenza di eventuali complici, sebbene lui dichiarasse sempre di aver agito da solo. In effetti da subito comparvero elementi che lasciavano intendere che Ağca avesse dei collaboratori. Essi si definirono con ulteriore chiarezza nel corso del tempo. Infatti il 6 novembre 1981 il giudice Ilario Martella (n. 1934, ora presidente onorario aggiunto emerito della Corte di Cassazione) iniziò la Seconda inchiesta. Sarebbe terminata il 26 ottobre 1984. Da essa emersero senz’altro le cose più interessanti[3]. Ma non possono essere trascurate le notizie emerse anche dalla Terza inchiesta di Rosario Priore (n. 1939, ora sostituto procuratore generale emerito presso la Corte di Appello di Roma) e conclusasi il 21 marzo 1998.
Ağca era stato l’assassino del giornalista turco Abdi Ipekci (1929-1979), direttore del giornale filooccidentale Millyet, fautore a suo tempo dell’ingresso della Turchia nella NATO e coraggioso denunciatore delle connivenze tra mafia e politica nel suo paese. Questo omicidio era avvenuto il 1 febbraio 1979 e già da allora Ağca era circondato da una rete organizzativa notevole, secondo quanto in seguito raccontato dallo stesso killer al giudice istruttore Martella. Avevano collaborato con lui Oral Çelik (n. 1959), Yalçin Özbey (n. 1955), Mehmet Şener (n. 1955) e Yavuz Ceylan. Questi ultimi due erano terroristi di sinistra, mentre Ağca stesso e i suoi primi due complici potevano essere definiti di destra. Elemento, questo, da tenere presente per quanto andremo a dire in seguito sulla vera matrice ideologica di colui che sparò al Papa. Dopo qualche mese di tranquilla latitanza, Ağca era stato arrestato, il 25 giugno 1979; dichiaratosi unico colpevole anche sotto una forte coercizione fisica, il killer era stato rinchiuso nel carcere di massima sicurezza di Kartal a Istanbul. Da qui, dove era trattato con rispetto da tutti, detenuti e secondini, e dove divideva la cella con il terrorista di sinistra Atilla Serpil, evase spettacolarmente il 23 novembre 1979, e non certo da solo. Le guardie furono corrotte e le porte gli si aprirono davanti senza difficoltà. Fu poi aiutato e accolto da Abdullah Çatli (1956-1996)[4].
In seguito la sua latitanza era stata in Iran e Bulgaria, evidentemente coperta, non essendo questi degli Stati dove si potesse entrare ed uscire a piacimento. Nella Repubblica Islamica Ağca si trattenne fino al maggio 1980 ed era accompagnato da Çatli e Çelik, con l’appoggio di Abuzer Uğurlu (n. 1943), potente boss della mafia turca. Nella Repubblica popolare Ağca arrivò il 1 luglio, accompagnato sempre da Çelik e accolto da Mustafa Eof, amico di Uğurlu, che lo aveva anche avvertito che avrebbe potuto contare sull’assistenza di Bekir Çelenk (1934-1985) e Omar Mersan, due potenti capi della mafia turca. In questi spostamenti ebbe ovviamente più di un passaporto falso (il primo dei quali intestato a Faruk Özgün), che certo non aveva fatto da solo o con la semplice assistenza tipografica dei suoi accompagnatori[5].
Le peregrinazioni di Ağca non erano terminate qui e aveva avuto sussidi economici per soggiornare non solo in Bulgaria (in cui si trattenne per un lungo periodo, dal 2 luglio al 31 agosto), ma anche per transitare in Jugoslavia, soggiornare in Germania, Francia, Svizzera (dove stette pure lungamente, dal 9 settembre al 27 ottobre), Italia (in cui rimase un mese, dal 28 ottobre al 28 novembre), Tunisia (dove giunse il 28 novembre e da cui partì il 14 dicembre), di nuovo Italia, Austria, per la seconda volta in Svizzera, Spagna (in cui si trattenne dal 25 aprile al 9 maggio del 1981) e ancora in Italia per la terza volta, fino all’attentato, dal 9 maggio 1981. Certo non erano suoi guadagni quelli con cui si sostentò[6]. Inoltre, secondo Rosario Priore, durante le sue peregrinazioni il turco potrebbe essersi prostituito (presumibilmente per sviare l’attenzione dal vero scopo del suo peregrinare, nel più puro stile camaleontico dei grandi killer professionisti venuti dal nulla[7]), in Germania Ovest compì diversi omicidi su commissione e sposò, evidentemente per copertura, una donna tedesca. Per lo stesso giudice, il killer era noto ai servizi tedeschi e francesi[8], che evidentemente non lo perseguirono perché era nell’interesse di tutti ignorarlo e lasciarlo agire indisturbato, se non addirittura utilizzarlo per azioni illegali o borderliner tra legalità e crimine. Un profilo, questo disegnato da Priore, incompatibile con quello di un killer solitario e che in effetti il magistrato delinea per l’organizzazione alla quale poi emerse che Ağca era affiliato, ossia i Lupi Grigi, di cui diremo. Tornando alle peregrinazioni di Ağca, va rilevato che la prenotazione telefonica di una stanza alla Pensione Isa di Roma, dove soggiornò prima dell’attentato al Papa, avvenne in perfetto italiano, lingua che il turco conosceva appena quando arrivò[9]. Anche questo era un indizio chiaro ed inequivocabile della rete di appoggi che le inchieste poterono supporre ma mai ricostruire in modo incontrovertibile onde infliggere condanne. Il killer avrebbe poi attribuito la prenotazione a Todor Stoyanov Ayvazov (n. 1944), di cui avremo modo di approfondire il ruolo nelle vicende rivelate da Ağca[10].
La stessa logistica dell’attentato mostra come il killer non potesse agire da solo. Come lui stesso ammise e come poteva supporsi, prima del tentato papicidio, Ağca fece molti sopralluoghi in Piazza San Pietro per preparare l’attentato ma nessuno lo notò, nonostante la presenza della Pubblica Sicurezza italiana, che per consuetudine presta servizio in essa, della Gendarmeria e della Guardia Svizzera[11]. Il turco compì poi un attentato all’aperto col rischio di essere catturato o linciato, evidentemente perché aveva una rete che poteva almeno provare a garantirgli la fuga. Nell’attentato, gli spari esplosi da Ağca furono probabilmente due (attestati anche da un breve cortometraggio girato da un turista nei momenti fatali dell’attentato a Giovanni Paolo II), ma più testimoni sentirono tre colpi, alcuni addirittura quattro (ma il numero di tre è il più plausibile). Questo era un indizio certo della presenza di almeno un altro killer nella Piazza[12]. Sparando, Ağca ferì altre due persone, ossia le pellegrine Rose Hall e Anne Odre (m.1997), ma per colpire quest’ultima con il primo proiettile risuonato in Piazza San Pietro e senz’altro esploso dalla sua pistola, bisogna ipotizzare, a causa della traiettoria, che Ağca non raggiunse il Pontefice; siccome però quest’ultimo fu colpito da due proiettili e Ağca fu bloccato da una suora – che non fu mai identificata- prima di esplodere un terzo colpo (come dichiarò egli stesso[13]), evidentemente il terzo proiettile fu sparato da un’altra persona. Il terzo proiettile, che colpì in modo più grave il Papa, non potè mai essere esaminato perché incastonato come ex voto nella corona della statua della Madonna di Fatima per volontà di Giovanni Paolo II[14]. Una perizia balistica avrebbe dato la certezza dell’uso di due diverse pistole nell’attentato, ma la sacralità del dono ha impedito il recupero del reperto di prova, conformemente alle norme consuetudinarie alle quali nemmeno il Pontefice sopravvissuto volle mai derogare.
Anche dopo l’attentato, Ağca si comportò come se fosse parte di una squadra e non come un lupo solitario. Da subito infatti, dopo essersi protestato innocente per scampare a un possibile linciaggio, consegnato agli agenti, insistette in modo sospetto sul fatto di aver operato da solo, in uno stentatissimo inglese[15]. Inoltre, durante il Primo processo, tenendo un contegno palesemente provocatorio e allo stesso tempo ammiccante a qualcuno, chiese una Corte di Giustizia internazionale, e in mancanza minacciò uno sciopero della fame che però avrebbe iniziato dopo cinque mesi (ossia nel dicembre 1981), come se aspettasse che accadesse qualcosa[16]. Condannato all’ergastolo, il killer non fece appello come se sperasse di uscire in modo diverso, sebbene tale speranza non avesse alcun fondamento e sebbene in quegli anni in Italia anche il peggior assassino facesse appello[17]. Cosa, questa, che se anche non poteva sapere da sé, di certo gli fu riferita dal suo legale di fiducia Pietro d’Ovidio, principe del Foro, al quale però evidentemente Ağca non volle dare retta. Presenza, questa, senz’altro singolare accanto al killer, anche considerando che questi non se ne avvalse per esperire le più sottili arti giuridiche onde, se gli non fosse stato possibile sfuggire alle maglie della giustizia italiana, queste si potessero almeno allargare a suo vantaggio.
Del resto, a fornire la prova storica della presenza di un complice di Ağca in Piazza San Pietro fu il turista americano Lowell Newton, che casualmente fotografò, dopo l’attentato, un uomo in fuga con una pistola, che non era Ağca e che egli non ebbe il coraggio di immortalare frontalmente[18]. Tale fuggitivo fu identificato in Oral Çelik dal fotografo, dalla Hodre, dalla Hall e individuato esplicitamente da Ağca. Le contraddittorie versioni che poi questi diede nel corso del Secondo Processo e della Terza inchiesta resero impossibile una identificazione processualmente valida. .
Dal 1 maggio 1982 Ağca cominciò a collaborare con il giudice istruttore Martella e il 30 giugno 1983 ammise di farlo perché aveva perduto ogni speranza di essere liberato, in quanto gli avevano fatto credere che, se fosse stato arrestato, lo avrebbero fatto evadere o barattato con un ostaggio, cosa che però non era accaduta[19]. Infatti le carceri italiane non erano un colabrodo come quelle turche e il suo crimine era talmente unico che sperare di farlo evadere era assurdo. Fino a quel momento poi nessun sequestro era stato compiuto per chiedere in cambio la sua liberazione.
Un primo sondaggio Ağca lo aveva fatto il 29 dicembre 1981 con i Servizi segreti italiani. Gli agenti Luigi Bonagura del SISDE e Alessandro Petruccelli del SISMI, accompagnati dall’interprete Lorusso, visitarono Ağca in carcere ad Ascoli Piceno, col consenso dei magistrati e su sua richiesta[20]. Erano stati inviati dal ministro degli Interni Virginio Rognoni (n. 1924, in carica dal 1978 al 1983). Entrati alle 10,40, gli agenti, dopo aver verificato le condizioni di sicurezza del carcere, iniziarono un lungo colloquio con il turco, di quattro ore e cinquanta minuti, debitamente registrato. Il killer chiese di essere liberato in cambio di rivelazioni, che però evidentemente non fece, nonostante sollecitazioni e promesse. La collaborazione fu impossibile perché il turco pretendeva la scarcerazione immediata e mostrava di essere reticente[21].
Quello che Ağca forse non sapeva era che almeno una parte del SISMI non aveva nessuna intenzione di arrivare alla verità, in quanto pensava che potesse essere molto imbarazzante. Infatti, solo diciotto giorni dopo l’attentato, il sarto turco residente in Austria Cihat Turkoglu, capo in quel paese della Federazione Idealista (della cui natura diremo tra breve) e a cui Ağca con i suoi complici sembra avesse affidato le armi acquistate per l’attentato al Pontefice senza però svelargli per cosa sarebbero servite, avendo riconosciuto il killer attraverso i mass media e avendo chiesto di parlare, tramite la nostra Ambasciata a Vienna, con la magistratura italiana, fu dirottato al SISMI, e dopo di ciò di lui si persero le tracce. Evidentemente qualcuno volle far sparire nel nulla un testimone scomodo, che sarebbe stato quindi assassinato dai misteriosi complici dell’attentatore di Piazza San Pietro[22]. Si è ipotizzato che a tradire il collaborante turco sia stato il diplomatico italiano Enrico Aillaud (1911-2009), all’epoca in servizio a Vienna, sulla base del fatto che questi figurava tra i contatti del KGB in Italia elencati nel dossier Mitrokhin[23]. Ma l’interessato ha sempre negato di essere una spia russa e tantomeno ha ammesso il suo coinvolgimento nella vicenda, sporgendo persino querela. Il generale Pasquale Notarnicola (n.1930), che pure ha firmato in calce l’informativa su Turkoglu giuntagli da Vienna, dichiarò di non ricordare nulla in merito. La stessa amnesia fu lamentata, in sede giudiziaria, dall’alto ufficiale sia per i contatti intercorsi tra il SISMI e lo SDECE – il servizio segreto francese – nel 1980 e aventi per oggetto la sicurezza del Papa, sia per le relazioni ricevute sull’incontro tra gli agenti del SISMI e del SISDE con Ağca ad Ascoli Piceno e di cui abbiamo appena detto. La giustificazione addotta fu la gran mole di lavoro da cui era soverchiato a causa dello Scandalo P2 (su cui torneremo), che evidentemente era per lui più importante dell’attentato al Pontefice, così come – magari più verosimilmente – la Strage di Bologna (2 agosto 1980) lo aveva impegnato tanto da fargli dimenticare altre cose relative a quella di Ustica (27 giugno 1980), di cui pure si era occupato e su cui pure i magistrati inquirenti lo avevano interrogato[24].
Conclusosi pertanto con un nulla di fatto l’approccio coi servizi, ora Ağca aveva deciso di parlare con il magistrato e cominciò a delineare la Pista bulgara[25].
IL PRIMO LIVELLO
La trama che Ağca ricostruì, sia pure con qualche incongruenza e alcune menzogne forse volontarie quale via di fuga in caso di ritrattazione, e corroborata da molti riscontri, è assai complessa ed armonica. Anzitutto, ammise che era membro dei Lupi Grigi, braccio armato dell’MHP o Partito del Movimento Nazionalista Turco, messo fuori legge dal governo militare del presidente Ahmet Evren (1917-2015, in carica dal 1980 al 1987) nel 1980. Il partito era nato nel 1957 dalla fusione del Partito Nazionale Repubblicano e del Partito Repubblicano dei Contadini, e aveva originariamente il nome di Partito dei Contadini nazional-repubblicani. Nel 1968 assunse la denominazione corrente e nello stesso anno erano nate le “Associazioni Idealiste” che, pur autonome dall’MHP, ne seguivano le impostazioni politiche. Tra di esse i cosiddetti Idealisti, ossia giovani guerriglieri addestrati in ben quaranta campi e poi definiti appunto Lupi Grigi[26]. Il gruppo terroristico ufficialmente era xenofobo, razzista e panturchista, ma in realtà la definizione più benevola che se ne può dare è quella forse fornitane da Rosario Priore dinanzi alla Commissione Mitrokhin: una sorta di azienda del terziario del crimine a disposizione di qualsiasi Stato o parastato[27]. Essi, come tutte le organizzazioni similari, sono stati ampiamente infiltrati e controinfiltrati da servizi segreti, gli unici che potevano tutelare una organizzazione tanto complessa dopo che fu messa fuori legge. Tornando ad Ağca, questi attestò che, dopo essere stato arrestato, venne fatto evadere, portato in Iran -tramite le Repubbliche sovietiche del Caucaso, come si appurò in seguito- e di qua in Bulgaria da Oral Çelik[28].
Questi, secondo il killer ora assai loquace, aveva agito per mandato di un potere superiore, che aveva stabili rapporti coi Lupi Grigi. Essi infatti in Bulgaria, tramite la Mafia turca, intrattenevano rapporti coi servizi segreti locali, aventi lo scopo di destabilizzare la Turchia che faceva parte della NATO. Ed è proprio da qui che il mafioso Bekir Çelenk – che, tirato in ballo da Ağca, sarebbe rimasto comodamente ai domiciliari in Bulgaria fino alla fine della Seconda inchiesta e oltre[29] – aveva preso contatti con i Lupi Grigi per un attentato al Papa, in cambio di tre milioni di marchi tedeschi e della copertura alla latitanza di alcuni terroristi turchi. Gli attentatori sarebbero stati Ağca e Çelik. Proprio a tale scopo la mafia turca aveva organizzato coi Lupi Grigi la fuga del killer prescelto.
Il soggiorno bulgaro di Agca non era stato dunque casuale. Esso durò dal luglio all’agosto del 1980. Qui il killer disse di aver conosciuto Todor Stoyanov Ayvazov, presentatogli da Çelenk quale funzionario dell’Ambasciata bulgara in Italia ed esperto di terrorismo, col nome in codice di Sotir Kolev e che Ağca avrebbe reincontrato a Roma[30]. Sarebbe stato lui il mentore delle spregiudicate operazioni militari affidate al turco, delle quali quella contro Wojtyła fu la più eclatante.
Ma la controparte dell’accordo con la Bulgaria comunista non furono Ağca e Çelik nè tantomeno i vertici militari dei Lupi Grigi operanti in Turchia, bensì la Federazione Turca delle Associazioni Idealiste in Europa, operante in Germania, legata all’MHP e ai Lupi Grigi stessi. Essa infatti altro non era che la struttura in cui erano confluiti militanti e simpatizzanti dell’MHP dopo che questi fu, come dicevamo, messo fuori legge in Turchia. In sigla ADUTDF, questa Federazione ancora oggi esistente a Francoforte sul Meno, con diciottomila membri[31], fu senz’altro una singolare anomalia negli Anni Ottanta, in quanto catalizzò una forte opposizione al governo militare turco, pilastro della NATO nel Mediterraneo, nel territorio della RFT, che pure era tra gli Stati più fedeli all’Alleanza occidentale. In ogni caso, il presidente dell’ADUDTF, Musa Serdar Çelebi (n. 1952), secondo la testimonianza di Agca poi rigettata dai tribunali italiani, organizzò la trasferta europea del killer e dei suoi complici in cambio del denaro promesso a Çelenk[32]. Sullo sfondo di questa trattativa si intravede però a posteriori il ruolo di quell’Abdullah Çatli che abbiamo visto sin dall’inizio vicino ad Ağca, in quanto costui era un responsabile importante in tutta Europa dell’ADUDTF[33] e capeggiava il ramo giovanile dell’MHP. In questo quadro Ağca collocò le sue peregrinazioni in Europa a cui ho fatto riferimento. Affermò che quando egli era in Austria, furono Oral Çelik e Abdullah Çatli ad acquistare la pistola dell’attentato, assieme ad altre armi, in Svizzera. Essa venne custodita e poi debitamente consegnata al killer al momento opportuno da Omer Bağci, tesoriere della Federazione, sempre stando alla testimonianza di Ağca, il quale nel frattempo andò in Spagna e poi in Italia, precisamente a Perugia (dove per copertura si segnò all’Università per Stranieri, con uno escamotage simile a quello di Fedor Serghej Solokov, ufficiale del V Dipartimento del Primo Direttorato Centrale del KGB a Roma, che per pedinare Moro si iscrisse alle sue lezioni[34]) e Milano.
Vi è una discrepanza tra questa ricostruzione e quella emersa nel 1985 a proposito di Turkoglu a cui facevo cenno. Infatti stando a quanto testimoniato dal sarto scomparso, le armi sarebbero state affidate a lui da Ağca, Çatli e Sener, alla fine di marzo del 1981. Mentre secondo la testimonianza di Ağca a Martella, le armi sarebbero state date da lui a Bagçi assieme ad altri due complici, tali Mahmut Inal e Ünal Erdal, agli inizi di aprile. Se ne deve dedurre che Ağca sapesse che Turkoglu era stato ammazzato e quindi volesse del tutto bypassarne la funzione? O forse che per ragioni ignote le armi siano state custodite solo provvisoriamente da Turkoglu e poi passate a Bağci? Di certo fu questi a consegnare le armi al killer, perché lo ha ammesso, pur negando di sapere lo scopo per cui sarebbero state usate[35].
Il 10 maggio 1981 Ali Ağca arrivò a Roma dove fu accolto da Ayvazov. Questi gli presentò Jelio Kolev Vassilev (n. 1942), addetto militare dell’ambasciata, col nome di Sotir Petrov, e con cui progettò altri attentati, minuziosamente descritti dallo stesso Ağca in deposizioni stralciate perché concernenti altri procedimenti penali. Ağca conobbe anche Serghej Ivanov Antonov (1948-2007), agente del servizio segreto bulgaro e funzionario della Balkan Air, presentatosi come Bayramich[36]. Nei giorni successivi i congiurati fecero riunioni (la maggior parte in ristoranti e una a casa di Antonov) e sopralluoghi in Piazza San Pietro, che non è scopo di questo studio descrivere nei dettagli[37].
Nel quadro di queste rivelazioni, Ağca menzionò anche, come organizzatore romano dell’attentato al Papa, Ivan Tomov Dontchev (n. 1955), capo del servizio segreto bulgaro a Roma, citandolo col solo nome di Ivan Tomov. Questi avrebbe sovrinteso non solo all’attentato a Wojtyła, ma anche a un progetto analogo contro Lech Wałesa (n. 1943), nell’occasione della visita del sindacalista polacco a Roma nel gennaio del 1981. Questo nome sarebbe stato rifatto da Ağca nel quadro dell’inchiesta su questo secondo attentato istruita da Ferdinando Imposimato (n. 1936, presidente onorario aggiunto emerito della Corte di Cassazione) e Rosario Priore; in questi frangenti il turco rivelò di aver incontrato Tomov Dontchev in casa di Ayvazov a Roma assieme a Vassilev[38].
In una lettera del settembre 1997, farcita però di allusioni e bugie, Ağca, evidentemente scaltro, affermò che gli organizzatori romani dell’attentato erano Tomov e Dontchev, capi dei servizi segreti bulgari nella capitale italiana,[39] scindendo in due l’unico personaggio che aveva dimostrato, in tempi non sospetti, di conoscere bene. Nel 1997 il servizio segreto bulgaro, quale Ağca l’aveva conosciuto, non esisteva più, ma i suoi presunti complici erano ancora vivi e processabili mentre il procedimento per l’attentato al Papa era ancora in corso, per cui la lettera, sollecitata da Imposimato in un incontro privato col killer per facilitargli l’uscita dal carcere coll’ammissione della verità e da destinarsi agli inquirenti, fu invece indirizzata a Martella, e non al giudice all’epoca competente, il pubblico ministero Antonio Marini (n. 1945, avvocato generale emerito della Corte d’Appello di Roma), così che Ağca potè poi disconoscerla, secondo la sua tattica di inquinatore di prove di cui diremo. Non fu dunque nel 1997 che Agca fece per la prima volta il nome di Tomov Dontchev, come afferma erroneamente – e in modo sospetto – la Relazione di minoranza della Commissione Mitrokhin[40], ma nel 1982, e lo ripetè in due diverse istruttorie.
Tornando alla narrazione di Ağca, stando ad essa il 13 maggio 1981 alle 16,00 Antonov accompagnò Çelik e Ağca stesso in Via della Conciliazione con la sua auto, perché poi si recassero a piedi nella vicina Piazza San Pietro. Ağca avrebbe dovuto sparare al Papa, di cui i bulgari conoscevano il tragitto (evidentemente per la connivenza di qualcuno in Vaticano, come vedremo), cinque colpi; Çelik avrebbe dovuto sganciare delle bombe panico dopo l’assassinio, e all’occorrenza sparare per aiutare Ağca. I due avrebbero dovuto raggiungere la macchina di Antonov ed essere portati ad un tir con targa diplomatica che li avrebbe condotti in Bulgaria. In effetti un tir diplomatico bulgaro fu a Roma il 12 e il 13 maggio, e fu un evento più che raro. Era stato inviato in giro per le capitali europee col motivo, evidentemente pretestuoso, di fare rifornimento di bibite nelle ambasciate di Sofia[41]. Probabilmente la partenza non sarebbe avvenuta subito, ma dopo qualche giorno trascorso, da parte dei killer, in una ambasciata compiacente, che secondo Ağca non necessariamente sarebbe stata quella bulgara, ma piuttosto quella cubana o siriana[42]. La cosa non era impossibile perché la prima apparteneva ad uno Stato comunista e la seconda ad un Stato arabo in ottimi rapporti con l’URSS e con la galassia del terrorismo internazionale.
Ağca tuttavia sparò solo due colpi perché – come ho detto – fu bloccato da una suora e Çelik, evidentemente disorientato, esplose un terzo colpo insufficiente. Ağca fu poi bloccato dalla folla e in particolare da un’altra suora, Lucia Giudici, e arrestato. Çelik e Antonov invece si dileguarono[43].
I riscontri alle deposizioni di Ağca furono molteplici, e solo la demolizione fatta dal teste della sua stessa testimonianza, entrando in contraddizione con se stesso, ritrattando e poi riconfermando, ma soprattutto simulando l’instabilità mentale, hanno potuto inficiarne la valenza probatoria. Né Antonov, né sua moglie Rossitza[44], né Ayvazov, né Vassilev poterono fornire alibi per i momenti in cui Agca asserì che essi si trovavano tutti insieme, nei giorni precedenti l’attentato e nel giorno dell’attentato stesso[45]. Una menzione particolare merita la questione della ricostruzione della casa di Antonov fatta da Ağca su una piantina, nella quale il killer avrebbe inserito una porta à coulisse in realtà inesistente. Questa presunta contraddizione non esistette in quanto nella Seconda inchiesta mai Agca tracciò una tale piantina né il giudice istruttore Martella ne ha mai fatto cenno nell’ordinanza di rinvio a giudizio[46]. Il killer parlò di un muro scorrevole, ma in casa vi era una tenda scorrevole che nella mente del testimone potrebbe essere diventata appunto un divisorio, anche per il colore grigio-beige[47].
IL GIOCO DEGLI SPECCHI
Ne’ i tentativi, fatti nel corso della Terza inchiesta, di tirare in ballo la CIA né quelli di coinvolgere Francesco Pazienza (n. 1946) da parte dei turchi (ossia di Ağca stesso, in un nuovo avatar di testimone, e dei suoi complici anch’essi sotto processo), né le stesse asserzioni del Pazienza sui legami tra i servizi segreti americani e i Lupi Grigi tramite il terrorismo nero italiano[48], hanno alcun fondamento o riscontro[49]. Che Ağca fosse rosso si evince da alcuni dati della sua biografia[50], da lui stesso narrati nella Lettera a Martella del 1997 ma attestati anche da altre fonti, anche se a volte con particolari differenti. Nel 1977 Ağca, dopo essere passato per la Palestina col marxista turco Sedat Sirri Kadem (n. 1958) e per il Libano e la Siria con l’altro comunista suo connazionale Teslim Töre, venne addestrato in quell’ultimo paese per quaranta giorni in un campo terroristico palestinese in Siria da istruttori bulgari e tedesco-orientali. Il campo era del FPLP di George Habbash (1926-2007), l’ala marxista dell’OLP, ed era sotto il comando della Repubblica popolare dello Yemen e sotto la protezione del GRU, il misteriosissimo servizio segreto militare sovietico di cui nessuno conosceva l’esistenza, che evidentemente era nota ad Ağca perché aveva realmente avuto a che fare con esso[51]. Questo addestramento è peraltro perfettamente deducibile dalla sovrana capacità del turco di districarsi tra affermazioni, ritrattazioni, reticenze, omissioni e menzogne, con una capacità mimetica sorprendente degna del migliore degli agenti. L’addestramento è attestato anche da un documento del SISMI, rinvenuto in casa dell’agente Francesco Pelaia, di cui avremo modo di riparlare e citato nell’ordinanza della Terza inchiesta di Rosario Priore. In esso si attesta che Ağca fu portato in un finto campo palestinese, in realtà a Sinferopoli in URSS, e qui addestrato per uccidere il Papa, ma dopo e non prima la sua evasione dal carcere turco. Il killer non si sarebbe accorto di essere in URSS perché l’ambiente era stato modificato appositamente. Questa collocazione cronologica appare plausibile e l’anacronismo di Ağca potrebbe dipendere dalla sua volontà di non ricostruire mai in modo preciso nessuna cosa onde salvaguardare la possibilità di ritrattare[52]. In questo modo si darebbe ragione dell’informativa SISMI dell’ottobre 1981, in cui si diceva che il KGB e FPLP avevano collaborato nell’attentato al Papa[53]. E’ difficile infatti credere che l’URSS allestisse un finto campo dell’FPLP in Crimea senza che lo stesso Fronte non ne fosse a conoscenza, essendo una organizzazione marxista dipendente da Separat, la struttura terroristica internazionale subordinata al GRU. A meno che non si tratti di due diversi addestramenti, o che la notizia dell’informativa in mano a Pelaia fosse imprecisa e postdatasse il periodo di Ağca in Siria del 1977 e che proprio in quell’anno egli fosse portato in URSS senza saperlo, e non per essere preparato a sparare al Papa. Cose tuttavia molto meno probabili.
Tornando alla biografia sommaria dell’attentatore, Ağca sostenne di essere stato immesso nei Lupi Grigi come agente provocatore del KGB e in effetti, come abbiamo visto, frequentò anche terroristi di estrema sinistra. I Lupi Grigi infatti erano ampiamente infiltrati dai sovietici. Da Varna, in Bulgaria, una sottosezione speciale dell’VIII Direttorato del KGB seguiva da vicino le attività di quei terroristi. La loro identità ideologica di fatto era solo una copertura e l’URSS era il loro maggior sponsor, per colpire la Turchia membro distinto della NATO (organizzazione peraltro gradita di solito ai gruppi parafascisti proprio in odio ai sovietici)[54]. Proprio per questo motivo, nel 1979 l’evasione di Ağca fu voluta dal KGB, chiesta dal Darzavna Sigurnost (DS) bulgaro e organizzata da Çelenk tramite Çelik e compagni, perché il GRU aveva già deciso di liberare quel promettente allievo per usarlo come killer di Giovanni Paolo II e anche di altre personalità. L’evasione, con la complicità di ufficiali turchi di destra ingannati sul suo scopo e forse con la copertura del MIT (il servizio segreto turco), avvenne il 23 novembre del 1979, a quattro giorni dall’arrivo del Pontefice a Istanbul. Già da allora si preparava un depistaggio, in quanto Ağca scrisse che scappava per attentare al Papa, definito “comandante di crociate contro la Turchia”. Questa frase, completamente priva di senso date le attitudini dialoganti di Giovanni Paolo II col mondo islamico, doveva servire a due scopi: far credere che un attentato sarebbe stato compiuto contro di lui durante il suo imminente viaggio in Asia Minore tra il 27 e il 28 novembre (mentre invece si sarebbe tenuto altrove) e far credere, quando questi fosse stato perpetrato, che la matrice fosse islamista, mentre l’evaso apparteneva a ben altro milieu[55].
In questi frangenti Ağca fu nel frattempo mandato in Iran, e questo sarebbe accaduto non solo per coprire la sua latitanza ma anche per un mai realizzato attentato a Khomeini (1902-1989). Secondo il killer turco, che poi fedele al suo copione di depistatore professionista ritrattò, avrebbe dovuto uccidere l’Ayatollah sciita, la cui predicazione rischiava di infiammare le regioni islamiche dell’URSS, con la complicità di un non ben identificato agente sovietico nel paese, tale Kuzichkin. Identificato quest’ultimo con Vladimir Kuzinsky, già addetto militare dell’ambasciata russa in Iran (come Ayvazov in quella bulgara in Italia) e poi esule politico in Gran Bretagna, gli inquirenti bulgari chiesero di interrogarlo nell’ambito dell’inchiesta sull’attentato al Papa, ma il transfuga rifiutò e asserì di non aver mai conosciuto Ağca. Tanto bastò, assieme al mancato riconoscimento fotografico del russo da parte del turco, a chiudere processualmente la questione del tentato omicidio di Ruhollah Khomeini, ma non è sufficiente per destituirla del tutto di fondamento storico. Non solo infatti il movente c’era ed era forte per i sovietici, non solo questo darebbe senso alla latitanza di Ağca proprio in quel paese (e non per esempio nella Siria amica dell’URSS), ma il mancato riconoscimento della foto di Kuzichkin potrebbe essere parte integrante del gioco di depistaggi del turco, mentre la negazione di ogni coinvolgimento da parte dell’ex addetto militare dell’ambasciata sovietica in Iran potrebbe spiegarsi benissimo con la paura di essere oggetto di una fatwa sciita e anche con una precisa scelta dell’Intelligence britannica, che non avrebbe certo voluto aprire un contenzioso di qualsiasi genere con Teheran, privandosi della possibilità di usare al meglio l’esule sovietico. Senza scartare l’ipotesi che il Kuzichkin di Ağca sia persona diversa dal Kuzinsky tirato da lui in ballo[56]. Se dunque accettiamo questa rivelazione come autentica, dobbiamo anche postulare che l’attentato contro il leader sciita non si concretizzò per l’alta soglia di rischio di fallimento o almeno di bruciare il suo esecutore, cose che avrebbero compromesso la stessa possibilità di realizzare l’omicidio di gran lunga più importante che il turco doveva compiere, ossia quello del Papa a Roma.
In ogni caso, il periodo di soggiorno di Ağca in Iran fu di diversi mesi, tanto che si può ipotizzare che egli, varcato il confine turco con l’URSS, non fosse condotto subito nel Paese degli Ayatollah tramite il Caucaso, ma portato a Sinferopoli, facendogli però credere che fosse in Siria. E’ una mera ipotesi, non un dato certo. Tuttavia quell’addestramento sarebbe servito anche per attentare a Khomeini, per cui non appare peregrino immaginare che sia avvenuto in questo periodo. Personalmente la considero la collocazione cronologica più credibile.
Tornando al background rosso di Ağca, come abbiamo detto questi fu condotto in Bulgaria e qui addestrato a Burgas per attentare al Papa[57]; anche da qui potrebbe essere stato portato in Crimea per l’addestramento di cui abbiamo fatto menzione, perché anche questo lasso di tempo appare abbastanza lungo, ma si tratta ancora una volta di una semplice ipotesi. Sempre come abbiamo visto, il lupo grigio si mosse in Europa molto ben protetto, cosa che appare molto più comprensibile se lo si colloca sotto l’ala protettrice dei servizi segreti dell’Est[58]. Durante il suo primo soggiorno a Roma (26-28 novembre 1980) Ağca fu coinvolto nel progetto di assassinare Lech Wałesa, su cui indagò con una apposita inchiesta Ferdinando Imposimato. Di tale inchiesta ovviamente Ağca fu una fonte importante ma non esclusiva. Nel periodo tra il primo e il secondo soggiorno italiano, Ağca venne nel frattempo inviato in Tunisia (28 novembre-12 dicembre) per un ennesimo progetto di omicidio politico, contro il presidente Bourghiba (1903-2000), che pure non potè realizzarsi come quello contro Khomeini perché anche questo obiettivo era troppo ben protetto e perché non valeva la pena, perseguendo questo obiettivo criminale, di rischiare di non poter realizzare quello più importante di uccidere Giovanni Paolo II.
Rientrato in Italia il 12 dicembre, Ağca riprese il progetto contro Wałesa assieme a Tomov Dontchev, Ayvazov, Antonov e Vassilev nel gennaio del 1981. Fu ipotizzato che ciò avvenisse con la connivenza dei sindacalisti UIL Luigi Scricciolo (1948-2009) e Paola Elia, avvicinati dal cugino di lui Loris Scricciolo, contiguo agli ambienti dell’estrema sinistra italiana, ma essi poi furono assolti. Nemmeno questo piano si realizzò probabilmente perché Wałesa fu anch’egli troppo ben protetto. I congiurati speravano addirittura di ammazzare insieme il sindacalista e il Papa, ma Giovanni Paolo II ricevette privatamente il leader di Solidarność vanificando questo piano. Nonostante quello che sappiamo su di esso si debba ad una inchiesta poi conclusasi in un nulla di fatto, le circostanze politiche del momento non solo lo rendevano perfettamente plausibile, ma erano praticamente le stesse in cui sarebbe maturato l’attentato al solo Sommo Pontefice, mentre sarebbe stato assai conveniente tentare di ammazzare il sindacalista polacco lontano dalla sua patria per sviare i sospetti. A fornire ulteriore credibilità a quest’ennesimo tassello del mosaico della vita di Ağca e delle inchieste che lo vedono tra i protagonisti è proprio la presenza in questa vicenda di Tomov Dontchev, che vi era entrato in conseguenza della sua supposta funzione nel sequestro di James Lee Dozier (n. 1931) avvenuto tra il 1980 e il 1981, attestata da Loris Scricciolo. Il dato obiettivo è che questo enigmatico bulgaro, uscito indenne da tante bufere giudiziarie ma prudentemente ritiratosi in patria all’inizio del soffiare dei venti ostili, è costantemente presente nei casi più eclatanti del terrorismo rosso dell’epoca in Italia (non è infatti da escludere una sua funzione anche nel Caso Moro)[59].
Altri due elementi vanno segnalati per cercare di ricostruire il profilo rosso di Ağca. Nell’agosto 1983 egli tentò di compromettere dal carcere l’ambasciata americana, simulando una intesa con l’addetto militare della stessa. Era già iniziata la fase dei suoi depistaggi. Con una lettera astutamente ingenua, il turco si rivolse all’ufficiale dicendogli: “mi avete detto di iniziare a parlare e io ho parlato”, riferendosi alla Pista Bulgara. Evidentemente se Ağca avesse avuto dei contatti con suggeritori americani, li avrebbe usati in modo più riservato e non facendo passare questa corrispondenza per le vie ordinarie sottoposte peraltro anche alla potenziale sorveglianza carceraria (che nella fattispecie sembra che però non sia stata esercitata)[60]. In modo altrettanto evidente si nota che Ağca voleva cercare di compromettere, in un modo grossolano adatto ad essere rilanciato da certi mass media, gli USA.
Il secondo elemento è che Ağca, nelle sue confessioni, nulla mai disse sul ruolo della STASI – ossia il Ministero della Sicurezza della DDR, spesso citato per indicarne metonimicamente il servizio segreto, ossia l’HVA- nell’attentato (ruolo di cui avremo modo di parlare), e non si può escludere che invece lo conoscesse. In tal caso avrebbe tenuto il contegno di un autentico agente addestrato ad ogni eventualità, capace di dosare le rivelazioni senza compromettere i livelli più alti della sua organizzazione. Si potrebbe persino ipotizzare che la Pista bulgara sarebbe stata da lui delineata non perché stanco di attendere un aiuto che lo facesse uscire di prigione, ma per prendere tempo in attesa degli eventi. Questo permetterebbe di capire perché sempre il turco mescolasse verità e bugie, ossia per non svelare mai del tutto la trama di cui era esecutore e non compromettere se non coloro che potevano essere sacrificati o più facilmente protetti[61]. In ogni caso, il nome di Ağca e quello di Çelik furono trovati nell’archivio della sezione di sicurezza del reparto uno (elaborazione operativa di organizzazioni, gruppi e persone di estrema destra, neonazisti e terroristi) della sezione principale XXII- lotta al terrorismo, della STASI. Tale archivio conteneva svariati nominativi e non tutti gli schedati erano al corrente di esservi registrati, tuttavia molti di essi erano considerati contattabili ed erano disponibili per un uso diretto o indiretto[62], cosa che costituisce un indizio fortissimo di connivenza consapevole tra l’aspirante killer del Papa e l’HVA, la cui orma troveremo sempre più marcata in quanto andremo a ricostruire.
LA QUESTIONE POLACCA E WOJTYŁA
Che i sovietici avessero, essi soli, un movente per uccidere il Sommo Pontefice, lo si deduce dalla situazione politica generale del periodo. Già dal 1960 Karol Wojtyła, in qualità di arcivescovo metropolita di Cracovia, ordinava segretamente sacerdoti cechi e slovacchi, per un paese, la Cecoslovacchia appunto, in cui la situazione della Chiesa era molto difficile[63]; dal 1965 il futuro Papa ordinò anche lituani, ucraini e bielorussi, che avrebbero varcato gli intangibili confini del primo stato ateo del mondo, l’URSS, in totale segreto. I sacerdoti erano formati clandestinamente nei seminari polacchi. Il futuro Papa organizzava contrabbando di Bibbie, rosari, libri di preghiera e di teologia, oggetti sacri, ma anche libri di cultura cristiana e non marxista. Li importava da Italia, Francia, Belgio e Germania Ovest e li smistava clandestinamente in URSS e Cecoslovacchia. Wojtyła, proseguendo quanto iniziato da semplice sacerdote tornato in patria con i dottorati in filosofia e teologia conseguite all’Angelicum nel 1948, appoggiava alla stessa maniera la stampa indipendente e diffondeva tramite dattiloscritti testi universitari che il marxismo non avrebbe mai approvato (la cosiddetta Università Volante), anche negli Stati vicini (DDR, Ungheria, Cecoslovacchia, URSS). L’Arcivescovo, creato cardinale nel 1967 da Paolo VI (1963-1978), fondò cinquecento gruppi di dieci o quindici membri ciascuno, tutti laici, che supportavano la Chiesa approfondendone le tematiche e per formulare anche proposte politiche al Parlamento polacco ed ecclesiastiche al Sinodo dei Vescovi di Roma. Il magistero teologico, filosofico e pastorale di Wojtyła era incentrato sull’idea dei diritti umani e sull’idea di patria che egli aveva in mente, che era diversa da quella che avevano invece i dirigenti del POUP (Partito Operaio Unificato Polacco)[64]. Il Cardinale ogni anno organizzava, a dispetto della legge, una conferenza con trenta o quaranta personaggi influenti, per indurli a prendere posizioni chiare. I temi erano svariati ma su tutti campeggiava quello della famiglia e del diritto dei genitori ad educare i figli. Gli invitati erano cattolici e acattolici, uomini e donne. Nella città ideale del comunismo polacco, Nowa Huta, dove all’inizio non vi erano chiese anche se alla fine il governo comunista dovette cedere e costruirne una, prima di raggiungere questo obiettivo l’Arcivescovo creò una decina di parrocchie la cui sede era nelle case dei fedeli. In altri luoghi dove le chiese non potevano essere ampliate per i veti del governo, Wojtyła le faceva ingrandire usando materiale edilizio che ufficialmente serviva per lavori nelle case dei fedeli che invece lo mettevano a disposizione della Chiesa. Per queste iniziative arrivavano pochi aiuti dall’estero, come quelli dei Polacchi d’America, e mai nessuno giunse da un governo straniero. Tutto questo era l’embrione di Solidarność, che Jonathan Kwitny ha definito, accanto a quello di Martin Luther King (1929-1968) e di Gandhi (1869-1948), il terzo grande movimento non violento del XX sec., quello che avrebbe fatto cadere il comunismo[65]. E’ peraltro un luogo comune quello che presenta Wojtyła come una figura ecclesiastica considerata meno pericolosa di quella di Stefan Wyszyńszky (1901-1981) dai comunisti polacchi. Il governo di Varsavia non sottovalutò mai la pericolosità di quel prelato, anche se essa era diversa da quella dell’indomito Cardinale Primate, e sin dal 1946 egli, da semplice prete, era stato schedato dall’UB, la polizia politica, che aprì un più voluminoso dossier su di lui nel 1958, al momento della sua consacrazione episcopale, fino a classificarlo come oppositore ideologico assai pericoloso nel 1963, con una qualifica che era riportata anche nei faldoni del KGB che lo riguardavano[66].
In generale la Polonia era già un luogo endemico di crisi, nevralgico nella visione di Yuri Andropov (1914-1984), all’epoca direttore generale del KGB (1967-1982) e poi segretario generale del PCUS dal 1982 e presidente del Praesidium del Soviet Supremo dal 1983 fino alla morte. Questi, proprio per imbrigliare la Chiesa polacca, aveva aumentato l’infiltrazione di agenti del KGB in Vaticano, i quali sotto mentite spoglie potevano cercare di irretirlo facendo leva sull’Ostpolitik di Paolo VI. Il russo contava anche sul desiderio delle élites mondialiste occidentali di convivere pacificamente coi sovietici, di cui non si presentiva affatto l’imminente sparizione (un po’ come fa oggi l’Occidente con la Cina popolare o con le Monarchie del Golfo); Andropov poteva altresì sperare che questi gruppi occidentali potessero influire sulla Santa Sede per via delle migliori relazioni insorte, sotto Papa Montini, tra questa e la massoneria, che in ampie sue frange condivideva l’auspicio di convivenza Est-Ovest. Andropov poteva anche sperare che la Teologia della liberazione e il travaglio identitario postconciliare accelerassero il processo di dissoluzione dogmatica della Chiesa Cattolica e facilitassero la penetrazione del comunismo in essa, così almeno da isolare l’ultraortodossa Chiesa polacca, se non da tentare di minarne addirittura la compattezza dottrinale. Non a caso il russo aveva continuato la politica tradizionale sovietica di infiltrare falsi preti e religiosi tra le fila del clero cattolico, onde servirsene per diffondere dottrine eterodosse e filocomuniste[67]. Questa politica aveva avuto un particolare successo con la Compagnia di Gesù, che era precipitata nel caos dottrinale e che in America Latina addirittura spesso si era schierata coi partiti comunisti[68].
Tuttavia queste manovre di palazzo non bastavano e la crisi polacca era lungi dall’essere risolta. Avvenne perciò l’allontanamento del nazionalcomunista Władisław Gomulka (1905-1982) dalla segreteria del POUP (tenuta per la seconda volta dal 1956 al 1970, una prima era stata dal 1943 al 1948) e la sua sostituzione con il filosovietico Edward Gierek (1913-2001, in carica dal 1970 al 1980). Costui nel 1974 lanciò una politica repressiva contro la Chiesa che però fallì clamorosamente per l’opposizione congiunta del clero e del popolo. Finchè questo contrasto rimase tuttavia un fatto polacco, l’URSS poteva sperare di circoscriverlo nell’ambito del blocco orientale, contando sulla benevolenza dei mondialisti e sul realismo rassegnato della Santa Sede. Quando Wojtyła fu eletto inopinatamente Papa il 16 ottobre del 1978, apparve subito a Mosca che la situazione era completamente cambiata e potenzialmente fuori controllo. Sin dal giorno di quella elezione il ministro per gli affari religiosi dell’URSS Kurojedov definì Giovanni Paolo II pericoloso nella seduta del Comitato Centrale del PCUS. E a ragione. Era un contraccolpo enorme al processo di montante espansione del comunismo nel mondo in quegli anni (Cile, Italia, Francia, Angola, Mozambico, Congo, Mali, Somalia, Yemen del Sud) e che apparentemente sarebbe continuato anche in quelli successivi (Guatemala, Nicaragua, Grenada, Cambogia, Afghanistan), anche attraverso investimenti e accordi militari (Algeria, Libia, Guinea, Nigeria, Gabon, Kenya, Uganda, Egitto, Siria, Iran, India, Cina, Corea del Nord)[69]. Il nuovo Papa era consapevole della fragilità intrinseca del sistema bolscevico, privo di un reale appoggio popolare, per cui non credeva nella necessità della Ostpolitik, anzi la considerava dannosa, perché correva il rischio di far guadagnare tempo al regime comunista, il quale certamente in qualche decade avrebbe potuto estirpare il Cristianesimo dalle coscienze, come aveva acutamente previsto Wyszyńszky.
Ma anche la preoccupazione di Andropov, su tempi più ristretti, risultava fondata. Tra il 1978 e il 1979 l’Università Volante si diffondeva sempre più con l’appoggio del Comitato di difesa dei lavoratori, il KOR, laico e liberale. Il Papa volle andare in Polonia nel 1979 e Gierek glielo permise nonostante l’opposizione accanita di Leonid Breznev (1906-1982; in carica come Segretario del PCUS dal 1964 alla morte). Anche Agostino Casaroli (1914-1998), neo-Segretario di Stato del Papa (1979-1990) e da lui creato cardinale, era contrario al viaggio ritenendolo inutilmente provocatorio. Ma, sebbene egli stesso rimanesse perplesso e sconcertato dal rapporto carismatico tra il Pontefice e i fedeli polacchi, non sapendo cosa avrebbe comportato la loro mobilitazione, il Cardinale dovette riconoscere che la presenza papale in Polonia aveva afforzato l’opposizione come movimento nazional cattolico di popolo e intellettual-liberale di élite. Nonostante le gravi restrizioni mediatiche e nelle comunicazioni imposte dal regime (riprese televisive sul solo volto del Papa e mai zoommate sulle folle oceaniche, i mezzi di trasporto sospesi o proibiti nel raggio di cento/centocinquanta chilometri attorno alle città dove il Pontefice faceva tappa), nonostante il dispiegamento di forze (ottantamila uomini) e di infiltrati, il viaggio fu un trionfo. Sessantadue vescovi, ventiseimila sacerdoti e trentamila religiosi fecero ala a Giovanni Paolo II, senza contare ovviamente milioni di fedeli che si spostarono a piedi anche per tre-quattro giorni di cammino per vederlo. Nel 1980 nacque ufficialmente il sindacato libero Solidarność, in cui entrarono tutte le opposizioni, compreso il KOR: il movimento popolare, nazionale e religioso e quello laico d’élite si erano saldati. I comunisti tentarono di infiltrare Solidarność con il gruppo di Moczulsky (n. 1930), la Confederazione per l’Indipendenza della Polonia, in sigla KPN, sotto il controllo del GRU, ma non riuscirono ad imbrigliare la forza del movimento. Ciò provocò la caduta di Gierek e l’ascesa di un uomo dei servizi segreti, ancor più infeudato ai sovietici, Stanisław Kania (n. 1927, in carica dal 1980 al 1981). Egli tuttavia si oppose alla ramificazione della rete tedesco-orientale che Andropov e Markus Wolf (1923-2006), capo della Hauptverwaltung Aufklarüng (la già menzionata, anche se solo in sigla, HVA) della STASI (1954-1989) ma agli ordini diretti di Mosca, avevano organizzato per imbrigliare la Polonia anche con la forza già dal 1979 e che proprio nel 1980 divenne operativa. Essa aveva basi in sette città e a disposizione forze armate. Andropov avrebbe voluto servirsi della DDR per sottomettere la Polonia all’occorrenza, ma Kania avvisò i russi che se i tedeschi orientali avessero invaso la Polonia, la popolazione e le forze armate si sarebbero opposte. I sovietici si trovarono perciò improvvisamente con le armi spuntate, a meno che non fossero stati disposti a rilanciare con un impegno diretto la posta in gioco. Contemporaneamente, alla Santa Sede retta da un polacco si aprivano innanzi nuovi margini di manovra, molto ampi. Il Papa stesso chiese a Breznev che la Polonia non fosse invasa dal Patto di Varsavia, e in cambio ordinò a Lech Wałesa, proprio nel 1980 diventato leader di Solidarność anche con la tolleranza dei comunisti (che lo consideravano politicamente privo di personalità e dei quali forse era stato un informatore), di sospendere gli scioperi. Apparve evidente che il vero capo del sindacato libero era il Papa, lontano e non controllabile. Pericolosamente non controllabile.
IL SECONDO E IL TERZO LIVELLO
I russi allora presero due decisioni: in politica interna polacca di favorire l’ascesa di Wojcheck Jaruzelsky (1923-2014; in carica dal 1981 al 1989), già ufficiale al servizio dell’Armata Rossa, che avrebbe imposto lo stato d’assedio in Polonia così da non far intervenire il Patto di Varsavia (cosa che avvenne nel dicembre del 1981); in politica estera di neutralizzare il Pontefice, con una Operazione in più fasi denominata appunto “Papa”. Il 3 novembre 1979 Andropov ordinò di raccogliere tutte le informazioni necessarie per avere “un approccio il più possibile vicino al Papa”. Gli infiltrati russi, bulgari, tedesco-orientali e ungheresi in Vaticano furono mobilitati, sotto la regia della STASI e dei suoi alti ufficiali Rolf Wagenbreth e Günther Bohnsack (1939-2013). Questo primato tedesco-orientale dipendeva dal fatto che il Servizio XX/4 della STASI aveva in Vaticano ben diciassette informatori. KGB, GRU, STASI, SB e DS raccolsero tutte le informazioni possibili sul Papa e la Curia.
Infatti, dopo il viaggio in Polonia, il SB aveva cominciato ad infiltrare il Vaticano con l’aiuto del KGB, ma molti agenti erano già nelle sacre mura, secondo una tradizione iniziata già dagli Anni Trenta. Due agenti al Consiglio per gli Affari Pubblici furono allontanati da Casaroli e Achille Silvestrini (n. 1923), che ne erano rispettivamente Prefetto (in quanto Segretario di Stato) e Segretario. E’ considerato dagli studiosi una spia, anche se si è proclamato innocente fino alla morte, Paul Dissemond (1920-2006), vescovo tedesco. All’Osservatore Romano, piazzato da Markus Wolf lavorava per la STASI il benedettino Eugen Brammerz (1915-1987), protetto dall’amicizia di Casaroli, ignaro della doppiezza del tedesco, che avrebbe svolto probabilmente un ruolo spregevole anche nel sequestro Orlandi, sorvegliando la vittima designata.
Brammertz venne reclutato dai servizi sovietici subito dopo la guerra, quando era medico della Luftwaffe internato in un campo di prigionia. Nel 1975 venne inviato dall’Abbazia di St Matthias a Roma, dove si fece assumere dall’Osservatore Romano come traduttore per l’edizione tedesca. Riuscì così a entrare nella Commissione scientifica della Santa Sede in cui sedeva il cardinale Casaroli[70].
Secondo De Villemarest da costui dipendevano quattro agenti di cui due giornalisti: Elmar Bordfeld (n.1941, direttore dell’edizione tedesca dell’Osservatore Romano, per quanto mi risulta attualmente giornalista freelance in Montenegro, che non si è mai riconosciuto colpevole e per il quale la Santa Sede non ha preso nessuna misura punitiva, evidentemente dandogli credito), Hans-Jacok Stehler (1927-2015, dipendente anche di Die Zeit, accusato di spionaggio ma poi assolto), Klaus Gysi (1912-1999, padre di Gregor Gysi del PDS tedesco) e Alfons Waschbüsch (attualmente dipendente dell’Arcidiocesi di Coblenza, assunto in segno di misericordia perché la sua colpevolezza è stata acclarata)[71]. Sempre secondo De Villemarest e Imposimato, particolarmente enigmatici – e anch’essi nella rete supervisionata da Brammerz- furono i coniugi Marco Torretta (1922-?) e Irene Trollerova (1933-2015), cittadina e agente cecoslovacca in origine ma passata col marito agli ordini di Bohnsack per questa particolare impresa. L’ufficiale tedesco-orientale, secondo De Villemarest, si servì di loro per piazzare alcune cimici nell’appartamento del Segretario di Stato, nel corso di alcuni lavori di ristrutturazione, persino dentro una statuetta della Beata Vergine Maria nella sala da pranzo. Questo eccezionale risultato si dovette probabilmente al fatto che i due coniugi godevano della fiducia del cardinale Casaroli, tanto che sembra si spacciassero per suoi nipoti. Questo particolare è stato oggetto di smentite da parte dell’entourage del Cardinale Segretario di Stato e di polemiche e certo i Torretta non erano parenti di Casaroli. La stessa Trollerova ha negato di essere stata la responsabile di quell’atto spionistico, ma ha dovuto ammettere una grande dimestichezza con il Cardinale. Furono i Torretta a parcheggiare un’auto con radiotrasmittente vicino all’Ufficio Postale del Vaticano (forse per le trattative riservate del sequestro Orlandi, di cui diremo). Una situazione del genere può essere compresa solo se immaginiamo che il cardinale Casaroli, nel corso della sua pluridecennale attività d’oltrecortina, di altissima responsabilità e delicatezza, avvenuta peraltro con l’ausilio di uno staff non certo numeroso come quello che ha un ministro degli Esteri di uno Stato laico, si sia trovato ad avere rapporti con persone che o carpirono la sua fiducia o la ebbero parzialmente, abusandone, perché egli li considerò agenti doppi di cui credette di potersi servire all’occorrenza.
Proprio nel 1980 Casaroli ottenne il grande risultato di riunire in Vaticano una delegazione mista coi rappresentati del Governo cecoslovacco, che forse potè persuadere grazie alla mediazione della Trollerova, se davvero fu per lui, come io ipotizzo, un canale di collegamento anche se poi rivelatosi infido. Ingiustamente alcuni hanno lanciato accuse o insinuato sospetti sull’ultimo grande principe della Chiesa del XX sec. Casaroli era senz’altro molto diverso per temperamento e per formazione da Giovanni Paolo II, era convinto che lo scontro con il mondo comunista non potesse pagare e che anzi fosse rischioso (temette un bagno di sangue dopo il primo viaggio papale in Polonia), era più conciliante in campo dottrinale, ma non si può dubitare non solo della sua lealtà alla Chiesa ma nemmeno di quella verso Papa Wojtyła. Fu questi a volerlo come Segretario di Stato, a crearlo Cardinale e a preporlo all’intera amministrazione temporale del Vaticano, quale Presidente della Pontificia Commissione dello Stato della Città del Vaticano (1979-1984), come Incaricato Speciale per il Governo dello Stato, in qualità di Presidente dell’Ufficio dell’Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica (1981-1984) e come Presidente del Consiglio dei Cardinali per lo studio dei problemi economici ed organizzativi della Santa Sede (1981-1990), creato dal Papa dopo lo Scandalo dell’Ambrosiano, quand’era ancora degente in ospedale. Il Cardinale fu la prima vittima di queste spie che operarono alla sua ombra e seguì con grande attenzione tutte le questioni relative all’attentato al Papa e al sequestro Orlandi. Le illazioni fatte su Casaroli per la presunta trascuratezza verso la salute del Papa durante la sua degenza al Gemelli dopo l’attentato, peraltro non verificabili perché la fonte ha voluto rimanere anonima, sono il travisamento della volontà del Cardinale di non allarmare l’opinione pubblica mondiale sulla condizione immediata di salute dell’augusto infermo, alla quale prontamente poi contribuì a procurare cure molto più efficaci. Non vi è nessuna prova che egli coltivasse l’idea di diventare Papa succedendo a Giovanni Paolo II, se questi si fosse spento dopo l’attentato, anzi le probabilità sarebbero state scarse per qualsiasi Segretario di Stato. Anche i contrasti tra Casaroli e Paul Kasimir Marcinkus (1922-2006), presidente dello IOR (1971-1989) e notoriamente protetto dal Pontefice, che di solito si adducono come prova dell’ostilità del Segretario di Stato verso il suo Papa, sono invece perfettamente comprensibili a causa degli obiettivi danni che l’arcivescovo lituano stava facendo alle finanze vaticane, come poi emerse in seguito al crack dell’Ambrosiano, per cui lo stesso Giovanni Paolo II, pur mantenendo su Marcinkus un giudizio diverso da quello del suo Segretario di Stato, dovette dare piena ragione a quest’ultimo sulle misure che da tempo invocava e che dovevano essere prese per arginare lo scandalo e ripianare le perdite. Pure i sospetti sollevati sulle memorie di Casaroli, Il martirio della pazienza, accusate di reticenza sui temi dell’attentato al Papa, sono infondati: il Cardinale esclude dalla sua trattazione (in cui parla della Polonia, della Bulgaria, della Cecoslovacchia, dell’Ungheria e della Jugoslavia) anche la DDR, la Romania e la stessa URSS, in modo completo, mentre la velocità con cui parla dei fatti avvenuti sotto il suo Segretariato di Stato è da addebitarsi ad una comprensibile discrezione, ed è perfettamente ovvio che non parli dell’attentato e dei fatti ad esso connessi, conformemente alla linea politica di riservatezza che lui stesso aveva contribuito a far adottare dal Vaticano sull’argomento. Ne’ ci si poteva ragionevolmente aspettare che in quel libro il diplomatico tracciasse una storia dello spionaggio sovietico in Vaticano, in gran parte, per ovvie ragioni, o riservata o a lui ignota, essendone una delle vittime principali. Analogamente, puntare sulle divergenze sulla gestione dell’affare della Teologia della liberazione, sulla valutazione politica del comunismo e su quella delle tendenze moderniste della Compagnia di Gesù ai tempi del generalato di Pedro Arrupe (1907-1991, in carica dal 1965 al 1983) per insinuare sospetti su Casaroli e pur sussistendo esse tra il Cardinale e il Papa – e il suo braccio destro teologico Joseph Ratzinger ([1927] Benedetto XVI dal 2005 al 2013) – significa non solo misconoscere che esse erano di natura pastorale, ma anche dimenticare o interpretare maliziosamente per principio il fatto che il Segretario di Stato si assoggettò al volere del Pontefice. Rispolverare l’accusa di essere membro di una loggia massonica acquartierata in Vaticano, peraltro attestata solo da elenchi mai visti da alcuno e pubblicati su testate spesso ostili alla Curia Romana, appare dal canto suo una trovata poco convincente per persuadere della doppiezza del Cardinale. A Casaroli, peraltro, Ağca ha rivolto un’accusa volutamente delirante perché depistante ma significativa: egli sarebbe stato il mandante dell’attentato al Papa, col consenso di quest’ultimo, non per ucciderlo ma solo per ferirlo, onde screditare il blocco comunista. Questa accusa, se non dovesse di per sé già apparire incredibile a tutti, almeno risulterà infondata per la gran mole di riscontri che hanno accompagnato le indagini sull’Est quale ambiente da cui scaturì il progettato papicidio. Il killer turco sa bene, in effetti, che proprio il suo delitto causò una crisi per il blocco comunista e favorì la politica papale, anche se molto diversa da quella di Casaroli, tanto che il crollo dell’URSS sembrò dare ragione a chi, come il Segretario di Stato, aveva propugnato la pazienza e i piccoli passi in un’epoca in cui il Papato aspettava una personalità più dinamica di quella di Montini. Se questa analisi, prospettata da alcuni media dopo la dissoluzione del blocco comunista, è storicamente inesatta, è però vero che proprio nei varchi aperti dai magli di Giovanni Paolo II si inserì via via la mediazione e la diplomazia di Casaroli e della sua scuola, trasformando in vantaggi concreti per la Chiesa gli effetti del crollo del Muro[72].
Il cerimoniere polacco Boleslaw Krawczyk (nato nel 1953, poi allontanato dal Vaticano probabilmente perché sospettato di essere coinvolto in attività poco chiare nel 1996[73]) era un altro nome importante tra gli infiltrati. Accusato di essere una spia fu anche il domenicano polacco Konrad Hejmo (n.1936) amico di Stanislaw Dziwisz, già segretario privato di Giovanni Paolo II e attualmente cardinale arcivescovo di Cracovia[74]. Fu forse Hejmo che piazzò una cimice nella sala da pranzo del Papa. Va comunque detto che il domenicano si è sempre dichiarato innocente e al massimo inconsapevole trasmettitore di informazioni a persone delle quali si fidava, ma di cui non ha voluto rivelare l’identità[75]. In genere l’ingresso di agenti polacchi in Vaticano fu facilitato proprio dall’ascesa al Soglio di un polacco. Infine citiamo l’ufficiale delle Guardie Svizzere Aloïs Estermann, l’agente più importante di quelli che lavoravano per la STASI. Ma non sono mai stati conosciuti tutti i nomi delle spie orientali[76]. Che forse ancora oggi custodiscono i loro segreti e magari lavorano per vecchi e nuovi padroni.
Dagli archivi STASI è emerso che Estermann fu sempre un suo agente. In realtà era il KGB a mettere gli occhi su potenziali reclute della Guardia Svizzera tramite la STASI, sin dal 1967, per ordine di Andropov. Gli informatori che l’HVA aveva nelle scuole elvetiche segnalarono a Horst Hofler, che ne era il responsabile, il giovane Aloïs Estermann che già a ventitrè anni era dedito al gioco e alla speculazione. Hofler e Wolff gli diedero del denaro e lo reclutarono, gli fecero imparare quattro lingue e lo fecero entrare nella Guardia Svizzera nel 1979 – dopo un periodo di prova nel 1977- con la raccomandazione di Brammerz a Casaroli[77]. La presenza di spie in Vaticano è una variabile incognita che influenza ogni equazione interpretativa di quanto andiamo raccontando. Esse ci furono ma vennero protette, anche perché quando si scoprì che c’erano state, i danni fatti erano tali da rendere più prudente tacere. La Santa Sede infatti ha come controparte gli Stati, ma è in essi che vivono i fedeli di cui deve occuparsi prioritariamente. Essi vanno protetti dalle conseguenze di crisi diplomatiche innescate da rivelazioni esplosive. Infatti molti Paesi un tempo comunisti sono retti ancora da quadri formati durante la dittatura e non esiterebbero a mettere in discussione i diritti dei cattolici nei loro territori se certe cose imbarazzanti venissero fuori.
Una prima fase dell’azione voluta da Andropov e coordinata dall’HVA fu denominata “Operazione Pagoda”, essendo volta a screditare moralmente il Pontefice con finti trascorsi di dubbia natura. Ma essa era solo il preambolo di una rappresentazione ben più macabra. Infatti Alexandre de Marenches (1921-1995), capo dei servizi segreti francesi (1970-1981), in rogatoria internazionale per l’inchiesta sull’attentato al Papa, dichiarò che sin dal 1979 i russi, al più alto livello, avevano deciso di uccidere il Papa e che questi era stato informato nell’aprile del 1980. La notizia gli fu passata dal CIRPO di Pierre de Villemarest (1922-2008), co-autore di una delle fonti principali di questo studio[78]. I cardinali Casaroli, Achille Silvestrini ed Eduardo Martinez Somalo (n. 1927), all’epoca dei fatti rispettivamente, come dicevamo, Segretario di Stato di Sua Santità, Segretario per i Rapporti con gli Stati e Sostituto della Segreteria di Stato per gli Affari Generali, negarono di aver mai ricevuto alcunchè[79], ma la notizia arrivò certamente al Papa e vi è motivo di credere che i tre prelati al vertice della Segreteria di Stato ne fossero a conoscenza. La deposizione dei porporati potrebbe leggersi come una restrizione mentale, perché fu la Segreteria di Stato a non sapere nulla, non il Vaticano, in quanto la notizia giunse a monsignor Luigi Poggi (1917-2010), poi cardinale, all’epoca responsabile del servizio di informazioni della Santa Sede, attraverso la Curia Generalizia dei Premostratensi, a cui i francesi si erano rivolti. Si è supposto che i francesi informassero anche la CIA, ma senza riscontri. Monsignor Poggi informò del pericolo l’Ufficio Centrale di Vigilanza (poi Corpo di Vigilanza e infine Corpo di Gendarmeria), retto dal 1975 al 2006 da Camillo Cibin. La ragione della discrezione stava forse nella fonte e nella via scelta per la comunicazione della notizia al Vaticano, la prima presumibilmente il servizio segreto rumeno (essendo il governo di Bucarest quello sempre con maggior autonomia di giudizio tra i comunisti e quindi preoccupato per le conseguenze del possibile assassinio del Papa), la seconda quel servizio di informazioni della Santa Sede la cui esistenza è, per ovvie ragioni, più che umbratile[80]. In effetti è difficile determinare anche l’identità di questo servizio. Probabilmente si tratta del Sodalitium Planum, la cosiddetta Sapinière (nata contro il Modernismo, abolita e poi ricostituita poco prima della fondazione dello Stato della Città del Vaticano) e non della sezione informativa della Gendarmeria, perché se fosse questa, l’informazione sarebbe stata data da Cibin a Poggi e non il contrario. Eric Frattini, a proposito del servizio segreto vaticano, preferisce parlare di una non ben definita “Entità”, ma su questo non ho elementi per pronunciarmi in questa sede.
La risoluzione definitiva dei servizi segreti uniti dell’URSS, il GRU e il KGB, per l’assassinio di Giovanni Paolo II arrivò nel settembre 1980, col voto unanime favorevole dei presenti, compreso quello del segretario aggiunto del Politburo alla supervisione degli Organi (com’erano chiamati i servizi), Mikhail Serghjevitch Gorbacev (n. 1931). Quattro sezioni della STASI furono incaricate di proseguire i preparativi, sempre sotto Bohnsack. Il ministro della difesa russo Dimitri Feodorovitch Ustinov (1908-1984) suggerì di agire a Roma, dove eventualmente i molti agenti dei paesi satelliti e i molti contatti con alcuni ambienti della massoneria e con le mafie avrebbero facilitato il rinvenimento di capri espiatori per realizzare depistaggi. L’HVA accettò il suggerimento, prendendo in considerazione l’ipotesi anche di realizzare depistaggi che portassero solo apparentemente verso Est ma senza prove, per cui le indagini si sarebbero concluse con un nulla di fatto e le responsabilità sovietiche e tedesco-orientali sarebbero rimaste nell’ombra. Come in effetti avvenne, per cui se il comunismo non fosse mai caduto noi non avremmo conosciuto altro che la Pista bulgara, poi rivelatasi impraticabile.
Nel novembre 1980 avvenne una riunione segreta dei ministri della Difesa del Patto di Varsavia a Bucarest autorizzò l’attentato in modo definitivo. Era l’atto crepuscolare del dispotismo brezneviano, che però trovò consenzienti tutti i gerontocrati delle democrazie popolari, i più con riluttanza (particolarmente i rumeni, ma presumibilmente anche ungheresi, polacchi e cecoslovacchi, sia pure ognuno per ragioni diffenti), alcuni (i tedesco-orientali e i bulgari) con convinzione.
Tuttavia fino al febbraio 1981 Anatoly Adamishin (n. 1934), capo del I Dipartimento europeo del Ministero degli Esteri russo (e poi ambasciatore in Italia tra il 1990 e il 1992, in anni ancora cruciali per il definitivo depistaggio delle inchieste sull’attentato al Papa), si recò più volte a Roma per convincere Giovanni Paolo II a persuadere Solidarność a riconoscere il primato del POUP in Polonia in cambio del diritto all’esistenza, ma il Pontefice non accettò. Forse i sovietici non volevano precludersi la possibilità di una soluzione non traumatica di una crisi che però dovevano superare, essendo vitale per il blocco comunista. Il diniego forte e deciso del Romano Pontefice fece si che in campo rimanesse solo l’opzione risolutiva del delitto politico[81]. Però vi era anche un altro potenziale ostacolo da rimuovere.
INFEZIONE
L’Operazione Papa voluta da Andropov constava di due parti, la prima denominata “Pagoda”, di cui ho detto, la seconda “Infezione”, che però risulta ancora sconosciuta. In ogni caso prima dell’attentato a Giovanni Paolo II avvenne qualcosa che sicuramente lo rendeva più facile, e che quindi potrebbe essere stato preventivato proprio in “Infezione”. Si tratta della decapitazione dei servizi segreti e del Governo italiani, in seguito allo Scandalo P2. Sicuramente era interesse dei sovietici che la Repubblica Italiana, legata a filo doppio al Vaticano per la pluridecennale presenza al potere della Democrazia Cristiana, non potesse ostacolare l’attentato a Giovanni Paolo II. E’ un dato di fatto che lo Scandalo P2 azzerò i vertici dei servizi segreti e devastò la politica nazionale e i ceti dirigenti, peraltro favorendo i quadri legati al PCI e a quei settori politici ben disposti verso di esso. Non possiamo dimostrare che lo Scandalo P2 sia stato orchestrato anche in vista di favorire l’esecuzione dell’attentato al Papa, ma possiamo asserire che esso sia servito non poco a destabilizzare l’Occidente da parte dei sovietici, in modo intenzionale[82]. In tal senso possiamo segnalare alcuni elementi indiziari. Nel gennaio 1981, quando Licio Gelli (1919-2015), venerabile maestro della P2, presenziava all’insediamento presidenziale di Ronald Reagan ([1911] 1981-1988 [2004]), il CIRPO di Danièle e Pierre De Villemarest ricevette una segnalazione qualificata da parte di una fonte di cui non volle mai rivelare il nome, che preannunziava un grande scandalo che avrebbe riguardato la Loggia Propaganda Massonica numero 2, compromettendo moltissime alte personalità e favorendo l’avanzata delle forze di sinistra in tutto l’Occidente[83]. La cosa, com’è notorio, si verificò.
La notizia era contenuta nel numero di gennaio del 1981 della Lettre d’Information che quel centro di ricerca di altissima specializzazione pubblicava periodicamente. Essa conteneva fatti quasi completamente sconosciuti in Italia relativi alla vita di Gelli: nel 1944, quando era miliziano della Repubblica Sociale Italiana, questi si era preparato una via di fuga tra le macerie del fascismo mediante una delle sue sorelle, partigiana comunista. Costei faceva parte di una cellula combattente diretta da un’avanguardia dei servizi speciali sovietici infiltrata in Austria. Questi ultimi ordinarono a Gelli di avvicinarsi ai servizi militari alleati, l’OSS, e di iniziare quindi un triplo gioco tra fascisti, anglo-americani e sovietici. Dopo la Guerra, nel 1949, Gelli potè gestire una libreria a Pistoia che era il punto di incontro degli agenti del GRU, sebbene egli fosse probabilmente già in rapporti stabili con la CIA. Scoperto, nel 1950 emigrò in Argentina dove venne accolto favorevolmente dal presidente Juan Domingo Peròn (1895-1974, in carica per la prima volta dal 1946 al 1955) su consiglio dei nazisti fuggiti in quel Paese ma oramai al soldo dei Russi. Tornato in Italia nel 1953, divenne concessionario per Pistoia della Remington Rand degli USA e nel 1956 divenne direttore della Permaflex, per conto della quale potè fare lucrosi affari anche in Romania. Entrato nella massoneria nel 1964, continuò le sue relazioni pericolose con l’Est, anche quando, nel 1966, sotto il gran magistero di Giordano Gamberini (1915-2003, in carica dal 1961 al 1970) divenne adepto della Loggia Propaganda numero Due, e nel 1971, sotto quello di Lino Salvini (1925-1982, in carica dal 1970 al 1978) suo segretario organizzativo e, infine, suo maestro venerabile nel 1975[84]. Stando a questa ricostruzione, la carriera del Rasputin italiano era avvenuta sotto le bandiere dell’Oltranzismo atlantico ma per suggerimento di quello sovietico.
Tornando allo Scandalo P2, nelle liste rinvenute a Castiglion Fibocchi il 17 marzo 1981, nel quadro delle perquisizioni ordinate nell’ambito dell’inchiesta sul crack Sindona da Guido Viola (n. 1942), Giuliano Turone (n. 1940) e Gherardo Colombo (n. 1946), figuravano novecentosessantadue nomi, tra i quali spiccavano quelli di alti funzionari dei servizi segreti, costretti di lì a poco a dimettersi. Le liste erano contenute in una valigetta che faceva bella mostra di sé negli uffici della GIO.LE., la ditta di Gelli. Lo scandalo travolse lo stesso Governo (in carica dall’ottobre 1980 al giugno 1981) presieduto da Arnaldo Forlani (n. 1925) un pentapartito che sarebbe stato ricomposto da Giovanni Spadolini (1925-1994, in carica dal 1981 al 1982), il primo Presidente del Consiglio non democristiano del Dopoguerra. La lista tuttavia non era completa. Gelli trasferì gli elenchi veri ed esaurienti degli iscritti alla Loggia a Montevideo, dove provvide a distruggerli. Ci si chiese se la valigetta fosse stata messa in evidenza proprio per attirare l’attenzione degli inquirenti. E soprattutto se fosse servita a distogliere la loro indagine da altre cartelle, contrassegnate in modo ingannevole negli archivi della ditta, che invece, stando a quanto ha raccontato Gelli in diverse occasioni – sia pure con divergenza di particolari – contenevano l’elenco completo dei nominativi dei massoni[85]. Per alcuni, Gelli predispose quelle liste preventivamente informato di quanto stava per accadere o almeno per prudenza; per altri ancora, addirittura per compromettere alcune persone e salvarne altre; in questa seconda ipotesi egli avrebbe agito per conto di coloro che avevano messo la magistratura italiana, senza che essa se ne accorgesse, su quella pista, ossia i sovietici[86].
Personalmente non ritengo ci siano elementi tanto chiari da permettere di abbracciare una qualsiasi di queste ipotesi, ma i dati obiettivi sono molteplici. Gelli aveva da aspettarsi che l’indagine lambisse la P2 perché Michele Sindona (1920-1986) ne era un affiliato e lo scandalo degli adepti della Loggia fu effettivamente circoscritto dal rinvenimento solo parziale delle liste degli affiliati. Delle relazioni strutturate tra Gelli e il KGB ci furono e sono documentate, non tanto in ordine a un famoso rapporto del controspionaggio di Pistoia del 1950 (che accusava il futuro maestro venerabile di essere un agente doppio), e che sembra essere stato smentito da altri rapporti successivi, ma per una cooperazione ad altro livello tra P2 e sovietici per il controllo dell’ASALA, l’organizzazione terroristica armena, tra il 1970 e il 1971. Nell’ambito di tale cooperazione, nella quale per debito di gratitudine faceva gli interessi sovietici, Gelli tirò le fila di un vasto complotto tra terrorismo internazionale eterodiretto dall’URSS (tramite Alexander Alexeevitch Soldatov [1915-1999], che col nome in codice di “Francesco” svolse questa funzione in quanto ambasciatore a Cuba dal 1967 al 1970, rettore del MIGMO dal 1971 al 1974 e ambasciatore in Libano dal 1974 al 1986, e che soggiornò per alcuni periodi in Italia tra il 1970 e il 1971), mafia e massoneria, senza che queste ultime due si rendessero veramente e pienamente conto degli scopi per cui venivano usate. In questo contesto entrerebbero, sia pure in modo non chiaro, alcuni celebri omicidi della storia dell’Italia repubblicana, da quello di Pier Santi Mattarella (1935-1980) a quello di Guido Rossa (1934-1979). Il ricco dossier 876349/07, non il solo dedicato a Gelli negli archivi del KGB e vertente proprio sulla questione dell’ASALA, fu edito sull’importante quotidiano dell’Azerbaigian, Zarkalo, nel 1994, a cui era stato passato dal presidente Heydar Aliev ([1923] 1993-2003), e servì a dissuadere Mosca dal tentare di estendere la sua influenza sullo Stato caucasico. Aliev infatti era stato un agente sovietico di alto livello e conosceva molti segreti del vecchio regime, che potevano destabilizzare anche la nuova Russia e screditarla a livello internazionale[87].
Tali rapporti peraltro rendono più credibili quelli tradizionalmente noti in Italia, e che Mino Pecorelli (1928-1979) avrebbe voluto rammentare al suo selezionato pubblico, ristampando sul suo Osservatorio Politico il rapporto di Pistoia del 1950, venendo però fermato dalla mano dei suoi misteriosi assassini il 20 marzo 1979[88].
Alla luce di ciò si può asserire che in qualche modo Gelli, consenziente o meno, sia stato coinvolto in una divulgazione parziale delle liste con gli obiettivi politici suindicati, che in ogni caso esistettero e furono raggiunti[89]. Con acume, gli arcivescovi Paul Kasimir Marcinkus e Achille Silvestrini lamentarono a Francesco Pazienza che lo scandalo P2 avrebbe potuto impedire ai servizi segreti italiani di collaborare alle indagini sull’attentato al Pontefice[90]. Lo stesso Gelli, continuando fino alla morte a sventolare la bandiera minacciosa delle liste incomplete della P2, di fatto favorì sempre la campagna di chi considerava lui e la sua loggia come una minaccia per la democrazia, per cui egli, che ebbe intelligenza col nemico a titolo personale e non per tutta l’organizzazione massonica, si comportò sempre come “amico del giaguaro”.
Sebbene l’attentato a Giovanni Paolo II non si sia compiuto con la sua morte, il processo di normalizzazione in Polonia andò avanti. Jaruzelsky, già primo ministro dal mese di febbraio del 1981, nell’ottobre dello stesso anno divenne Segretario del POUP e il 13 dicembre instaurò la legge marziale realizzando un progetto pronto da almeno tre mesi: la difesa dell’ordine pubblico fu affidata al Consiglio militare di salvezza nazionale (WRON), le garanzie costituzionali furono sospese, il Paese venne isolato dal resto del mondo e i quadri sindacali con gli intellettuali dissidenti furono decimati dagli arresti. Negli otto giorni successivi alla proclamazione dello stato d’assedio diecimila polacchi furono arrestati; settecento persone si diedero alla latitanza; dodici radio clandestine e trecentosettanta stamperie illegali furono chiuse. Le donne dei prigionieri presero allora il loro posto in Solidarność, così che il governo si sentì in dovere di infliggere anche ad esse maltrattamenti e violenze. La Chiesa fu presa di petto con l’Operazione Raven, che prevedeva la denigrazione a mezzo stampa dei sacerdoti impegnati politicamente. Cinquantadue vescovi polacchi furono avvicinati dai servizi segreti, ma solo due o tre collaborarono, peraltro dando informazioni del tutto irrilevanti. Giovanni Paolo II non poteva influire direttamente sulla situazione polacca e l’aiuto della CIA, che gli era stato promesso da William Casey (1913-1987), direttore dell’agenzia americana (1981-1987), venne vanificato dalla microspia presente nella stanza da pranzo del Papa, che trasmise a Varsavia e a Mosca le informazioni necessarie per individuare il principale agente americano in Polonia, Leon Dubicki (1915-1998), a stento esfiltrato dagli USA e condotto oltreoceano, dove pure avrebbe subito molti attentati[91]. Con questi risultati, Breznev e Andropov poterono accantonare il piano di invasione che, come dicevo, non avevano nessuna intenzione di attuare. Wałesa, che a gennaio del 1981 aveva siglato accordi con Kania e nel febbraio con Jaruzelsky, e che ancora nel settembre-ottobre dello stesso anno aveva celebrato il Primo Congresso di Solidarność venendo rieletto presidente e chiedendo l’autogestione delle imprese (subito dopo concessa), le libere elezioni e appellandosi ai lavoratori dei Paesi dell’Est perché costituissero sindacati indipendenti, venne arrestato e rimase in carcere fino al novembre 1982. Le concessioni fatte furono ritirate dal Governo militar comunista.
Analogamente proseguì l’Operazione Papa. Dopo l’attentato, Andropov e Piotr Ivanovitch Ivaschutin (1909-2002)[92], direttore del GRU (1969-1983), decisero di continuare la denigrazione del Papa, servendosi dei loro diecimila infiltrati e duecentosessantuno agenti in Italia[93]. Alla STASI, la sera stessa del 13 maggio 1981, Mosca ordinò di proseguire l’Operazione Papa con omicidi, sequestri, attentati e depistaggi[94]. Dal canto suo, nel giugno 1981, il Papa ricevette, ancora convalescente, un rapporto dei servizi di sicurezza della Santa Sede che gli spiegava chi c’era dietro il suo attentato. Lui stesso aveva sollecitato l’inchiesta. Il testo elencava i luoghi dell’addestramento di Ağca in Medio Oriente e nei Paesi dell’Est, indicando anche l’Ungheria come luogo dove egli soggiornò, anche se nella ricostruzione corrente non sappiamo quando collocare questo periodo magiaro, forse anch’esso nei mesi in cui comunemente si pensa che il lupo grigio stette soltanto in Bulgaria. Il rapporto informava inoltre il Pontefice che il Patto di Varsavia stesso si era riunito, come dicevamo, nel novembre del 1980, per congiurare contro di lui. In ragione di ciò, dal Vaticano stesso furono organizzate fughe di notizie per cercare di influire sulla stampa e indirizzarla verso la verità, ma esse non ebbero il successo sperato, per la reticenza dei grandi media, italiani ed europei, a tirare in ballo i sovietici[95].
Si può asserire che la preparazione all’attentato al Papa si sia intrecciata anche con le oscure vicende che portarono al crack dell’Ambrosiano, magari sempre nel quadro dell’“Infezione”[96]. Alexander Alexeevitch Soldatov, membro del Consiglio del Ministero per gli affari esteri dell’URSS, già nel 1971 chiese a Gelli delucidazioni sulla strana connivenza tra la Banca d’Italia, il Bilderberg, lo IOR e l’Ambrosiano – con le sue consociate off shore in Lussemburgo, Svizzera, Bahamas, con l’Overseas Nassau Bank, con le dodici consociate panamensi – e sulle erogazioni a pioggia al Vaticano e ai partiti politici italiani, e il maestro venerabile della P2 gli garantì che aveva tutto sotto controllo[97]. In effetti, dal 1980 Roberto Calvi (1920-1982) era diventato il finanziatore occulto di Solidarność, su richiesta di Marcinkus ed evidentemente per compiacere Giovanni Paolo II. Le dazioni dell’Ambrosiano arrivarono a venti milioni di dollari fino alla fine del 1981. Fu ancora Licio Gelli (ad un tempo agente doppio e mandarino dell’equilibrio di Yalta) ad informare di questo il generale Vitaly Pavlov (1914-2005), capo del KGB a Varsavia, ma non è da escludere che i sovietici sapessero da prima del sostegno finanziario erogato dal banchiere cattolico e massone laddove lo IOR non poteva giungere, grazie agli infiltrati del SB nel sindacato libero, che sembra siano stati un quarto degli iscritti. Le vicende che portarono alla caduta del “Banchiere di Dio” hanno in effetti una singolare coincidenza cronologica con quelle relative al tentato papicidio: travolto anche lui dallo Scandalo P2, è arrestato il 21 maggio 1981 (nove giorni dopo l’attentato), poi posto in libertà provvisoria, diventa latitante il 9 giugno 1982 e viene “suicidato” a Londra il 18 giugno 1982, tredici mesi dopo i fatti di Piazza San Pietro. Non è illogico pensare che l’URSS volesse colpire il Vaticano anche nel portafogli. E non è casuale che le due cose avvenissero contemporaneamente e diedero un bel da fare a un Wojtyła ancora convalescente[98], gettando un’ombra sul suo papato. Molti infatti avrebbero attribuito allo IOR la responsabilità del crollo della Banca di Calvi, a cominciare da Licio Gelli che sempre palleggiò col Vaticano la colpa di concorso in bancarotta[99], venendo però alla fine condannato lui[100]. L’“Infezione” sarebbe stata così completa. E questa chiave di lettura permetterebbe di capire come mai, nonostante tanti processi, nessuna spiegazione plausibile e provata è stata rinvenuta del crack dell’Ambrosiano, in quanto nessuno mai ha guardato nella direzione giusta.
Sull’argomento sono necessarie alcune riflessioni. Anzitutto l’attribuzione allo IOR della responsabilità del crack dell’Ambrosiano non solo non ha mai avuto riscontri giudiziari, ma è priva di senso. Infatti qualsiasi dazione dell’Ambrosiano a Solidarność era da considerarsi in perdita, perché non avrebbe mai potuto essere restituita, come tutte le elargizioni politiche internazionali illegali nel Paese dove avvengono. Al massimo, potevano essere soldi dello IOR, ma in tal caso sarebbe stata quella fiduciaria, e non l’Ambrosiano, ad andare in perdita e in fallimento, in quanto il secondo sarebbe stato un mero tramite. Se dunque Calvi elargì certe somme al sindacato polacco, vuol dire che poteva sborsarle senza correre rischi. Invece il suo sistema bancario, che era sano nella parte centrale, entrò improvvisamente in crisi proprio in quelle consociate di cui si serviva per le sue operazioni politiche, senza che Calvi se ne avvedesse in tempo, perché qualcuno volle disarticolare il sistema e lanciare un severo monito al suo artefice. Analogamente, se pure Licio Gelli, condannato nel 1998 per concorso in bancarotta fraudolenta, spinse Calvi ad affari disastrosi che ne causarono la rovina, è anche ovvio immaginare che il signore dell’Ambrosiano, per quanto soggiogato dal maestro venerabile, non fosse tanto sprovveduto da rovinarsi da solo, e che lo stesso Gelli non volesse mandare allo sbaraglio il suo miglior banchiere, a meno che non fosse spinto da qualcuno.
Inoltre, se Calvi tentò di comprarsi la sua stessa Banca, non lo fece certo dilapidandone il patrimonio, così da acquistare un contenitore vuoto. Se dunque le tre ipotesi classiche sull’origine del crack dell’Ambrosiano vengono meno, non si possono non considerare nuove piste. Peraltro, né il Vaticano, né Gelli, una volta scoppiato lo scandalo dell’Ambrosiano, potevano avere interesse ad ammazzare Calvi, perché i sospetti sarebbero ricaduti su di loro. Lo stesso Gelli fu assolto da questa accusa infamante nel 2008[101]. In quanto al delitto di mafia, ipotizzato come conseguenza di un dissennato investimento dello stesso Calvi, magari a copertura del finanziamento politico di Solidarność o dei Contras, se pure dovesse sembrare sensato a qualcuno che l’Ambrosiano dovesse prestare, a dei soggetti politici incapaci di restituirlo, il denaro di Cosa Nostra, peraltro senza che questa fosse consenziente, bisognerebbe sempre spiegarsi perché Pippo Calò (n. 1931), membro della Cupola, avrebbe dovuto far ammazzare Calvi a Londra e non a Roma, come lui stesso fece notare in tribunale. Le stesse modalità del “suicidio” di Calvi sono troppo intrise di rituale massonico per essere genuine. Tutto può concorrere ad acclarare una pista completamente nuova, e quella del KGB potrebbe essere la più interessante. Chi volle la morte del banchiere sapeva che nessuno avrebbe potuto rintracciarlo, perché il suo nome non era mai emerso in relazione alla sua vittima. Le lettere di Calvi, poi pubblicate nel 1987 (l’anno del terzo viaggio papale nella Polonia comunista), contribuiscono a rafforzare questa tesi: egli, scrivendo al cardinale Pietro Palazzini (1912-2000) e denunciando le presunte manovre con cui Casaroli e Silvestrini volevano impedire a Marcinkus di salvarlo anche testimoniando in tribunale, di fatto acclarò l’ipotesi che le dazioni dell’Ambrosiano fossero pericolose per l’Ostpolitik vaticana e che la Santa Sede non potesse permettersi il lusso di dichiarare pubblicamente di averle ordinate, senza scatenare un tremendo caso diplomatico[102]. Casaroli poi, morto Calvi, preferì che lo IOR pagasse anche cifre che non erano di sua spettanza nel crack dell’Ambrosiano, per tirarsi fuori dallo scandalo, nonostante le famose lettere di patronage concesse da Marcinkus a Calvi fossero bilanciate da una dichiarazione dello stesso Calvi che attestavano che la fiduciaria del Torrione di Niccolò V non aveva nessuna cointeressenza con le consociate panamensi, il cui crollo aveva trascinato con sé tutto l’impero finanziario milanese. Ciò attesta che per la Santa Sede il nocciolo non era economico ma politico, e che Calvi era in balia di un potere che essa non poteva controllare.
In ragione di ciò, quando nel novembre 1982 Breznev morì, se non aveva eliminato del tutto la minaccia, aveva potuto assestare colpi feroci all’avversario cattolico. Toccò ad Andropov, succedutogli alla segreteria del PCUS, prendere atto che essi non erano sufficienti e proseguire nella lotta senza quartiere contro il Papa polacco.
INTRIGO INTERNAZIONALE
Molti e numerosi furono, da questo momento, gli ostacoli posti sulla Pista bulgara, per intorbidare talmente le acque così che nessuno potesse vedere ciò che giaceva sul loro fondale. Sullo sfondo c’era un quadro politico internazionale complesso e fosco.
Nell’agosto 1981 Paolo Farsetti (1948-1991) e Gabriella Trevisin (n. 1953) furono arrestati in Bulgaria con l’accusa di spionaggio, sebbene innocenti, evidentemente a scopo intimidatorio nei confronti dell’Italia[103]. Il SISMI del generale Giuseppe Santovito (1918-1984, in carica dal 1978 al 1981) non fece nulla per aiutarli, anzi non smentì, dinanzi a formale richiesta bulgara, che i due incarcerati fossero dei suoi agenti. Ciò segnò la sorte dei due poveri fidanzati. Paolo Dinucci (n. 1958)[104], all’epoca carabiniere in servizio all’ambasciata italiana a Sofia come responsabile della sicurezza, asserì che l’intero caso era stato montato in Italia per condizionare psicologicamente le istituzioni onde contenere le indagini sulla Pista bulgara[105]. I due italiani furono rilasciati nel 1984 dopo molte torture e la condanna. Se Santovito, piduista (che pure aveva confidato a Casaroli la sua convinzione che la Pista bulgara fosse vera), seguì la faccenda, su di lui poté aver influito Gelli, magari col pretesto di garantire l’equilibrio internazionale da una crisi di incalcolabile violenza che poteva derivare dalla Pista bulgara, e col secondo fine di aiutare i sovietici. Questa chiave di lettura potrebbe essere applicata anche all’intervento del SISMI per neutralizzare la testimonianza di Turkoglu, nel quadro di una “convergenza parallela” tra il nostro servizio e la rete degli agenti KGB, di cui abbiamo parlato, e che potrebbe aver avuto Gelli quale burattinaio occulto. Bisogna però almeno ipotizzare che anche i servizi americani, ai quali quelli italiani sono sempre stati legati, conoscessero e approvassero queste iniziative atte a impedire o almeno contenere le conseguenze devastanti della scoperta della verità sull’attentato al Papa.
A questo proposito, va puntualizzato qualcosa sul ruolo della CIA nelle indagini sull’attentato. William Casey seppe presto che dietro di esso vi erano bulgari, russi e tedeschi orientali; ne fu talmente scosso – paventandone le conseguenze se si fosse saputo – che decise di puntare tutto sull’insabbiamento o quanto meno sulla diffusione di dubbi. La CIA era talmente ben informata, da sapere del ruolo chiave del GRU nell’attentato[106]. Colui che monitorò attentamente lo sviluppo delle indagini sull’argomento fu Paul Heinze (1924-2011), capo della CIA in Turchia agli esordi della carriera di Ağca. La scrittrice Claire Sterling (1919-1995), che proprio nel 1981 iniziò una documentatissima attività di pubblicista sulla Pista bulgara[107] e che pure poté servire come strumento di pressione mediatica contro i sovietici da parte dell’Amministrazione Reagan, ad un certo punto si ritrovò isolata negli USA, in quanto intralciava la politica minimizzatrice del suo governo, mentre alcuni importanti nomi della cultura liberal americana biasimarono i suoi studi[108].
Il 28 settembre 1981 ad Ankara una delegazione del SISMI incontrò dei rappresentanti del controspionaggio militare e del servizio informazioni turchi, il MIT, constatando una netta divergenza di valutazione tra i due gruppi: i primi inclini ad ammettere, gli altri a negare il complotto internazionale. Probabilmente la Turchia era divisa tra due fazioni che, avendo tenuto contatti e atteggiamenti diversi nell’ambito della liason tra Lupi Grigi, mafia turca, DS e KGB, ora non sapevano bene cosa fare. Il MIT avrebbe chiesto poi colloqui con il killer, dopo che questi ebbe cominciato a parlare, ma il giudice istruttore Martella li negò per ragioni di sicurezza[109].
Come dicevamo, nel dicembre del 1981 Jaruzelsky aveva proclamato lo stato d’assedio in Polonia, che sarebbe stato in vigore fino al luglio 1983. E’ su questo sfondo polacco che si stagliano i depistaggi e le manovre contro l’approfondimento della Pista bulgara. Uno sfondo su cui Giovanni Paolo II continuava a proiettare la sua ombra maestosa. Nel febbraio 1982, quattro mesi prima dell’omicidio di Calvi, il Papa ribadì il suo sostegno a Solidarność nel corso di una udienza al nuovo primate polacco, il cardinale Jozef Glemp (1929-2013), che invece era rimasto in silenzio dinanzi alle violenze comuniste contro il suo popolo perché privo della tempra di Wyszyńszky.
Il mese successivo Jaruzelsky ottenne il sostegno economico e politico di Mosca. Questa evidentemente si assunse l’onere anche di neutralizzare la minaccia pontificia. Era una minaccia che, beninteso, infastidiva anche molti in Occidente e alcuni settori dell’opposizione polacca. Per esempio il Council of Foreign Relations degli USA pensava che la Polonia dovesse accontentarsi di alcune riforme, ritenendo irrealizzabile il superamento del comunismo e poco affidabile chi, come il Papa, perseguiva questo obiettivo. La stessa opinione era comune nel KOR, in certa stampa di opposizione polacca e in alcune correnti del POUP. Da Jaruzelsky gli USA si aspettavano quelle riforme economiche che li facessero rientrare in possesso del prestito di dieci miliardi di dollari trattato dal febbraio 1981, ancor prima dell’attentato al Papa e della proclamazione dello stato d’assedio in Polonia, che per il Wall Street Journal del 21 dicembre di quell’anno era la miglior garanzia per i banchieri occidentali della restituzione dei loro crediti. Andropov e Jaruzelsky, che in cambio di riforme in Polonia si attendevano altri quindici miliardi di dollari per l’URSS e la Polonia, potevano procedere tranquilli contro la Pista Bulgara e Solidarność, in nome della realpolitik[110].
In questo contesto non meraviglia che il 28 aprile 1997, in ambito di rogatoria internazionale nella Terza inchiesta sull’attentato al Papa, Bohnsack dichiarò che i bulgari (evidentemente autorizzati dall’URSS), sin dal 28 agosto 1982, dopo che Ağca aveva iniziato a parlare nel maggio, avevano chiesto alla STASI stessa di coinvolgere la CIA e travisare l’inchiesta di Martella, nell’ambito della summenzionata Operazione Papa[111]. La richiesta partì dal Politburo bulgaro.
Successivamente nell’ottobre 1982 la Dieta polacca decretò lo scioglimento di Solidarność, oramai orfano delle sovvenzioni dell’Ambrosiano. Dopo questa prova di forza, il governo polacco liberò Lech Wałesa, dopo undici mesi di internamento. Il sindacalista era stato irretito dal gioco sovietico, indotto a trattative, registrato mentre colloquiava con i suoi interlocutori-carcerieri in una posizione di inferiorità, manipolato e spinto al compromesso. Anche la sua famiglia era stata maltrattata[112].
Ovviamente il progetto di liquidazione della Pista bulgara continuò e l’11 gennaio 1983 i suoi ex-complici tentarono senza successo di uccidere lo stesso Ağca che, allertato dal fratello, non andò al sopralluogo previsto dagli inquirenti nel posto dove l’attentato doveva compiersi. Sembra che l’omicidio dovesse essere eseguito da Yalcin Özbey. Anche un secondo tentativo di assassinarlo andò a vuoto[113].
Nel febbraio 1983 un’altra richiesta del ministro degli interni bulgaro Stojanov (1928-1999, in carica dal 1973 al 1988) arrivò al collega tedesco-orientale Mielke (1907-2000, in carica dal 1957 al 1989) per chiedere intimidazioni contro i magistrati italiani. Sebbene negli incartamenti segreti il governo di Sofia si protestasse calunniato e perseguitato dalla propaganda antisocialista con quello di Pankow, è evidente che i Bulgari temevano che loro gravi responsabilità potessero emergere. Infatti questa corrispondenza era pur sempre ufficiale, sebbene segreta, e in essa un ministro non avrebbe mai potuto ammettere una responsabilità in un crimine tanto enorme come l’attentato al Papa, tantomeno scrivendo ad un Paese straniero, anche se alleato e posto nello stesso quadro di sovranità limitata. Peraltro, considerando che i servizi segreti bulgari erano stati solo esecutori di un piano concretizzato a Berlino e ordinato da Mosca, il ministro Stojanov diceva la verità quando affermava che la responsabilità non era del governo di Sofia, che era stato di fatto scavalcato e comandato dalla DDR e dall’URSS.
Sempre nel 1983 Andropov (che il 16 giugno sarebbe diventato anche capo dello Stato sovietico), Ivaschoutine e Nikolaj Vassilievitch Orgakov (1917-1996), vero organizzatore del GRU dal 1967, sovrintesero alla delegittimazione del Papa, alla vigilia dei suoi viaggi in Polonia e Centroamerica. Giovanni Paolo II nel marzo di quell’anno si recò negli Stati mesoamericani e affrontò a viso aperto la contestazione sandinista in Nicaragua. Il Papa si parava contro l’espansionismo sovietico anche in America Latina. In quell’anno i russi erano pronti anche alla guerra[114]. Se qualcuno fosse morto per la politica del Papa, questi sarebbe stato delegittimato. L’azione sovietica avvenne nel disimpegno dei servizi segreti occidentali: nel mese di maggio del 1983 la CIA produsse una valutazione ufficiale sulla Pista bulgara, in cui comunicava, mentendo, che dietro di essa non vi erano né i bulgari né i sovietici[115]. La firma era del deputato direttore dell’intelligence Robert Gates (n. 1943), poi direttore della CIA stessa (1991-1993), che pure nell’affare Iran-Contras avrebbe dimostrato la sua attitudine ad aiutare gli apparenti nemici degli USA per interessi di Stato. Sulla scia dell’intelligence americana, anche i servizi segreti occidentali decisero di lasciare campo libero ai sovietici, ai tedesco-orientali e ai bulgari.
Mirella Gregori (1968-1983), di appena quindici anni, venne perciò rapita alle 15,30 del 7 maggio 1983. Chiamata al citofono di casa, disse alla madre che era l’amico Alessandro De Luca a cercarla, scese e non tornò mai più. De Luca ovviamente non era mai stato sotto casa della ragazza[116]. Nessun grido accompagnò la sua sparizione, per cui la ragazza fu adescata da persona nota. La cosa avrebbe avuto degli sviluppi di lì a poco.
Nel frattempo, non avendo potuto eliminare Ağca ormai collaboratore di giustizia, il DS bulgaro, con la supervisione della STASI e con il beneplacito del KGB, intraprese una iniziativa importante. Il 28 maggio 1983 Jordan Lyubomir Ormankov (1921-2002)[117] e Stefan Markov Petkov (1928-?), entrambi agenti segreti bulgari, di cui il primo anche magistrato e il secondo responsabile dell’ingresso degli stranieri in Bulgaria e referente delle attività delle mafie straniere nel Paese, arrivarono in Italia passando per Trento. Markov Petkov era il luogotenente del generale Grigorij Shopov (1916-1994), a sua volta collaboratore stretto di Todor Živkov (1911-1998), segretario del Partito Comunista Bulgaro (1954-1989). I due agenti bulgari vennero per una rogatoria internazionale nell’ambito dell’inchiesta sull’attentato al Papa[118]. Ripartirono il 1 giugno e tornarono il 20. In quei giorni molto probabilmente sovrintesero personalmente alla più abietta delle azioni legata all’attentato a Giovanni Paolo II, realizzando appieno l’Operazione Papa.
Il 22 giugno infatti venne rapita Emanuela Orlandi (1968-?), quindici anni, cittadina dello Stato della Città del Vaticano, tra le 18,45 e le 19,00 del 22 giugno 1983, adescata all’uscita dalla scuola di musica di Sant’Apollinare da un uomo in BMW. A segnalare le sue abitudini ai sequestratori furono evidentemente Eugen Brammerz e Aloïs Estermann[119].
Il suo sequestro avviene durante il trionfale viaggio di Giovanni Paolo II in Polonia, dal 16 al 23 giugno 1983. Il viaggio era stato un successo e aveva dimostrato che i Polacchi non avevano nessun desiderio di accontentarsi delle riforme autoritarie di Jaruzelsky. Nonostante l’operazione Aurora I, con cui Andropov aveva cercato di imbrigliare, più ancora che nel viaggio precedente, l’impatto del Papa sui suoi connazionali mediante infiltrati, poliziotti, falsi giornalisti e restrizioni alla libertà di movimento, Giovanni Paolo II si era dimostrato ancora una volta il vero capo della Polonia libera[120]. Egli non mancò di mostrare misura, ricevendo Wałesa solo in forma privata (ma anche i dirigenti di Solidarność), sapendo che una rivoluzione polacca avrebbe messo in pericolo la pace mondiale[121]. Orgakov era alla testa dell’ala intransigente del Politburo del PCUS, che temeva l’aggressività di Reagan e disperava di colmare il gap tra URSS e USA negli armamenti più tecnologicamente avanzati. Costoro ritenevano che se la guerra in Europa fosse scoppiata subito, l’URSS, grazie alla sua superiorità negli armamenti convenzionali, l’avrebbe vinta facilmente. In questa prospettiva, la crisi polacca poteva essere un buon pretesto. Naturalmente in caso di guerra la stessa Polonia, assieme agli altri satelliti sovietici, sarebbe stata distrutta dalla reazione atomica della NATO[122]. Giovanni Paolo II lo sapeva, e lo sapevano anche Jaruzelsky e i leader dell’opposizione. In effetti già si parlava di un governo di coalizione tra Solidarność e il POUP. Il viaggio del Papa fu quindi un viaggio di appeasement, ma in Occidente esso fu visto con freddezza dalla Trilaterale e dalla Francia, mentre fu messo in ombra proprio dal sequestro Orlandi, che rimbalzò mediaticamente in tutto il mondo, amplificato a dismisura dalla rete di giornalisti al servizio dei sovietici in Italia e in Europa, rivelata dal Dossier Mitrokhin[123]. Erano gli stessi giornalisti reticenti a tirare in ballo i sovietici nell’attentato al Papa. Costoro continuavano a pensare che il Papa fosse la vera causa della destabilizzazione del loro impero ed è in quest’ottica soltanto che trova senso e soluzione l’enigma di Emanuela Orlandi.
La ragazza fu un obiettivo di ripiego, perché la figlia di Angelo Gugel (n.1936), aiutante di camera di Giovanni Paolo II, la moglie e la figlia di Camillo Cibin erano obiettivi troppo protetti[124]. Pedinata da tempo, al momento del sequestro era in compagnia di una amica che non fu mai identificata[125].
I famosi telefonisti Pierluigi e Mario erano probabilmente delinquenti locali incaricati di far perdere tempo, con le loro telefonate contenenti informazioni svianti sulla Orlandi, fino a che la ragazza non fosse portata fuori Italia[126].
Ormankov e Markov Petrkov ripartirono il 24 giugno. Ağca, conscio del fatto che i due sequestri erano stati compiuti per fare pressione sull’Italia a suo favore ma anche per lanciare a lui un messaggio intimidatorio, dal 28 giugno cominciò a ritrattare le sue deposizioni e a mescolare cose vere e cose false nelle sue testimonianze[127]. Secondo Dinucci, il SISMI, in una nota del 25 maggio 1983, segnalò l’ingresso in Italia dei due bulgari, qualificati come spie venute ad inquinare le prove[128]. Il 27 giugno il capo del SISMI Ninetto Lugaresi (n. 1920, in carica dal 1981 al 1984) informò della vera natura dei bulgari il dirigente del CESIS Orazio Sparano (n. 1926, in carica dal 1981 al 1987)[129]. Tuttavia nulla si mosse per fermare queste pesanti interferenze straniere, in nome della realpolitik.
Il 3 luglio il Papa, consapevole della vile manovra in atto ai danni della Chiesa sulla pelle di una povera ragazzina, lanciò il primo di otto appelli per la Orlandi, alludendo ad un sequestro in modo coraggioso[130]. Il 5 luglio uno slavo chiamò la Sala Stampa del Vaticano e chiese che Ağca fosse rilasciato in cambio della Orlandi, formulando così una richiesta irricevibile e peraltro non esaudibile direttamente dalla Santa Sede; lo stesso giorno un uomo con l’accento americano chiamò casa Orlandi e avvisò che il Vaticano si sarebbe messo in contatto con loro: era iniziato un doppio pressing sul Papa, tramite il ricatto e tramite la strumentalizzazione delle speranze trepide della famiglia della ragazza. In realtà erano già stati attivati contatti segreti con la Segreteria di Stato (una linea segreta predisposta a richiesta con Casaroli, che però rimase a lungo muta), ma non se ne seppe né se ne ricavò mai nulla (gli inquirenti italiani furono sempre depistati dalle talpe che operavano in Vaticano): evidentemente le richieste formulate erano diverse da quelle pubbliche ed anch’esse inaccettabili, oppure furono accettate, ma senza la sicurezza della contropartita della restituzione della ragazza, che infatti non avvenne mai[131].
Da una intercettazione del 1985 risultò che Raoul Bonarelli, sovrastante della Gendarmeria, indagò in Vaticano sul caso Orlandi, ma che non doveva dire nulla all’esterno, quando venne interrogato nell’inchiesta Gregori. Verosimilmente l’esito dell’indagine fu l’individuazione della matrice politica internazionale, che non poteva essere rivelata a pena di maggiori danni[132].
Una ulteriore ipotesi è che la Segreteria di Stato abbia preso impegni sull’insabbiamento della Pista bulgara, ottenendo in cambio la salvezza della vita ma non la restituzione della Orlandi. Infine, si può immaginare che il rilascio dell’ostaggio vaticano sia stato differito alla fine del processo, solo che al termine di esso sarebbe scomparsa anche l’URSS, per cui sotto le sue macerie rimase occultata anche la sorte della ragazza. A mio avviso, di queste quattro la terza ipotesi è quella più plausibile.
In ogni caso questi contatti furono rivelati dai sequestratori il 6 luglio all’Ansa, col chiaro intento di mettere in imbarazzo il Vaticano e mostrando che essi non tenevano tanto ai contatti riservati stessi quanto al loro impatto mediatico.
Il 17 luglio 1983 i sequestratori fecero trovare, dopo un tentativo andato a male il 14 per intervento di una mano misteriosa che la sottrasse, un’audiocassetta con la solita richiesta a favore di Ağca e con incise le urla della ragazza, sottoposta presumibilmente a violenza. Forse la sottrazione servì ad amplificare l’effetto del ritrovamento così differito e si dovrebbe addebitare alle talpe sovietiche in Vaticano come Estermann. Ma le prove dell’esistenza in vita dell’ostaggio furono sempre indirette. I sequestratori ottennero che il nastro fosse mandato in onda alla RAI[133].
Nonostante la moltiplicazione delle richieste, Ağca – già screditato come teste in quanto era stato complice di quelli che poi erano diventati sequestratori della ragazzina – rifiutò lo scambio con l’ostaggio, tanto che i rapitori della Orlandi affermarono che esso doveva avvenire anche se lui lo rifiutava. La data fissata era il 20 luglio. Ma alla scadenza si continuò a trattare[134]. Infatti chi aveva sequestrato la Orlandi sapeva bene che l’attentatore del Papa non poteva essere rilasciato.
Il SISDE di Vincenzo Parisi (1930-1994, in carica dal 1984 al 1987), che all’inizio minimizzò il sequestro Orlandi e parlò di tratta delle bianche, dovette dichiarare che smetteva di occuparsi del caso, dopo la pubblicazione del nastro, evidentemente per non inasprire i sequestratori, ai quali dunque portava riguardo e di cui aveva timore, quasi rappresentassero una potenza sovrana e superiore. Il Vaticano dovette inoltre dichiarare che non aveva potere sulla detenzione di Ağca[135]. Esso dovette persino piegarsi a collaborare ai depistaggi, per screditare la pista bulgara.
Emblematicamente, l’Osservatore Romano, a fine luglio, mise in collegamento il rapimento della Orlandi al crack dell’Ambrosiano. La manovra, nella sua attitudine distrattrice, echeggiava quella del colonnello Yona Andronov (n. 1934), responsabile della Literaturnaja Gazeta, periodico sovietico su cui si tentava di attribuire alla CIA la responsabilità dell’attentato al Papa, contando sulla non belligeranza americana in questa guerra spionistica in cui si giocava al rialzo in modo sempre più scorretto. Iniziò così un nuovo tentativo di depistaggio che sarebbe stato ripreso in grande stile più tardi, facendolo confluire con quello tentato dall’Osservatore Romano[136]. Ma la pista lanciata dal quotidiano della Santa Sede, di certo per impulso dei giornalisti controllati da Brammertz, di fatto aiutava la fazione dei diplomatici, capeggiata da Casaroli, nella loro lotta contro Marcinkus, protetto dal Papa nonostante l’avventurismo finanziario che aveva compromesso economicamente e politicamente (in Polonia) il Vaticano. Nelle vicende della Pista bulgara, dei complotti internazionali e delle spie si mescolarono dunque anche quelle della politica interna della Santa Sede.
Il 29 luglio arrivò una lettera dattiloscritta e firmata dalla Orlandi che descriveva le sevizie a cui era stata presumibilmente sottoposta e ne paventava la morte se le richieste dei sequestratori non fossero state accolte. La guerra psicologica continuava. Lo stile della lettera era identico al parlato della Orlandi, ma la mancanza di scrittura impediva di appurare la reale condizione della ragazza o di individuare altri indizi.
Sempre alla fine di luglio la ragazza chiamò furtivamente a caso una certa Giovanna Baum, di notte, a Bolzano, affermando di essere in città e chiedendo aiuto. La teste informò subito la polizia ma subito dopo ebbe una telefonata minatoria che avrebbe dovuto impedire la segnalazione, fortunatamente già avvenuta, seppur senza alcuna conseguenza pratica.
Un’altra teste, Josephine Hofer Spitaler, affermò di aver visto il 15 agosto a Terlano una ragazza in non buone condizioni portata nell’appartamento dei suoi vicini nella casa di campagna e poi di aver sentito e constatato che la portavano in Germania, il 19. La ragazza avrebbe tentato di parlarle, ma ne fu dissuasa. Questa testimonianza, fornita con ritardo (nel 1985) rispetto agli eventi perché la Spitaler aveva appreso solo nel settembre 1983 del sequestro Orlandi ed era intimorita, non fu però considerata attendibile, specie in ordine all’identificazione fornita dei presunti carcerieri della ragazza: i coniugi Kay e Francesca Springorum, proprietari della casa, erano stati i datori di lavoro della teste che aveva avuto con essi gravi dissapori; colui che avrebbe portato la Orlandi presso di loro fu identificato con una persona, Klaus Meyer, che non parlava italiano – lingua in cui la teste lo avrebbe sentito rivolgersi all’ostaggio; Rudolf Christoph Teuffenbach, cognato dello Springorum e capocentro del SISMI a Monaco di Baviera, che aveva lavorato nei Paesi dell’Est e che avrebbe preso in consegna la Orlandi, fu assolto nel 1997 avendo potuto dimostrare di essere altrove in quelle ore e in ogni caso in compagnia di sua figlia, di tre anni più piccola della Orlandi e oggi impiegata proprio nell’Archivio Segreto Vaticano[137]. Di questa testimonianza colpiva l’ambivalenza: poteva servire a depistare infangando il SISMI o a ricostruire un percorso di complicità internazionali basato sul doppio gioco. La magistratura optò, sulla scorta di quanto detto, per la prima soluzione. Non mi risulta che la Hofer sia stata indagata per diffamazione.
In ogni caso, la Orlandi, dunque, fu condotta fuori Italia, e non uccisa, allo scadere dell’ultimatum, probabilmente passando per l’Alto Adige e l’Austria, verso la Germania Occidentale[138]. Dal 4 agosto erano cessate le telefonate perché gli esperti si erano convinti che lo slavo che parlava fosse un russo e la notizia era stata diffusa. Iniziarono invece dei comunicati siglati da un fantomatico Fronte Turkesh (chiamato così da Alparslan Turkesh [1917-1997], fondatore dei Lupi Grigi), in cui si parlava solo di turchi (senza nessun appiglio per il coinvolgimento di slavi nella vicenda) e che venivano dalla Germania Ovest, dove i Lupi Grigi avevano, come abbiamo visto, tante basi, per cui appariva plausibile un loro coinvolgimento nella vicenda[139]. Tali comunicati non vertevano solo sulla Orlandi, ma a volte anche sulla Gregori[140], il cui ruolo nella vicenda apparve dunque appaiato, anche se subordinato, a quello della più nota e altrettanto sventurata coetanea vaticana. Uno di essi, datato 22 settembre, conteneva in allegato notizie dati militari sulla NATO, sul Patto di Varsavia e su altre nazioni, come la Cina Popolare, a ulteriore dimostrazione che la trattativa sulla Orlandi investiva questioni che, se non fossero state risolte come volevano i sequestratori, potevano portare anche ad una guerra mondiale.
Iniziarono poi il 19 settembre i comunicati sul sequestro Orlandi provenienti da Phoenix in USA[141]. Tra il maggio 1999 e il giugno 2008 Bohnsack, pur declinando ogni responsabilità nella gestione del sequestro Orlandi, avrebbe rivelato a Ferdinando Imposimato, in veste di detective privato, che i comunicati erano fatti dalla X sezione della STASI. Essa spediva quelli del Fronte Turkesh dalla Germania Ovest tramite una struttura clandestina e dagli USA quelli del Gruppo Phoenix tramite l’ambasciata tedesco-orientale (senza che la CIA si preoccupasse di svolgere nessuna indagine). Anche i bulgari e i russi scrivevano a loro volta documenti depistanti, mentre i primi passavano le informazioni sulla ragazza, evidentemente nelle loro mani o almeno affidata a persone con cui erano in contatto. A Roma poi le spedizioni erano curate dagli stessi bulgari. Lo scopo era accreditare la pista turca e non bulgara per l’attentato al Papa. L’ufficiale tedesco ha anche dichiarato che il vero detenuto che si voleva liberare attraverso il sequestro Orlandi era Antonov, del quale si temeva la fragilità di nervi. In effetti il bulgaro fu mandato ai domiciliari. Molte cose sono state confermate anche da Karl Wolff[142]. In alcuni ambienti vicini ai Lupi Grigi in Germania l’organizzatore del sequestro era considerato Ali Batman (n.1954), di cui si diceva fosse legato a filo doppio alla STASI[143].
Alla fine degli Anni Ottanta vari testimoni dichiararono che la Orlandi sarebbe stata portata in Olanda per una plastica facciale, dalla Germania Ovest. Si disse che avesse vissuto per qualche tempo a Parigi ovviamente in prigionia. Nel 1992 i compagni di cella degli accusati affermeranno che Çelik e Çatli avrebbero portato poi la Orlandi in Turchia. Nel 1994 Çelik, Özbey e Ağca, evidentemente ancora recitando secondo il loro copione, affermarono che la ragazza era viva. Ağca lo dichiara ancora adesso. E’ difficile farsi un’idea precisa del valore di queste informazioni: quando sono di prima mano, vengono da personaggi interessati a mentire; quando sono di seconda mano, vengono da chi fu loro vicino magari casualmente, per cui potrebbero avere notizie vere, ma pure potrebbero essere stati usati per inquinare il quadro probatorio. Personalmente propendo per la veridicità delle testimonianze di seconda mano e in linea di massima credo al trasferimento in Germania e Olanda, con relativa plastica facciale, e in Turchia, più che altro per la verosimiglianza del racconto. Secondo Imposimato, la ragazza può essere vissuta fino al 1997, ossia fino a quando serviva come ostaggio per indirizzare al fallimento il processo sulla Pista bulgara e la cosa mi sembra perfettamente logica. La Orlandi, se poi fosse ancora viva, per la sindrome di Stoccolma potrebbe essersi innamorata di uno dei suoi sequestratori, per cui non vorrebbe più tornare in Italia. Va poi rilevato che un ostaggio, detenuto per anni e in simili condizioni e per siffatti motivi, non può essere restituito[144].
Sempre nel mese di settembre l’agente del KGB e giornalista Oleg Bitov (n. 1932), giunto in Italia per cercare consensi autorevoli all’ipotesi della CIA quale mandante dell’attentato al Papa, defezionò e passò ai servizi segreti inglesi. Sarebbe stato poi rapito dal KGB e costretto a tornare in patria (agosto 1984), dichiarando che i britannici lo avevano sequestrato. Il rischio che il transfuga svelasse i depistaggi sovietici e i retroscena dell’attentato al Papa al mondo era stato vanificato[145].
Il 24 settembre 1983 l’intento politico del rapimento Gregori legato all’attentato al Papa, dopo un lungo ed inspiegabile silenzio, venne drammaticamente fuori (o fu modificato in itinere): i sequestratori della ragazza chiesero che il presidente della Repubblica Sandro Pertini (1896-1990; in carica dal 1978 al 1985) intervenisse a favore di Ağca in cambio della liberazione dell’ostaggio.
Ho detto che potè essere modificato in itinere perché è strano che la richiesta politica venisse fatta dopo diversi mesi. A tale proposito è interessante che nel dicembre 1985 la madre della Gregori, Maria Vittoria Arzenton, riconoscerà in Raul Bonarelli, di scorta a Papa Wojtyła in visita alla parrocchia di San Giuseppe, l’uomo visto più volte in compagnia della figlia e della coetanea Sonia De Vito nel bar del padre di quest’ultima, ubicato presso casa Gregori. Bonarelli infatti aveva casa da quelle parti. Questa testimonianza apriva un piccolo spiraglio sulla possibilità che la Gregori avesse un qualche legame con un esponente del Vaticano che magari giustificasse la scelta di rapire proprio lei. Se l’identificazione fosse stata confermata oggi potremmo supporre che il gruppo di Estermann volesse delegittimare la Gendarmeria montando un finto scandalo che colpisse Bonarelli, fedele al Papa. Ma la madre di Mirella, messa poi a confronto con Bonarelli, affermò di essersi sbagliata. Cosa peraltro possibilissima per una donna sopraffatta dal dolore e minata da un male incurabile. Morirà infatti poco dopo di cancro. Fu tuttavia per questa testimonianza poi ritrattata che il sovrastante fu messo sotto intercettazione telefonica, come abbiamo visto. Bonarelli è in pensione dal 2013[146].
Il 30 settembre 1983 i giudici Ormankov e Markov Petkov cominciarono ad interrogare Ağca. Il 10 ottobre, dopo un interrogatorio, Martella e Ormankov andarono al bar e Markov Petkov rimase solo con l’attentatore. Lo avvisò che la Orlandi era stata rapita per scambiarla con lui e che se avesse continuato a parlare i suoi ex-complici avrebbero ucciso sia i suoi parenti in Turchia che l’ostaggio. Questo sarebbe stato raccontato da Ağca stesso a Martella nella lettera nel settembre 1997 e a Imposimato, quando i due non erano più responsabili dell’inchiesta (anche se poi, coerentemente con le istruzioni ricevute, avrebbe ritrattato davanti al magistrato)[147]. Essendo praticamente impossibile che il turco fosse scambiato con la Orlandi – si pensi al precedente di Moro – è logico dedurre che ad Ağca i bulgari facessero intendere che egli sarebbe stato liberato legalmente alla fine dell’inchiesta, pilotata attraverso questa straordinaria pressione ricattatoria. Anche Bohnsack avrebbe confermato l’identità dei due bulgari e si sarebbe meravigliato dell’accesso consentito loro ad Ağca dagli inquirenti italiani[148]. Sempre secondo Dinucci, anche il SISMI seppe anche delle minacce ad Ağca. Ormankov e Markov Petkov avrebbero interrogato nuovamente il turco il 20 ottobre, il 16 novembre e il 6 e il 9 dicembre dello stesso 1983. Ancora nell’ottobre Ormankov chiese alla STASI altri aiuti per delegittimare l’inchiesta e sostenere Antonov, qualificato come alto ufficiale del servizio segreto bulgaro[149].
Intanto, in conseguenza della richiesta presentata dal DS alla STASI, e probabilmente grazie ad alleanze occulte e trasversali, forse proprio i mandanti dell’attentato al Papa poterono colpire Ferdinando Imposimato, al quale l’11 ottobre 1983 la camorra uccise il fratello Franco (n. 1939).
In quei frangenti, una rivendicazione del sequestro Gregori del 23 ottobre 1983 fatta alla americana CBS lo mise in connessione col fatto che la ragazza aveva partecipato ad una udienza papale[150]. Forse fu fatta dagli agenti STASI che redigevano i comunicati del Gruppo Phoenix. Era senz’altro una motivazione bizzarra, tanto che si potrebbe pensare che i sicari avessero rapito la ragazza per errore; di certo per i sequestratori la Gregori doveva avere un legame con la Santa Sede che però è sempre sfuggito agli inquirenti e agli studiosi. Il 20 ottobre Pertini trovò la maniera per intervenire senza ledere il prestigio e l’onore della Repubblica e fece un appello per la Gregori e la Orlandi. Ma Il 27 ottobre fu annunziata la morte della Gregori, un ostaggio che certamente non poteva essere rilasciato per quello che avrebbe raccontato. Tuttavia il corpo non fu mai restituito[151].
Recentemente un controverso testimone, Marco Fassoni Accetti, nelle cui presunte rivelazioni si alternano a mio avviso cose plausibili, credibili e palesemente false, ha dichiarato che la Gregori è viva, che si allontanò volontariamente da casa, aiutata dall’amica Sonia De Vivo, dopo essere stata coinvolta, per amore di un agente segreto e sperando di poter aiutare economicamente la famiglia, in un piano di delegittimazione del Vaticano che avrebbe dovuto culminare in uno scandalo che infangasse Bonarelli in modo calunnioso, ma che non fu possibile realizzare. La ragazza avrebbe vissuto a Roma i primi mesi dopo il sequestro per poi andare all’estero; avrebbe incontrato anche la madre prima che questa morisse. Si tratta di notizie che, pur essendo suggestive e atte a chiarire alcuni punti oscuri della vicenda, sono prive di riscontro, sono state duramente contestate dalla famiglia della Gregori e creano altri problemi investigativi e vengono quindi riferite solo con beneficio di inventario, senza voler mancare di rispetto alla memoria di chi, allo stato attuale delle conoscenze, va considerata defunta[152].
Il 20 ottobre 1983 i rapitori della Orlandi, con chiaro intento intimidatorio, lasciarono rivendicazioni negli stessi luoghi in cui Ağca stava andando a fare dei sopralluoghi con i magistrati Martella, Ormankov e Markov Petkov[153]. L’ultimo messaggio sulla Orlandi fu fatto trovare il 22 novembre 1984, dopo la fine dell’istruttoria per il processo ad Ağca[154].
Nel novembre 1983 la disinformazione arrivò anche in Vaticano. Monsignor Luigi Poggi, dopo aver avuto incontri segreti a Vienna, Varsavia, Parigi e Sofia, proprio nella capitale austriaca aveva raccolto dal Mossad una informativa che costituiva una clamorosa novità, e la portò a Giovanni Paolo II. Nahum Admoni (n.1929), capo del Mossad (1982-1989), aveva ordinato una indagine che aveva scoperto che Khomeini, nel periodo in cui Ağca era stato in Iran, lo aveva assoldato per uccidere il Papa e iniziare così la Jihad. Dopo il periodo iraniano, il killer turco avrebbe passato qualche tempo in Libia, nel gennaio dell’81, con Frank Terpil (n.1940), un pilota americano accusato di tradimento per aver venduto armi a Muhammar Gheddafi (1942-2011) e avergli procurato istruttori per i piloti della sua aviazione. Il rapporto affermava che i Lupi Grigi erano vicini a Teheran e che in caso di fallimento dell’attentato al Papa, il killer avrebbe dovuto essere presentato come un fanatico solitario[155]. Questa ricostruzione aveva dell’inverosimile, perché l’Iran non aveva nessun interesse ad ammazzare il Papa, mentre l’URSS si. Inoltre i Lupi Grigi sono sunniti e l’Iran è sciita, per cui questo Paese avrebbe trovato altri killer per un omicidio di matrice religiosa. Peraltro la strana ipotesi conteneva in germe altre due piste, altrettanto incredibili, come quella libica e quella americana, sulla quale i russi, come abbiamo visto, già provavano ad attirare l’attenzione. Inoltre, Israele aveva tutto da temere da un conflitto mondiale dal quale, presumibilmente, l’URSS sarebbe uscita vincitrice in Europa: esso sarebbe stato accerchiato da Stati islamici e comunisti, tutti ostili. Per cui non meraviglia che proprio dal Mossad, fino a quel momento rimasto alla finestra nella guerra di spie attorno all’attentato al Papa, sia venuto fuori questo singolare ed importantissimo documento, indipendentemente se Israele lo considerasse vero o falso, attendibile o meno. Impossibile è ricostruire il percorso con cui esso giunse a Tel Aviv e da qui a Vienna: se sia stata una iniziativa di agenti israeliani o americani o iraniani o libici non si sa. Di certo, Khomeini aveva avuto appoggi antiamericani dai russi prima della sua rivoluzione islamica e prima di diventare un nemico importante dei sovietici in Medio Oriente: magari qualcuno attorno a lui aveva debiti di riconoscenza con l’URSS. Anche Gheddafi era sostenuto generosamente dall’Unione Sovietica e quindi poteva prestarsi ad un depistaggio. Si può quindi benevolmente credere che dalla Libia arrivasse questa disinformativa e che lo stesso Mossad ne fosse ingannato. In ogni caso, ora anche i servizi di informazione vaticani avevano una verità alternativa alla Pista bulgara, e se vogliamo un pretesto per smettere di cercarne la fondatezza, e senza correre troppi rischi, essendo le sfere di influenza del Papato e di Teheran molto lontane tra loro.
Un pretesto che serviva anche ad alcune nazioni occidentali: nel dicembre 1983 la Bulgaria e l’Italia avevano reciprocamente ritirato i rispettivi ambasciatori (il ministro degli Esteri Emilio Colombo [1920-2013; in carica dal 1980 al 1983] aveva espresso la preoccupazione che i bulgari potessero compiere azioni illegali, pur non essendo sicuro del loro coinvolgimento nell’attentato al Papa); nello stesso mese il Partito Comunista Francese e l’ambasciata sovietica in Francia protestarono per lo spazio dato dai media alla Pista bulgara, tanto che si paventava una crisi di governo a Parigi, essendo i comunisti in alleanza coi socialisti nell’Esecutivo Mauroy (1928-2013, in carica dal 1981 al 1984) sotto il presidente Francois Mitterand (1916-1996; in carica dal 1981 al 1995).
Nel frattempo Ormankov e Markov Petkov, tra il dicembre 1983 e il gennaio 1984, incontrarono Antonov, come dicevamo andato ai domiciliari, nonostante la sua centralità nell’inchiesta, per motivi di salute, e cercarono di convincerlo a dichiararsi complice di Ağca per motivi personali, essendo convinti dell’insostenibilità della sua posizione[156]. Questi tuttavia rifiutò e da quel momento fu tenuto in strettissima sorveglianza e separato dalla famiglia, anche quando, terminato il processo per l’attentato al Papa, fu rimpatriato in Bulgaria[157].
Su queste vicende, resosi conto che la verità non si sarebbe mai potuta dichiarare e gli ostaggi non sarebbero mai stati restituiti, forse avendone già avuta in contropartita l’assicurazione che essi sarebbero rimasti vivi o sapendo che erano oramai deceduti, il Vaticano decise di stendere un velo di silenzio che rendesse la situazione meno grave. Giovanni Paolo II ordinò l’archiviazione di tutti i documenti in possesso del Vaticano sull’attentato da lui subito. Ciò avvenne il 24 dicembre 1983[158]. Il Papa parlò di terrorismo internazionale quando visitò gli Orlandi il 25 dicembre. Oramai il processo era alle porte e la trattativa segreta per la restituzione della ragazza evidentemente conclusa con un nulla di fatto[159]. L’esito dell’inchiesta era tuttavia già scritto e il Papa, slegando le sorti dell’inchiesta umana da quella del suo percorso interiore e della sua lotta contro il drago rosso, recatosi in visita in carcere ad Ağca il 27 dicembre, gli accordò il suo perdono. Poneva così le basi per un futuro, ma non immediato, atto di clemenza che chiudesse la bocca a tutti i coinvolti nel progetto di assassinarlo. Tuttavia questo non bastò a porre fine alle violenze e alle bugie.
La situazione polacca sembrava schiarirsi, in quanto nel mese di febbraio del 1984 morì Andropov, che si era appena dotato della cosiddetta “Macchina dell’Apocalisse”, ossia di un sistema computerizzato a risposta automatica in caso di attacco nucleare occidentale, capace a sua volta di vomitare sul mondo intero i missili atomici intercontinentali sovietici. Questo strumento aveva perfezionato il Piano Ryan, che lo stesso Andropov aveva caldeggiato e perfezionato negli anni a partire dal 1981 come contromisura per una possibile aggressione.
Giovanni Paolo II a questa offensiva di violenza e di intrighi rispose con un’arma eminentemente spirituale, continuando a manifestare la sua fede nelle apparizioni di Fatima del 1917. Conformemente alla richiesta della Beata Vergine Maria ai tre pastorelli Lucia Dos Santos (1907-2005), Giacinta (1910-1920) e Francisco Marto (1908-1919) [questi due ultimi beatificati il 13 maggio 2000 dallo stesso Wojtyła], il Papa, chiusosi ormai l’Anno Santo Straordinario del 1983, in comunione con tutti i vescovi del mondo, consacrò quest’ultimo e in particolare la Russia al Cuore Immacolato di Maria il 25 marzo 1984. Evidentemente questo mezzo non fu inutile.
Kostantin Černenko (1911-1985) divenne segretario del PCUS a febbraio e in aprile capo dello Stato (1983-1985). Sebbene egli fosse il capo della fazione militarista dell’URSS, il 13 maggio (ancora un giorno dedicato alla Madonna di Fatima) fu colpito da una gravissima disgrazia: l’immenso arsenale della base di Severomorsk nella Penisola di Kola fu distrutto da un incidente. L’apparato missilistico della base serviva a controllare l’Atlantico e l’Artico, per cui da questo momento in poi l’URSS non fu più in grado di pianificare un conflitto con la NATO[160], anche se forse questa non si avvide subito del vantaggio che improvvisamente aveva ottenuto.
Nel luglio del 1984 Jaruzelsky concesse l’amnistia a seicento detenuti politici. Ma il 30 luglio, in visita spontanea all’avvocato Gennaro Egidio (†2005), legato ai servizi segreti italiani e che seguiva i casi Orlandi e Gregori, il colonnello Andronov riprese in grande stile la tesi della connessione tra il sequestro Orlandi e lo scandalo IOR-Ambrosiano. Andronov insinuò che il padre della ragazza, Ercole (†2004), venisse ricattato per non svelare quello che sapeva dei trasferimenti di denaro a Solidarnośç. Cosa potesse sapere di questo un modesto usciere del Vaticano qual era l’Orlandi, Andronov ovviamente non lo disse. Era una fine opera di disinformazione ancora in atto[161]. Gli inverosimili dubbi inculcati in Egidio mostrano quello che era un ulteriore scopo del rapimento della ragazza, quello di tenere vivo il discredito sulla Chiesa per le sue presunte fosche manovre finanziarie (a danno del blocco sovietico) e dissuaderla dal ripeterle, proprio nel momento in cui il regime polacco allentava la stretta sugli oppositori.
Su questa scia si colloca la pista attualmente più nota. Dal 19 febbraio 2006 al 2010 prima Antonio Mancini (n.1948), uomo della Banda della Magliana, poi Sabrina Minardi, donna di Renato de Pedis (1954-1990) – che di quel sodalizio criminale fu un capo – cercarono di accreditare una pista romana interna del sequestro Orlandi. Essa non ha riscontri (le persone tirate in ballo smentirono e hanno degli alibi di ferro) o se li ha sono sospetti (una BMW, in cui la Orlandi sarebbe stata sequestrata, fu ritrovata parcheggiata in un autorimessa sotterranea di Roma dal 1995 senza che mai nessuno l’avesse vista prima), è inverosimile (il movente del sequestro sarebbe stato costringere Marcinkus alla restituzione di soldi della Banda investiti dallo IOR e perduti, come se una banca, fosse pure dei preti, restituisse denaro per il sequestro di una ragazzina politicamente senza importanza; lo stesso monsignore avrebbe incontrato la ragazza tenuta in ostaggio per tranquillizzarla), logisticamente impossibile (la Banda avrebbe avuto una rete atta a gestire tutti i contatti sopra descritti in Italia, Vaticano e all’estero), contraddittoria nei dettagli (la Minardi confuse cose accadute a dieci anni di distanza; lei ed altri testi cambiarono e arricchirono le loro versioni) e soprattutto smentita dalle circostanze fondamentali a cui faceva riferimento (nella tomba di De Pedis in Sant’Apollinare, contrariamente a quanto insinuato da anonimi telefonisti alla trasmissione televisiva Chi l’ha visto, non c’era la Orlandi, né c’erano sue tracce nella BMW summenzionata, né l’identificazione della voce di Mario, fornita dai collaboranti, era autentica). Perché nacque questa pista? Presumibilmente anche per arginare le rivelazioni che proprio sul sequestro Orlandi Bohnsack stava facendo ad Imposimato, ormai dal 1999, fino al 2008. Questa versione tuttavia ottenne, ancora una volta, lo scopo di screditare il Vaticano. Mentre l’opinione pubblica ha dimenticato gli indizi, le prove e i riscontri avutisi dagli anni Ottanta a oggi[162].
Nello stesso anno il giudice Imposimato, anche per sfuggire alle minacce della criminalità organizzata, nel 1984 venne mandato a Strasburgo e nel 1986, ancora minacciato dalle mafie, verrà distaccato alle Nazioni Unite, lasciando la magistratura definitivamente[163].
Anche il giudice istruttore Ilario Martella ricevette, nel 1984 e nel 1985, continue minacce sulla vita dei suoi cari (specie sulla nipotina), che furono pedinati anche all’estero. Le sue richieste di protezione non furono prese in considerazione dalle istituzioni. Il SISMI, informato delle minacce, non fece nulla[164]. L’unico politico italiano che si adoperò per il magistrato fu Bettino Craxi (1934-2000), all’epoca Presidente del Consiglio (1983-1987), coerentemente con il suo risoluto atteggiamento antisovietico e con la linea del PSI, che diede sempre credito alla Pista bulgara[165]. Diverso fu invece l’atteggiamento della DC. Per esempio Giulio Andreotti (1919-2013), sebbene in privato riconoscesse la validità della Pista bulgara[166], da memorialista (e sedendo alla Farnesina dall’83 all’89) ufficialmente la rifiutò[167], formulando dei rilievi critici sull’istruttoria di Martella, peraltro infondati, per salvaguardare la distensione tra Est e Ovest, coerentemente con la politica che egli aveva sempre seguito e dati gli esiti negativi di quella a cui si era attenuto il predecessore Colombo. Forse le minacce impaurirono il giudice Martella, ma non vi è nessun elemento per dubitare della sua correttezza nel prosieguo delle indagini, come invece alcuni hanno fatto[168].
Sempre nel 1984, il 2 agosto, il sostituto procuratore Domenico Sica (1932-2014) entrò in possesso di un documento riservato del SISMI, a cui abbiamo già fatto riferimento, in mano all’agente Francesco Pelaia, ex-sacerdote, vicino anche agli ambienti del Vaticano, in cui si leggeva che l’attentato fu organizzato dal GRU su incarico del ministro sovietico della Difesa Ustinov. Il GRU si era rivolto al KGB e questo, individuato il killer, ai bulgari. Il killer sarebbe stato poi addestrato in URSS. Il documento era del 19 maggio 1981 e sarebbe stato consegnato anche al ministro della Difesa Lelio Lagorio (n. 1925, in carica dal 1980 al 1983), ma da parte sovietica, evidentemente avvisata dal SISMI stesso, si tentò di attribuirlo a Francesco Pazienza[169], mettendo in giro la voce che fosse stato fabbricato per infangare l’URSS. Ora, a parte che la prova dell’esistenza del GRU si ebbe solo dopo la caduta del Muro, per cui la sua citazione nel documento è prova di autenticità, non si capirebbe perché Pazienza avrebbe redatto un simile testo per i servizi italiani senza che questi lo usassero fino al 1984, quando peraltro fu scoperto fortuitamente.
In questo clima arroventato e avvelenato, ci si avvicinava alla rappresentazione finale. Nella quale solo certi magistrati avevano ormai interesse a trovare la verità. Infatti la CIA, valutandone gli impatti politici negativi nei Paesi amici, sia nel 1984 che nel 1985, sempre per iniziativa di Gates, continuava a screditare la Pista bulgara[170]. Oramai gli USA preferivano che alcuni credessero che la Pista bulgara fosse stata inventata dal segretario di Stato Alexander Haig (1924-2010, in carica dal 1981 al 1982), da Casey e da Zbignew Brzezinsky (n. 1928), consigliere per la sicurezza dal 1977 al 1981 e co-fondatore della Trilaterale[171], che aveva invece forti interessi a mantenere la pace con l’URSS e non a stuzzicarla, magari attendendo una svolta politica distensiva, che in effetti sarebbe avvenuta.
La Commissione Trilaterale aveva, come il suo padre fondatore, la speranza di una integrazione europea e mondiale basata sull’economia e non certo sui valori dello spirito. Brzezinsky e Giovanni Paolo II, sebbene entrambi polacchi, avevano una idea molto diversa del comunismo, che il primo tollerava come una sorta di male minore che poteva essere inserito in una visione di tipo mondialista. Questa posizione aveva una matrice massonica ed era operativa in Europa dal 1960. Dal 1968 al 1988 nei Convegni di Darmouth si incontrarono, in grande riservatezza e con obiettivi simili, ogni anno, alti funzionari e uomini politici americani e sovietici. Questa forma di irenismo tra capitalismo e comunismo sotto le insegne di un certo spirito massonico era alternativo alla linea fermamente anticomunista, perché cristiana e personalista, di Giovanni Paolo II e bilanciava l’anticomunismo muscolare e poco intellettuale di Reagan. Anche sotto questa influenza, USA e RFT, a cui il Papa aveva chiesto aiuto per risolvere la crisi finanziaria del Vaticano resa più grave dal fallimento di Calvi, gli chiesero aperture politiche e dottrinali, evidentemente a favore del blocco sovietico e dell’ideologia umanista, che però non furono concesse[172].
IL FALLIMENTO DEL PROCESSO
L’ordinanza di rinvio a giudizio– corposa ma definita indiziaria dal suo stesso autore- per gli imputati della Seconda inchiesta fu datata 26 ottobre 1984 da Ilario Martella. Le rivelazioni di Ağca furono alla base del procedimento[173].
Il processo durò dal 27 marzo 1985 al 29 giugno 1986. L’appello dal 26 novembre al 19 dicembre 1987. In esso furono ovviamente imputati tutti coloro che il killer turco aveva chiamato in correità. I motivi del fallimento furono essenzialmente i seguenti.
Innanzitutto Ağca entrava nel processo come teste screditato dallo stesso giudice istruttore, Martella, il quale il 24 novembre 1983 mise sotto accusa per calunnia il killer turco nell’inchiesta sull’attentato a Wałesa e proprio a danno di Antonov. Conseguenzialmente la sua credibilità nell’accusare lo stesso bulgaro per l’attentato al Papa era fortemente dubbia, mentre la prima Pista bulgara, quella appunto sul mancato omicidio del sindacalista polacco, anteriore a quella sul tentato papicidio, veniva così a cadere. Martella si convinse che non c’era mai stato alcun reale progetto di attentato a Wałesa e che esso fu fatto balenare dinanzi agli occhi di Ağca da Tomov Dontchev solo per saggiarne la determinazione[174].
Poi Ağca intorbidò continuamente le acque con dichiarazioni farneticanti o aggiuntive. Inoltre, confermando le rivelazioni, presumibilmente pilotate, di Yalcin Özbey, detenuto in Germania, affermò che gli attentatori al Papa non erano due bensì tre: lui, Çelik e un misterioso Akif (19 giugno 1985). Prima, contraddicendo il nuovo collaborante, lo identificò con Omer Ay (24 giugno) e poi con Sedat Sirri Kadem, confermando Özbey (1 luglio). Poi Ağca affermò che c’erano entrambi in Piazza San Pietro, portando a quattro i killer. Non fu più possibile quindi affermare che oltre ad Ağca ci fosse qualcuno certamente con lui. Gli imputati Çatli e Özbey, accusandosi tra loro e con Ağca, inquinarono ulteriormente il quadro probatorio. Sempre Ağca gelò tutti dicendo una volta che aveva smontato la Pista Bulgara per il rapimento Orlandi (1 luglio)[175]. Il confronto tra lui e l’unico bulgaro alla sbarra, Antonov (come Tomov Dontchev, anche Ayvazov e Vassilev erano tempestivamente rientrati in patria alle prime avvisaglie di pericolo ma all’impiegato della Balkan Air non era stato consentito dal DS di fare lo stesso) non fugò i dubbi della corte anzi li alimentò per la sapiente condotta del mancato killer del Papa[176]. Quando balenò nel processo l’ipotesi della presenza in Piazza San Pietro dello stesso Antonov, una foto addotta come prova fu oggetto di perizie contrastanti e non permise di suffragare quell’asserzione di Ağca con nessun riscontro[177]. Di certo, se Antonov, a differenza di quanto detto in precedenza, non fosse rimasto in auto e fosse andato in Piazza San Pietro, potrebbe averlo fatto perché aveva un compito ignoto allo stesso Ağca, forse quello di ucciderlo subito dopo l’attentato, come poi sarebbe stato rivelato da Estermann (cosa su cui torneremo).
Continuarono nel processo le interferenze della STASI e del DS. Il 23 settembre 1985 ancora una volta il ministro bulgaro Stojanov chiese all’omologo Mielke interventi contro l’inchiesta sull’attentato al Papa[178]. Non se ne può tuttavia valutare la portata. Né mancarono i depistaggi. Il capo del SISMI Pietro Musumeci (n. 1920) si accusò di aver chiesto a Raffaele Cutolo (n.1941) e a Giovanni Pandico (n. 1944, collaboratore di giustizia e calunniatore di Enzo Tortora) di avvicinare Ağca promettendogli aiuti se avesse accusato l’Est europeo, nel marzo 1982. Il 3 dicembre 1985 vi fu il confronto tra Pandico e Ağca, conclusosi con un nulla di fatto. Musumeci dal canto suo continuava presumibilmente la linea che era stata di Santovito e di Gelli, alla cui Loggia era ascritto, usando la sua lunga esperienza di depistatore, riconosciuta e sanzionata dalla magistratura italiana per importanti inchieste, come quella per la Strage di Bologna. Nonostante ciò, la sua deposizione, costruita attorno ad alcuni elementi veritieri (come l’interrogatorio del turco nel carcere di Ascoli Piceno da parte degli agenti segreti italiani), contribuì a confondere i magistrati[179]. La presenza di agenti dei servizi segreti italiani non autorizzati presso i luoghi di detenzione di Ağca venne seccamente smentita da Ninetto Lugaresi per il SISMI ed Emanuele De Francesco (1921-2011, in carica dal 1981 al 1984) per il SISDE. In realtà, ciò che emerge dalla documentazione del SISMI non sono contatti tra il turco e la Nuova Camorra Organizzata, bensì, sia pure accennati, coi brigatisti rossi Enrico Fenzi (n. 1993) e Mario Moretti (n. 1946) durante il suo soggiorno in Italia e all’estero[180].
Un duro colpo venne poi dal fatto che i bulgari liberarono Bekir Çelenk, considerandolo innocente per l’attentato al Papa, e lo estradarono in Turchia, dove fu arrestato per traffico di droga. Qui, secondo le rivelazioni di Dinucci a Imposimato, per non essere estradato in Italia o almeno costretto a testimoniare nel processo per l’attentato al Papa, Çelenk inscenò la sua morte (14 ottobre 1985) con la complicità dei servizi segreti bulgari e poi si trasferì a Sofia sotto falso nome[181]. Sarebbe stato un teste chiave.
Ma anche con quelli vivi si commisero errori. Il presidente della Corte Severino Santiapichi (1926-2016), in rogatoria internazionale in Bulgaria, non ritenne di dover interrogare altri al di fuori di Vassilev e Ayvazov, mentre le testimonianze della moglie di Antonov, di chi poteva smentirne gli alibi, e dell’autista del famoso tir bulgaro a Roma il 13 maggio potevano servire. Il primo a dolersene fu il pubblico ministero Antonio Marini (n.1944, procuratore generale emerito presso la Corte di Appello di Roma). Santiapichi si era convinto dell’innocenza dei bulgari, ma in aula, quando si dovette leggere la sentenza, non volle terminarla e la fece concludere al vicepresidente[182]. Essa assolse tutti i bulgari e la maggior parte dei turchi, esclusi Ağca e Bağci. La sentenza valutò che c’erano elementi per ritenere che esistesse un complotto contro il Papa, ma non per ricostruirlo. Per cui quanto abbiamo affermato nei primi paragrafi di questo saggio è giudiziariamente privo di riscontri e non corrisponde alla verità processuale, che a sua volta è una esplicita ammissione di ignoranza sulle circostanze dell’attentato[183].
L’appello interposto da Marini venne rigettato dal procuratore generale Antonio Albano (n.1937, presidente emerito di sezione di Corte di Cassazione), nonostante questi in precedenza, e in altro ruolo, avesse chiesto a gran voce la condanna dei bulgari [184].
Allo stesso esito fallimentare pervenne la Terza inchiesta di Rosario Priore (subentrato nel maggio 1985 a Martella, promosso alla Procura generale della Corte di Appello; a Priore curiosamente ad un certo punto venne affidata anche l’inchiesta su Ustica, così che si trovò oberato da moltissimo lavoro[185]), conclusasi il 21 marzo 1998 con l’archiviazione anche per i nuovi complici tirati in ballo da Ağca come presenti in piazza San Pietro, ad esempio Arslan Samet (†1998), che pure tentò di sparare al Papa nei Paesi Bassi nel 1985 con una pistola dello stock acquistato ai tempi dell’attentato del 1981, e che non fu mai possibile esaminare perché le autorità olandesi affermarono che era stata, stranamente, distrutta[186].
La Terza inchiesta appurò che l’attentato di Alì Ağca avrebbe potuto essere eseguito anche con un fucile, ma presumibilmente da una posizione completamente diversa, come dalla lanterna della Basilica di San Pietro, accessibile ai turisti e dalla quale era visibile perfettamente l’appartamento pontificio[187]. Alcune foto fatte arrivare alla stampa durante la convalescenza di Giovanni Paolo II e scattate proprio da lì provavano drammaticamente che si era corso – e si correva – un rischio (ancora) molto grande.
Emerse anche che Çelik poteva esser fuggito, dopo l’attentato, con una macchina diversa da quella di Antonov e parcheggiata in un luogo differente[188], per cui, dando credito alle versioni da Ağca fornite a Martella, si potrebbe dedurre che questi fosse stato ingannato e non lo si volesse far uscire vivo da Piazza San Pietro, essendo stata predisposta per il suo complice una via di fuga ben diversa da quella nota a lui. Ma alla fine la Terza inchiesta non potè nemmeno confermare la presenza di Çelik in Piazza San Pietro.
Si poterono appurare poi le ampie connivenze di cui le Federazioni Idealiste godevano in Francia, RFT, Belgio e Paesi Bassi, nonché l’attività di Çelenk quale narcotrafficante e trafficante di armi in Italia, a capo di una organizzazione potentissima, oltre che l’indifferenza con cui i governi europei accoglievano le segnalazioni della polizia turca su svariati ricercati appartenenti ai Lupi Grigi[189]. Dettagli che da un lato davano un senso alla scelta di questi turchi come organizzatori dell’attentato da parte degli orientali (si trattava di una controparte all’occorrenza ben protetta) e dall’altra permettevano di capire come mai ancora avvenissero depistaggi e occultamenti di prove nel corso della seconda metà degli Anni Ottanta nei Paesi occidentali, evidentemente intenti anche essi a coprire o le proprie negligenze o le responsabilità dei Paesi dell’Est, in un quadro politico in continua evoluzione, oltre che i loro rapporti coi Lupi Grigi per attività poco chiare.
Nella Terza inchiesta altre piste (interna, libica, islamica) vennero prese in considerazione, ma quella che apparve sempre la più credibile fu la bulgara, che però si reggeva solo sulle dichiarazioni di Ağca, del tutto screditato. Questi ad un certo punto della Terza Inchiesta dichiarò addirittura che la Pista bulgara era falsa e costruita su indicazione dei servizi segreti occidentali (accusò, tra gli altri presunti ispiratori, Paul Heinze) mentre Çelik accusò il SISMI e due cardinali italiani, di cui ovviamente mai volle dire i nomi (in quanto immaginari), di aver organizzato l’attentato[190]. Evidentemente certi settori del Vaticano e dell’Italia preferivano simili depistaggi alla verità, nonostante il disorientamento che causavano nella magistratura. Emerse anche un depistaggio per il quale Ağca, non avendo ricevuto tutto il denaro pattuito dai bulgari per l’esecuzione dell’attentato, avrebbe contattato la CIA per informarla di ciò che stava per fare, ricevendo l’ordine di ferire soltanto il Papa, onde poi montare uno scandalo contro l’URSS[191].
Ma fu proprio nella Terza inchiesta che Priore scovò come teste Bohnsack, essendo caduto il Muro di Berlino, e ne ottenne importanti conferme al quadro probatorio che era stato a suo tempo costruito da Martella[192]. Come abbiamo detto, il tedesco raccontò che la richiesta di aiuto per i bulgari accusati da Ağca era arrivata al Politburo della DDR e che per soddisfarla egli si era ingegnato di inquinare l’istruttoria italiana, cercando di far credere che Ağca lavorasse solo per i Lupi Grigi e questi per la CIA. Confermò anche che la STASI era responsabile delle azioni disinformative ancora in atto fino al 1996. Rivelò che le voci artatamente messe in giro partivano dagli Stati più disparati, dalla Grecia alla Turchia, fino all’Italia, dove il covo dei depistatori era l’ambasciata della DDR. Uno degli scopi principali di questa attività era coinvolgere la RFT nella responsabilità dell’attentato a Giovanni Paolo II, creando finti legami tra il presidente democristiano della Baviera Franz Joseph Strauss (1915-1988, in carica dal 1978 alla morte) e Arpaslan Turkesh. L’iniziativa aveva avuto parziale successo contribuendo a creare ed alimentare dubbi sulla Pista bulgara, mentre altre missive terroristiche dei Lupi Grigi, redatte dall’HVA, al governo di Bonn avevano lo scopo di indurre i tedeschi occidentali a far pressione sull’Italia per far liberare Ağca[193]. Ovviamente, l’ufficiale della STASI non poteva ammettere responsabilità dirette o indirette nel tentato omicidio di Giovanni Paolo II e nelle vicende delittuose annesse (la maggior parte delle cose che in questo saggio fanno riferimento a lui sono tratte da quanto egli confidò privatamente a Imposimato). Bohnsack tuttavia ammise che la Polonia era il punto grave dell’equilibrio del blocco sovietico e che l’elezione di Giovanni Paolo II aveva costituito una grave minaccia che almeno alcuni avrebbero voluto eliminare fisicamente; asserì inoltre che se un servizio segreto di un Paese comunista avesse voluto assassinare il Papa, non avrebbe potuto farlo senza il consenso del KGB.
In quanto alla Pista libica, poté alimentarsi di una lettera scritta da Santovito alla Procura della Repubblica di Roma il 13 agosto 1981, nel bel mezzo del caso Farsetti-Trevisin e alla vigilia della scadenza del suo mandato (che sarebbe spirato il giorno successivo). Vi si leggeva che una donna, che aveva frequentato Ağca, aveva fornito elementi che permettevano di considerare la Libia e non la Bulgaria la vera ispiratrice dell’attentato. Tale missiva, mai giunta alla Procura (e che potrebbe persino essere falsa se redatta in seguito), era stata casualmente trovata (o fatta ritrovare) in faldoni che nulla avevano a che fare con l’inchiesta sull’attentato al Papa. Si trattava in fin dei conti dell’ennesimo depistaggio del SISMI, che ora nella Terza inchiesta trovava l’humus per germogliare[194]. Come si è visto, la Pista libica era in nuce anche nell’informativa del Mossad a Giovanni Paolo II, per cui non si capisce bene se la primogenitura di questo depistaggio sia italiana o straniera, né si può valutare il contesto politico in cui nasce (se quello della forte ostilità degli USA contro la Jamahirya o quello del buon vicinato di essa con l’Italia), così da capire se Tripoli fosse un nemico da infangare o un amico che si prestava ad una sceneggiata di per sé poco credibile. Sembra comunque che Rosario Priore non abbia considerato diversiva questa traccia emersa improvvisamente dalle nebbie del tempo.
Anche sulla Pista islamica emersero dati interessanti: sembra che Ağca si comportasse come un possibile martire prima e durante l’attentato al Papa[195]. Cosa questa che dimostrerebbe come l’idea del depistaggio islamico fosse curato sin dall’inizio della vicenda, prevedendo il caso di cattura, se non di linciaggio, del killer dopo il papicidio, coerentemente con quanto delineato sin dai tempi della lettera scritta dal turco dopo l’evasione dal carcere nel suo paese natale. Però anche questo elemento non è stato considerato depistante dal giudice Priore. Lo stesso magistrato ha ammesso che l’indagine sulla Pista islamica si è svolta senza nessuna rogatoria in Iran[196], e bisogna aggiungere che non mi risulta ne siano state fatte nemmeno in Libia. Nonostante le obiettive difficoltà, sono state due gravi negligenze. Diversa è la questione delle mancate accoglienze delle rogatorie da parte del Vaticano, deplorate da Priore: la Santa Sede non aveva motivo di soddisfare le richieste degli inquirenti italiani, in quanto appare fin troppo evidente che certe piste che portavano in Vaticano erano state costruite, se non proprio oltre le Mura leonine, almeno con il tacito beneplacito dei servizi di informazione e sicurezza del Papa, per cui erano coperte da segreto di stato, come del resto fu fatto chiaramente intendere[197].
Una menzione particolare merita un dato che, evidentemente affiorato nella Terza inchiesta, venne ricordato da Priore stesso come qualcosa che non poteva essere trattato perché privo dei dovuti approfondimenti. Si trattava di versamenti su conti dello IOR di somme di denaro presumibilmente provenienti da un conto intestato a Çatli in una banca austriaca, sia pure sotto falso nome[198]. Il magistrato di certo ignorava che questo eventuale giro di denaro avrebbe potuto essere ricondotto alle manovre dell’ambasciata bulgara, che forse aveva un conto sotto prestanome allo IOR, per pagare le spie dell’Est in Vaticano (tra cui Estermann) in un modo veramente insospettabile, se non addirittura alle manovre che Sofia potrebbe aver fatto per distruggere dalle fondamenta i finanziamenti dell’Ambrosiano alla resistenza polacca. Un filone che meriterebbe di certo un approfondimento. Nel 2002 una Commissione di Inchiesta del Parlamento bulgaro presieduta da Metodji Andreev (n. 1959) affrontò anche questo problema, raccolse un migliaio di documenti cifrati, decise di decodificarli, li ripose in una cassaforte e da lì ad oggi non sono ancora usciti[199]. Questa stessa Commissione solo nel 2015 ha pubblicato in CD-ROM tutti i documenti che ha esaminato, e quindi forse anche questi. Qualunque ricercatore veramente interessato alla soluzione di questi enigmi – non chi scrive che non ha la possibilità di dedicarsi ad essi a tempo pieno – dovrebbe procurarseli e tradurli, alla ricerca di risposte serie.
Infine, è sempre durante la Terza inchiesta che Ağca, sollecitato da Imposimato, come abbiamo detto, a scrivere al giudice Marini una lettera in cui ammettesse le sue colpe onde ottenere la grazia presidenziale, scrisse invece quella lettera del 1997 a cui abbiamo fatto cenno, in cui ricostruiva la sua carriera di agente del KGB nei Lupi Grigi, descrivendo le pressioni subite dai bulgari durante l’istruttoria della Seconda inchiesta. Sebbene le circostanze politiche sembrassero mutate, il killer turco, pur scrivendo cose vere che infatti furono confermate da altre fonti – come Bohnsack – in tutto o in parte, farcì la sua missiva di allusioni che potessero permettergli una retromarcia: parlò di inesistenti amici comuni suoi e del giudice Martella nella Massoneria e nell’Opus Dei, distinse –come dicevamo – Tomov Dontchev in due persone, affettò pietà per la Orlandi e chiese la grazia. Interrogato da Marini su questa strana missiva, come ho scritto si rimangiò tutto per l’ennesima volta.
In sintesi, i magistrati italiani, se non intimiditi, almeno frastornati dalle diverse versioni, spesso trasferiti, promossi, allontanati ed oberati di lavoro, non poterono acclarare quella verità che storicamente appare evidente. Lo stesso accadde per Adele Rando, che seguiva l’istruttoria Orlandi, chiusa il 19 dicembre 1997 senza che alcuno potesse essere perseguito. In questa istruttoria, contrariamente a quanto si dice di solito, la Santa Sede accettò tutte le tre rogatorie presentate dalla magistratura italiana[200], ma non servì a nulla, se non a mantenere il Vaticano in costante imbarazzo. Il Parlamento italiano rifiutò la proroga sia all’inchiesta sull’attentato al Papa che a quella sul sequestro Orlandi.
Una nuova inchiesta sulla ragazza sequestrata fu aperta nell’ottobre 1997, senza migliori risultati. L’ultima istruttoria sul caso Orlandi fu chiusa nel 2010, sulle piste alternative di cui abbiamo detto, anch’essa con un nulla di fatto.
La gestione del depistaggio sul caso Orlandi fu sicuramente un grande successo per la STASI, forse inferiore solo a quello avuto nel propalare la calunnia del silenzio di Pio XII (1939-1958) nella Seconda Guerra Mondiale sullo sterminio degli Ebrei. Perciò accanto alla pista della Banda della Magliana, molte altre ne sono sorte: quella a sfondo sessuale interna al Vaticano (proposta da Pino Nicotri, peraltro molto acuto nello smontare quella della Banda della Magliana e nel denunciare il sensazionalismo mediatico che l’accompagnò), quella del ritorno in casa della Orlandi sotto mentite spoglie (sostenuta da Raffaella Hidalgo e stigmatizzata, comprensibilmente, dalle querele della famiglia della ragazza), quella dell’omicidio pedofilo (avanzata da Padre Gabriele Amorth). Nessuna di queste piste riunifica tutti gli aspetti della vicenda della ragazza, tutte tendono ad elidersi a vicenda mentre molte continuano ad alimentarsi, più o meno consapevolmente, della denigrazione di Marcinkus, per cui appare evidente che uno dei moventi di quel sequestro fu proprio la delegittimazione dello IOR e indirettamente di Giovanni Paolo II. Tuttavia, essendo questi figura di immenso prestigio, paradossalmente il caso Orlandi ha potuto assumere i suoi gotici connotati proteiformi soltanto dopo la morte del Papa. Vale la pena di segnalare che il fratello della scomparsa, Pietro, che giustamente cerca la verità sulla sorella, ha sostenuto la pista del terrorismo internazionale, anche se a mio avviso ha corso e corre il rischio di essere strumentalizzato, anche senza accorgersene. Il caso Orlandi è emerso di nuovo in occasione dell’insediamento della Commissione Mitrokhin, di cui diremo tra breve. Si può ipotizzare che sia venuto fuori il depistaggio della Banda della Magliana anche alla luce del rischio che questa Commissione consisteva per certi segreti legati all’attentato al Papa e gelosamente custoditi in certi ambienti italiani. Infine, il sequestro Orlandi è stato messo nel fascio dei vatileaks, ossia degli pseudodossier impugnati contro Benedetto XVI, a dimostrazione della sua valenza oramai politica, senza che nulla di realmente nuovo fosse emerso sulla faccenda. Se ad agitare lo spettro della Orlandi in quest’ultima circostanza fosse stato ancora qualche agente dell’Est, ciò si potrebbe mettere in relazione col fatto che la Russia non gradisse né i tentativi della Santa Sede di esercitare influenza sulla Chiesa Ortodossa né la vicinanza politica tra Vaticano e USA, e che temesse la linea di trasparenza di Papa Ratzinger, così da depotenziare ed annullare qualsiasi sua eventuale futura rivelazione sull’argomento. Infatti, sotto il pontificato di Francesco (2013-) il caso Orlandi è tornato in standby, proprio mentre Vaticano e Russia hanno ripreso rapporti più proficui. Interessanti sono i dati di Peronaci, nella sua opera citata in precedenza e basata su alcune controverse ma interessanti testimonianze che la magistratura romana ha tuttavia considerato prive di riscontri. In Vaticano sarebbe esistito un gruppo di laici ed ecclesiastici filocomunisti – il che si appaia benissimo con le rivelazioni sulle spie in esso annidate – e filomassoni che volevano contrastare la politica di Giovanni Paolo II e di Marcinkus, favorendo invece quella di Casaroli. Questo gruppo dapprima prestò un supporto logistico all’attentato contro il Papa e poi gestì i sequestri Gregori e Orlandi, fino a quando le ragazze rimasero in Italia. I sequestri avevano gli stessi scopi che ho descritto in questo saggio. Il gruppo poi avrebbe tentato di esercitare pressioni su ecclesiastici di diverso orientamento predisponendo uno scandalo sulla pedofilia che sarebbe potuto scoppiare in qualunque momento: esso, basato sulla presenza di un presunto archivio di quindicimila diapositive pedopornografiche in locali appartenenti alla Santa Sede, sarebbe stato reso più scottante con l’interpolazione tra esse di diapositive della Orlandi e della Gregori, che originariamente non vi erano contenute. La Orlandi, trascorso tutto il 1983 a Roma, sarebbe poi stata portata in Francia e avrebbe ricevuto un passaporto iraniano e uno indiano. Questi dati saranno pure privi di riscontri, le fonti saranno pure controverse e molte cose anche palesemente false, ma potrebbero contenere elementi di verità utili a ricostruire alcuni punti oscuri dei sequestri e dell’attentato al Papa. Per esempio inserisce De Pedis nel sequestro non come mandante ma come esecutore e agli ordini del gruppo di potere summenzionato. Ossia inquadra il suo ruolo in un contesto politico preciso, che peraltro rende giustizia del fatto che a volte emerga il suo nome nell’inchiesta senza però mai una forza probante sua propria.
In realtà era stato il contesto storico a decidere per i giudici. Vediamo in quali termini
IL NUOVO QUADRO INTERNAZIONALE
Gli anni del processo furono sicuramente quelli di maggior crisi per il governo di Živkov, ma soprattutto furono quelli dell’ascesa di Gorbacev (al potere dal 1985 al 1991). Il discepolo di Andropov, che aveva votato per l’attentato al Papa, non poteva essere lambito dallo scandalo, tanto più che oramai, spuntata l’arma della guerra atomica, l’URSS doveva piegarsi ad una linea conciliativa che era foriera di buoni eventi per tutti, dai grandi capitalisti agli USA, dall’Europa al Vaticano stesso. Gorbacev divenne segretario del PCUS nel mese di marzo 1985, quando iniziò il Secondo processo. L’ascesa gorbaceviana era l’asso che i potentati economici volevano giocare per inserire la futura URSS nel quadro del mondialismo, per cui la favorirono. Gorbacev sin dal 1983 fu convinto dal celebre avvocato Jim Garrison (1921-1992) a costituire una Fondazione negli USA per finanziare la sua politica, e tra i benefattori di essa vi fu anche David Rockfeller (1915-2017). La Fondazione lo sostenne anche dopo la fine del suo potere in URSS. Una volta al potere, la Fondazione Est-Ovest della RFT ne promosse l’immagine in tutto l’Occidente[201]. Questi potentati allontanarono ogni ombra di sospetto di coinvolgimento dell’URSS gorbaceviana dall’attentato al Papa e sono ancora attivi. Dagli USA si levarono voci autorevoli contro la Bulgarian Connection, che rilanciavano i dubbi sulle presunte pressioni del SISMI su Ağca quando era nel Carcere di Ascoli Piceno[202].
Dal canto suo, Gorbacev incaricò proprio Bohnsack di coordinare l’azione propagandistica che distogliesse ogni sospetto dall’URSS e che fu fatta simultaneamente da tutti i servizi dei Paesi dell’Est (Ungheria, Cecoslovacchia, Polonia, DDR, Bulgaria) attraverso i loro gregari nella stampa del mondo libero[203].
Fino alla fine del processo di appello nel dicembre 1987, il nuovo leader russo modificò la nomenklatura brezneviana, incontrò Reagan a Ginevra per trattare il disarmo (novembre 1985), tenne il XXVII Congresso del Partito in cui “debreznevizzò” l’URSS e annunciò la perestrojka in economia (febbraio-marzo 1986), prolungò la moratoria sugli esperimenti nucleari proponendo senza successo agli USA che cessassero del tutto (agosto), incontrò nuovamente Reagan a Reykjavík per discutere – senza frutto – dello smantellamento dello scudo spaziale americano (ottobre), annunziò al Comitato Centrale un nuovo modo di scegliere i quadri del Partito dando così inizio alla glasnost (gennaio 1987), fece un’amnistia (febbraio), decretò il ridimensionamento del ruolo dello Stato in economia, la riforma delle imprese pubbliche, la concessione di maggior autonomia finanziaria alle imprese e la limitazione del potere dei Piani quinquennali (giugno), concordò sull’ “opzione doppio zero” con gli USA per l’eliminazione totale dei missili nucleari a portata intermedia in Europa e Asia (luglio), ribadì la linea riformatrice nel settantesimo anniversario della Rivoluzione di Ottobre (novembre), firmò a Washington con Reagan il trattato per lo smantellamento degli euromissili (dicembre). Chi avrebbe potuto correre dietro ad un fossile della Guerra Fredda come la Pista bulgara, o come il caso Orlandi, in un simile contesto?
Analoghe trasformazioni avvennero nell’Est europeo. In Polonia Jaruzelski divenne presidente della Repubblica nel novembre 1985. Nel settembre 1986 il Presidente amnistiò tutti i detenuti politici e Wałesa si dichiarò disponibile al dialogo col governo. Nel giugno 1987 Giovanni Paolo II fu per la terza volta in Polonia, e difese l’operato di Solidarność. Fu l’ennesimo trionfo papale in terra natìa, nonostante l’Operazione Aurora II, con cui il KGB e l’SB infiltrarono, ancor più massicciamente delle due volte precedenti, le forze dell’ordine, i fedeli e i giornalisti, e intasarono i mezzi di comunicazione e le infrastrutture per limitare ancora una volta l’afflusso di fedeli[204]. Dopo questa ennesima azione di forza fallita, anche Gorbacev – che fino a quell’anno ancora faceva propaganda attiva antireligiosa e perseguitava i credenti in URSS e patrocinava questi comportamenti nei Paesi satelliti[205], mentre preferiva intendersi con l’universo massonico anticattolico[206] – dovette riconoscere che il vero capo del popolo polacco era il Papa. Solidarność incassò altri due successi: il sostegno dell’Amministrazione USA e quello del popolo, che su invito del sindacato boicottò il referendum governativo sulle riforme politiche ed economiche dell’ottobre- novembre 1987.
Questo trend politico ad Est proseguì negli anni della Terza inchiesta, con esiti ancora più radicali. Gorbacev a Ginevra concluse l’accordo per il ritiro delle truppe sovietiche dall’Afghanistan (aprile 1988), affrontò il tema dei diritti umani in URSS nel vertice di Mosca con Reagan (maggio 1988), permise la celebrazione del Millenario della cristianizzazione della Russia (giugno 1988) e, pur non consentendo la visita di Giovanni Paolo II ed opponendosi risolutamente all’unione tra la Chiesa Cattolica e quella Ortodossa[207], accolse a braccia aperte Agostino Casaroli. Ma oramai la linea vincente era quella papale, non quella del Segretario di Stato.
In Polonia infatti l’URSS dovette fare retromarcia davanti al Papa entro la fine dell’anno. Dopo un altro anno di braccio di ferro, con manifestazioni di protesta a febbraio 1988, scioperi a maggio e repressioni in agosto, proseguite in ottobre con la chiusura dei Cantieri Lenin di Danzica in ottobre, e nonostante l’appoggio di Gorbacev in visita in Polonia nel luglio di quell’anno, il governo dovette piegarsi (e l’URSS dare il via libera) alla tavola rotonda delle trattive con Chiesa e Solidarność nel febbraio 1989. Il mese successivo in Vaticano monsignor Marcinkus diede le dimissioni dalla Presidenza dello IOR, in quanto prima avrebbero significato una sorta di ammissione di colpa o una resa. Nel giugno si tennero in Polonia le prime elezioni libere del Dopoguerra da cui uscì vincitore Solidarność, per cui a luglio si insediò il governo del cattolico liberale Tadeusz Mazowiecki (1927-2013, in carica dal 1989 al 1991), in cui però i comunisti, sia pure in via di trasformazione e revisione ideologica, poterono mantenere posizioni importantissime.
In URSS intanto Gorbacev proseguì le riforme economiche e tra aprile e maggio 1989 iniziò il ritiro delle truppe sovietiche dall’Ungheria, dalla DDR, dalla Cecoslovacchia e dalla Mongolia, nonché di tutti i missili russi dai Paesi del Patto di Varsavia; abbandonò inoltre la dottrina della Sovranità Limitata (luglio 1989). Questo segnò la fine del progetto gorbaceviano di rinnovamento del blocco sovietico e il ripiegamento su quello del nazionalbolscevismo, che prevedeva il sacrificio dell’impero esterno. Così, come un castello di carte, i regimi bolscevichi caddero uno dopo l’altro. Nell’ottobre del 1989 il Partito Comunista Ungherese si trasformò in Socialista. Nella DDR Eric Honecker (1912-1994, in carica dal 1971 al 1989) fu costretto a dimettersi e il 9 novembre iniziò la demolizione del Muro di Berlino. Nel novembre l’intero vertice del Partito Comunista Cecoslovacco, con Gustáv Husák (1913-1991, in carica dal 1969 al 1989) in testa, si dimise. Nello stesso mese si dimise anche il presidente bulgaro Živkov. Nel dicembre Nicolae Ceaucescu (1918-1989, in carica dal 1965 al 1989) venne deposto e giustiziato in Romania. Tutti i capi comunisti i cui ministri della Difesa avevano approvato nella riunione di Bucarest l’attentato al Papa erano oramai privi di potere. Il 1 dicembre lo stesso Gorbacev dovette recarsi in Vaticano ad omaggiare Giovanni Paolo II e a chiedere aiuto per il suo progetto politico. Nel 1990 si disfece anche la Jugoslavia e la Santa Sede diede un riconoscimento immediato all’indipendenza delle cattoliche Slovenia e Croazia (1991), mentre si batté moltissimo per la pacificazione della Bosnia Erzegovina (1992-1995) e del Kosovo (1998). Nel 1991 anche l’Albania potè tenere le sue prime libere elezioni. Giovanni Paolo II si sarebbe più volte trionfalmente recato in ognuno di questi paesi (1990: Cecoslovacchia; 1991, 1995, 1999, 2002: Polonia; 1991: Ungheria; 1993: Albania; 1994, 1998, 2003: Croazia; 1995, 1997: Cechìa; 1997, 2003: Slovacchia; 1996, 1999: Slovenia; 1997, 2003: Bosnia – Erzegovina; 1999: Romania; 2002: Bulgaria), ripristinandovi la piena libertà della Chiesa. Anche negli altri continenti il Papa poté, in loco, celebrare il trionfo della Chiesa sul marxismo (1988: Mozambico; 1989: Zambia; 1990: Mali e Burkina Faso; 1992: Angola, Guinea; 1996: Nicaragua; 1998: Cuba).
In realtà dietro molti di questi cambiamenti di regime in Europa c’erano stati i tentativi del KGB e del GRU di mantenere un controllo diverso sui vecchi satelliti, rottamando i vecchi comunisti e sostituendoli con i gorbaceviani: Markus Wolff supportò ad esempio il cambio di regime in DDR e tra i politici che emersero nel nuovo Partito Socialista ci fu il già menzionato Gregor Gysi (n. 1968), figlio della spia della STASI in Vaticano. In ragione di ciò, i vecchi quadri del Partito e della HVA continuarono a lavorare per tenere segreti i propri delitti, ancora ben protetti, con nuove ragioni di opportunità, compreso ovviamente il loro ruolo nell’attentato al Papa e nel sequestro Orlandi.
Dal 1990, quando le due Germanie si riunificarono, fu il governo federale che presumibilmente si assunse l’onere di coprire certi segreti, sia per saldare il debito con quegli ex-comunisti rapidamente convertitisi alla causa pantedesca, sia per coprire le responsabilità depistatrici e compromissorie dell’ex-governo di Bonn coi Lupi Grigi.
In Bulgaria l’ala riformista del Partito fu determinante nella caduta di Živkov, e i comunisti rimasero al potere con Stanko Todorov (1920-1996) e altri esponenti della nomenklatura fino al 1990, quando il Partito divenne ufficialmente socialista. Ovviamente, anche il gotha del vecchio regime continuò a proteggere se stesso e i propri agenti dalle responsabilità nell’attentato al Papa. Questa manovra depistatrice e occultatrice potrebbe continuare di fatto fino ad ora, perché ancora grande è l’importanza degli ex-comunisti nel Paese. A prova di ciò, nel 2002 Giovanni Paolo II dichiarò, andando in Bulgaria, che non aveva mai creduto alla Pista bulgara, per non urtare una vasta parte dell’opinione pubblica di quel Paese. Una restrizione mentale, certo: il Papa sapeva bene che la Pista non finiva a Sofia, ma arrivava a Mosca. Solo nel settembre 2015 il Parlamento bulgaro ha varato una legge per la punizione dei crimini degli esponenti del regime comunista. Per cui si deve ancora vedere se potranno emergere delle responsabilità accertate ufficialmente e se potranno essere punite.
Dal canto loro gli USA seppero trarre il maggior profitto possibile dalla guerra spionistica che si combattè in questo periodo. Distrutto dalla popolazione inferocita l’archivio STASI a Berlino nel gennaio 1990, solo una parte della ricca documentazione sopravvisse e venne reso noto; una terza frazione cadde invece nelle mani americane, come i trecentottantuno CD-ROM del dossier Rosenholz, trafugati dalla spia Gauck, pastore protestante che ufficialmente lavorava per il governo tedesco occidentale[208]. Anche in Bulgaria gli Americani acquistarono la documentazione segreta riguardante l’attentato al Papa e se la portarono a Washington[209]. Molte spie dell’Est presero a lavorare per l’Ovest. Una proposta del genere fu fatta allo stesso Wolff, che però la rifiutò. Ovviamente, queste manovre non aiutarono la conoscenza della verità sull’attentato al Papa, ma anzi diedero nuove ragioni agli insabbiamenti. Negli USA Melvin A. Goodman (n. 1938), analista della CIA esperto in questioni sovietiche (e oggi senior fellow al Center for International Policy), dichiarò che per ordini superiori i suoi colleghi (ma non lui) avevano falsificato le valutazioni della Pista Bulgara per scopi politici e asserì dinanzi al Congresso USA che non vi erano prove a suo sostegno[210]. Non spiegò però il contegno riservato ed oscillante della CIA negli anni in cui quella Pista era tanto calda e pericolosa. Dal canto suo Bohnsack avrebbe voluto semplicemente far conoscere al mondo i segreti della STASI, ma dopo una breve fase collaborativa fu intimidito probabilmente dal GRU e ridotto a un temporaneo silenzio, tra il 1995 e il 1996[211]. Solo nel maggio 2015 la Commissione di Inchiesta bulgara Andreev ha pubblicato un CD-ROM contenente tutti i documenti relativi ai rapporti tra DS e STASI.
Cose simili potrebbero essere raccontate per l’Ungheria, la Cecoslovacchia e la stessa Polonia, dove a lungo i comunisti diventati socialisti poterono occupare posizioni di potere.
In questo contesto iniziò e terminò il processo di dissoluzione dell’URSS: sebbene Gorbacev fosse diventato presidente dell’URSS il 15 marzo 1990, questo fu l’anno in cui Estonia, Lettonia e Lituania ritrovarono l’indipendenza perduta nel 1939. Persino il Papa avrebbe voluto una dilazione dell’indipendenza delle Repubbliche baltiche, paventando un indebolimento di Gorbacev, ma il processo, a dispetto dell’intervento dell’Armata rossa – mentre il mondo era distratto dalla Seconda Guerra del Golfo del 1990 – fu inarrestabile. Dopo che nel luglio 1991 Gorbacev aveva firmato l’accordo START per la riduzione delle armi strategiche tra USA e URSS a Londra, il 18 agosto fu deposto da un colpo di Stato dei notabili della vecchia nomenklatura sovietica, che proclamarono lo stato d’assedio. A un vibrante appello di Giovanni Paolo II, in quei giorni in visita pastorale in Ungheria, seguì l’ostilità internazionale al nuovo governo e la rivoluzione del presidente della RFSR Boris El’cin (1931-2007) il 21 dello stesso mese.
Liberato, Gorbacev il 25 agosto si dimise da segretario del PCUS che, dichiarato illegale nella Federazione Russa, si sciolse. Dal 20 agosto in poi si proclamarono indipendenti dall’URSS tutte le Repubbliche che la costituivano. L’8 dicembre, giorno dell’Immacolata Concezione, la proposta della rifondazione dell’Unione fatta dal leader venne bocciata e la stessa Russia si dichiarò indipendente dall’URSS. Al suo posto sorse la Comunità degli Stati Indipendenti, il 12 dicembre, orbata delle Repubbliche Baltiche. Il 25 dicembre, Natale del Signore, la bandiera sovietica venne ammainata dal Cremlino, mentre Gorbacev si dimetteva dalla presidenza della dissolta Unione. Ora coloro che erano stati esecutori dei disegni criminali di Andropov, in attesa di un nuovo protettore, dovevano vegliare con maggior attenzione sulla loro immunità, nascondendo e occultando prove e indizi, con l’aiuto di chi, in Occidente, li aveva coperti nell’interesse della distensione. Ma anche in questo caso la vittoria di Giovanni Paolo II fu significativa: se non potè mai mettere piede a Mosca, toccò molti luoghi dell’ex-URSS (1993: Estonia, Lettonia, Lituania; 1999: Georgia; 2001: Khazakhistan e Armenia; 2002: Azerbajigian) e potè restaurare la gerarchia cattolica in tutti gli Stati ex-sovietici.
Vale la pena di rilevare che, caduta l’URSS, improvvisamente anche le finanze vaticane smisero di avere problemi e furono rimesse in perfetto ordine. Nel 1990 Marcinkus, per volontà del Papa, si dimise anche dalla Pro-Presidenza della Pontificia Commissione per lo Stato della Città del Vaticano, sebbene avesse solo sessantotto anni, e si ritirò negli USA, protetto dall’immunità diplomatica; nello stesso anno finì la breve proroga alla Segreteria di Stato concessa da Giovanni Paolo II al cardinale Casaroli, rimpiazzato da Angelo Sodano (n. 1927, in carica dal 1990 al 2007 sotto Benedetto XVI), creato cardinale l’anno successivo. Finiva così la Guerra fredda anche in Vaticano.
Altre brevi note politiche contestualizzatrici del fallimento dei processi sull’attentato al Papa devono essere fatte. Ad esempio per la Turchia. Le Federazioni Idealiste protestarono sempre la loro innocenza e Musa Serdar Çelebi interpose addirittura appello contro le condanne minori che gli furono inflitte, ma lo perse. Al di là di questo dato oggettivo, ricordiamo che Evren, il presidente dispotico che aveva messo fuori legge l’MHP nel 1980, proprio nel 1982, l’anno in cui nasce la Pista bulgara, aveva restaurato la democrazia, pur rimanendo al potere fino al 1989. Ragion per cui, nel 1983, l’anno di maggior attivismo sotterraneo contro la Pista bulgara e dei sequestri Gregori e Orlandi, l’MHP rinacque come Partito dell’Impegno Nazionalista (MCP), mentre riprese il suo nome nel 1992. Arrivò in coalizione al potere nel 1999 e nel 2015 ha avuto ottantadue seggi. Ad esso sono legati alcuni di quei turchi citati en passant in questo saggio ed ancora viventi.
Da questo emergono due dati: il primo, che i Lupi Grigi in Europa e in Turchia erano abbastanza potenti eventualmente da mantenere le protezioni avute fino a quel momento e anzi da aumentarle, per evitare che le imbarazzanti responsabilità di alcuni di essi nell’attentato al Papa e nel sequestro Orlandi-Gregori venissero fuori. Indipendentemente dal fatto che tra i Lupi Grigi avevano agito soprattutto prezzolati o infiltrati del KGB e del GRU e della mafia turca. Infatti una eventuale inchiesta avrebbe messo in luce molte attività illegali delle Federazioni e infangato lo stesso movimento politico. Un movimento politico che aveva oramai tanto prestigio che nel novembre 1996, quando morì Çatli in un incidente automobilistico, il ministro dell’Interno turco – al potere vi era il Partito della Retta Via, uno schieramento conservatore, laico per convenzione ma con una tradizione islamista, assieme al Partito della Madrepatria, nazionalista – lo commemorò ufficialmente, anche perché viaggiava in macchina non col capo dei servizi segreti, come curiosamente scritto in alcune autorevoli fonti[212], ma con il capo dell’unità antiguerriglia Huseyn Kocaday (1944-1996), defunto anche lui, e con il capo di una fazione militare curda filogovernativa, Sedat Bucak (n. 1960), rimasto solo ferito[213]. Il ministro turco attestò, nella commemorazione, che Çatli si era speso, nella sua vita, nell’interesse della Turchia, a servizio di una potenza straniera, che evidentemente era stata l’URSS, oramai dissolta. Questa attitudine depistante e coprente aumentò via via che la partnership tra Europa e Turchia si andò rinsaldando.
Il secondo dato che emerge è che elementi nuovi poterono diventare moventi per tentare di completare il progetto antipapale: il nome di Çelik, emerso, come dicevamo nell’apparato erudito, a proposito di un piano omicida contro Giovanni Paolo II in Bosnia, mostrerebbe, se il coinvolgimento fosse reale, che al mandato russo si era andato a sostituire il rancore panislamico e panturco come movente per una azione simile. Movimento panislamico e panturco al quale, per inciso, il Papa si opponeva risolutamente recandosi in prima persona nei Paesi in cui esso voleva espandere le sue propaggini (come dicevamo, in Kazhakhistan e Azerbajigian). Per cui oggi l’MCP, inserito nel quadro istituzionale turco, potrebbe far sì che il governo di Ankara fosse tra quelli che non avrebbero interesse a fare eventualmente nuova luce sulla vicenda dell’attentato al Papa, purchè Ağca e compagni continuassero a dare versioni sempre diverse.
In quanto all’Iran, non mi risulta che gli Ayatollah abbiano mai protestato energicamente per i tentativi di trascinarli nell’attentato al Papa. Ma per certo dal 1985 al 1987 essi acquistarono armi americane nel quadro dell’affare Iran-Contras. Se la Pista islamica fu una invenzione americana, Teheran avrebbe potuto anche accettare un (improbabilissimo) coinvolgimento processuale per aiutare gli USA a salvare la distensione, magari anche per farsi perdonare dall’URSS l’aiuto indiretto dato agli anticomunisti del Nicaragua.
Un ultimo rilievo riguarda l’Italia. Pur nelle convulse mutazioni politiche che la videro protagonista negli anni delle inchieste sull’attentato al Papa, essa ebbe sempre un saldo orientamento verso una diplomatica reticenza sulle verità più scottanti. Questa fu la linea di Andreotti sia alla Farnesina che a Palazzo Chigi (1989-1992), tanto che il pubblico ministero Marini dichiarò di aver percepito una volontà frenante del Ministero degli Esteri verso la Pista bulgara[214]. Andreotti nel 1991 arrivò a chiedere formalmente a Gorbacev se gli constasse un qualche coinvolgimento sovietico nell’attentato, e ne ebbe ovviamente una risposta negativa[215]. Ma il 5 luglio 1990 il CESIS aveva informato il governo dello stesso Andreotti della fondatezza della Pista bulgara, del complotto sovietico, dell’Operazione Papa e delle microspie nell’appartamento di Casaroli[216].
Su questa linea depistante si tenne il Pentapartito – poi Quadripartito- fino al 1994. E in questa Italia che stese un velo di silenzio sui misteri sempre più remoti dell’attentato al Papa, un ombra di sospetto aleggiò anche sulla fine di Paolo Farsetti. Questi morì l’8 maggio 1991 sulla E45 a Mercato Saraceno in provincia di Forlì. La sua macchina, ferma in una piazzola di sosta, fu speronata da un furgone. Secondo una fonte anonima, qualificata quale poliziotto in servizio a Roma, egli era di ritorno da un incontro con un politico romano importante e aveva con sé alcune valigette contenenti documenti relativi all’attentato al Papa. In macchina con lui vi era un non identificato esponente della Massoneria di Arezzo, uscito sostanzialmente illeso dall’incidente, del quale avrebbe approfittato per impossessarsi della documentazione. Essa sarebbe stata consegnata a Giulio Rocconi (n. 1967), collaboratore di Francesco Pazienza e confidente di Licio Gelli. Tali carte sarebbero state anche oggetto di interesse di Luciano Violante (n. 1941, importante esponente del PCI –PDS- DS -PD, poi Presidente della Commissione Parlamentare Antimafia [1992-1994] e della Camera dei Deputati [1996-2001]), considerato dai suoi nemici politici il capo delle toghe rosse in Italia, ma che evidentemente in tal maniera fu estromesso da qualsiasi possibilità di consultarle[217]. Tali voci sono tuttavia prive di qualunque riscontro, non hanno avuto alcuna eco e la fonte, essendo anonima, non può essere valutata nella sua attendibilità. Il dato obiettivo è che la morte di Farsetti, così com’è descritta, appare sospetta. L’elemento da appurare sarebbe se realmente esistettero delle carte in mano al defunto.
Defunta la Prima Repubblica sotto l’assalto della magistratura per la corruzione, vera e presunta, della sua classe dirigente, sopravvenne, dopo l’effimera stagione del I Governo Berlusconi (1994) – peraltro desideroso di coltivare buone relazioni con la Russia – una lunga fase di egemonia delle sinistre, dal 1994 al 2001. L’Italia fu l’unico Paese occidentale in cui i comunisti, abiurato il comunismo, andassero al potere e realizzassero i loro disegni egemonici a discapito dei propri antichi rivali politici. In quegli anni all’esigenza di convivenza coi Russi e di custodia dei segreti del passato, si aggiunse verosimilmente il timore che venissero a galla le connivenze tra italiani e sovietici attraverso il famoso Dossier Impedian dell’ex archivista del KGB Vassilji Mitrokhin (1922-2004), già più volte citato nelle pagine precedenti. Portato in Gran Bretagna nel 1992, divulgato in Italia nel 1995-1996, trasfuso in un bestseller non a caso difficilmente reperibile in Italia[218], consegnato alle istituzioni in una forma censurata dal SISMI, esso fu oggetto di una lunga analisi da una Commissione d’Inchiesta tra il 2002 e il 2006[219]. Essa tentò di illuminare, peraltro con poco materiale (anche per il forte boicottaggio russo), gli antri oscuri dell’attentato al Papa, ma il risultato fu un infittirsi della cortina fumogena attorno agli arcani della Guerra Fredda e una frattura verticale tra i commissari, che redassero due relazioni finali, delle quali la maggioritaria mise l’attentato stesso in relazione ai piani bellici dell’URSS (che con una Polonia instabile non avrebbe potuto aggredire l’Occidente e, aggiungo io, nemmeno difendersi in caso di attacco) e la minoritaria negò semplicemente l’esistenza di un complotto comunista contro il Papa, mentre escluse ogni correlazione tra l’attentato a Giovanni Paolo II e il sequestro Orlandi, non senza tralasciare dati importanti nella ricostruzione e nella valutazione dell’una e dell’altra vicenda.
Una nota particolare merita la situazione interna alla Chiesa negli anni in cui Giovanni Paolo II fronteggiò il comunismo. Se molti movimenti ecclesiali, prelati, ecclesiastici, religiosi e semplici fedeli trovarono nella violenza fatta al Papa la ragione, semplice ed umana, per stringersi devotamente attorno a lui nella lotta contro i nemici del Cattolicesimo – ossia se l’attentato, nella sua valenza sacrilega ed iconoclastica, ebbe inevitabilmente una ricaduta politica rafforzando il prestigio del Capo della Chiesa e dando credibilità al suo insegnamento scritto col sangue – altri, meno numerosi ma influenti, circondarono di silenzio gli eventi del 13 maggio 1981, proprio per cercare, peraltro inutilmente, di attutire l’impulso che essi avevano dato alla crescita dell’autorevolezza di Giovanni Paolo II. Lo facevano per ostacolare quegli aspetti che essi consideravano anacronistici del suo magistero e del suo governo.
Alcuni alti prelati guardavano di malocchio la sua lotta- considerata impossibile da vincersi contro Mosca e contro la Massoneria (con la cui forza globale essi avrebbero voluto convivere tanto quanto con quella del comunismo). Erano coloro che non avevano accettato né la reiterazione della scomunica dei cristiani iniziati nelle società segrete nel nuovo Codice di Diritto Canonico (promulgato il 25 gennaio 1983) né l’abolizione delle modeste aperture di Paolo VI ai battezzati adepti della Massoneria. Papa Montini, con una lettera riservata della Congregazione della Dottrina della Fede alle Conferenze Episcopali di tutto il mondo, datata 19 luglio 1974, aveva invitato i presuli a valutare se e quanto le singole logge fossero ostili alla Chiesa ai fini di infliggere l’anatema o assolvere i battezzati che vi fossero iniziati. Papa Wojtyła, con una dichiarazione pubblica dello stesso dicastero, in data 17 febbraio 1981, aveva ribadito la disciplina tradizionale della Chiesa e affermato che il documento precedente aveva mera valenza pastorale. Il 26 novembre 1983, incurante delle pressioni dei Paesi occidentali e del timore di battagliare non solo coi comunisti ma anche coi mondialisti, il Sommo Pontefice aveva promulgato la Dichiarazione circa le Associazioni Massoniche, con cui ribadiva l’anatema per i loro membri. Rincarò la dose il 23 febbraio 1985 con le Riflessioni ad un anno dalla Dichiarazione precedente. Se il primo documento wojtyłiano aveva la firma di quel cardinal Franjo Šeper (1905-1981) che pure aveva sottoscritto la lettera riservata voluta da Montini, gli altri erano siglati, con maggior prestigio, dal più grande teologo vivente, il cardinale Joseph Aloïs Ratzinger.
I cosiddetti teologi del dissenso, generalmente liberal e radical chic, assai critici con l’imperialismo capitalista e di solito muti sui crimini del comunismo, non digerivano né la difesa della vita e della famiglia fatta dal Papa né lo stop da lui imposto alla deriva della contestazione ecclesiastica postconciliare. I cattolici sedicenti progressisti guardavano freddamente il Papa ovunque nel mondo (famigerata, perché colà essi erano maggioritari, proprio l’accoglienza da essi tributatagli nel suo pellegrinaggio in Belgio Olanda e Lussemburgo nel 1985). Ad essi il Pontefice non fece mancare di sentire la sua severa voce di custode del Depositum Fidei: la Lettera della Congregazione della Dottrina della Fede a Padre Edward Schillebeecks (1914-2009) del 1984, la Notificazione allo stesso Schillebeecks del 1986 (anch’essa partita dal Palazzo del Sant’Uffizio), l’Istruzione Donum Vitae del 1987, la Nota sull’Humanae Vitae del 1989, la Lettera Orationis Formae dello stesso anno, l’Istruzione Donum Veritatis del 1990, le Alcune considerazioni sulla discriminazione delle persone omosessuali del 1992 (tutti e cinque provenienti dalla Congregazione della Dottrina della Fede), la Lettera Enciclica Veritatis Splendor del 1993, la Lettera sulla Comunione ai divorziati risposati del 1994 (siglata da Ratzinger), la Lettera Enciclica Evangelium Vitae del 1995, l’Epistola Apostolica Ordinatio Sacerdotalis, la Dichiarazione Dominus Jesus del 2000, il Decreto di scomunica delle donne ordinate sacerdote nel 2002, la Nota dottrinale sui cattolici in politica dello stesso anno, le Considerazioni sui matrimoni omosessuali del 2003 (tutti e quattro usciti dal dicastero di Piazza del Sant’Uffizio) sono i documenti che attestano la risolutezza con cui la Santa Sede di Giovanni Paolo II combattè la sua battaglia dottrinale durante e dopo gli anni dell’attentato.
I teologi della Liberazione accostavano arbitrariamente Marx e Gesù Cristo, nonostante le severe prese di posizione del Papa, specie durante i suoi viaggi in America Latina. I gesuiti mesoamericani e di altre parti del mondo postulavano l’abbraccio tra il socialismo e il cattolicesimo, una volta che fosse stato orfano di Giovanni Paolo II. Molti di costoro erano, inconsapevolmente o meno, manipolati proprio dagli agenti sovietici, dei Paesi dell’Est, dagli infiltrati delle società segrete e in genere da soggetti inclini ai compromessi coi poteri mondani. Anche per essi il Papa e il prefetto apostolico Ratzinger non lesinarono ammonimenti e provvedimenti: la Notificazione a Leonardo Boff del 1985 e l’Istruzione Libertatis Conscientia del 1986, entrambe emanate dalla Congregazione della Dottrina della Fede sono i documenti più importanti in materia. Importante anche la sospensione a divinis di Ernesto Cardenal (n. 1925), la cui buona coscienza cristiana lo aveva portato a combattere, sebbene prete, la dittatura militare di Anastasio Somoza Debayle (1925-1980, in carica dal 1967 al 1979), ma non gli aveva impedito di diventare ministro della Cultura della Giunta Sandinista e poi di Daniel Ortega (n. 1945, in carica dal 1985 al 1990 e ora dal 2007), dal 1979 al 1987, nonostante il pubblico rimprovero di Giovanni Paolo II in visita in Nicaragua. La sospensione è stata rimessa solo da Papa Francesco nel 2014 in ragione dell’età avanzata del sacerdote, che peraltro nel 1994 ha rotto con Ortega, attualmente impegnatissimo a rimanere presidente del suo Paese per tutta la vita.
Non si mente affermando che non tutta la Chiesa fu solidale con il suo Papa quando questi, aggredito in casa sua, tentò di fare emergere la verità. E anche di questo dato il Vaticano dovette tenere conto nella gestione di un affare che poteva essere lacerante non solo nella politica profana, ma anche in quella ecclesiastica.
LA CHIUSURA DEL CERCHIO
Esauritasi l’estenuante storia dei processi con le inevitabili sentenze di assoluzione per insufficienza di prove, si chiuse subito dopo un capitolo ancora più inquietante dell’attentato a Giovanni Paolo II. Il principale basista ed agente tedesco-orientale rimasto in Vaticano, testimone, custode e complice di tutti i crimini che abbiamo descritto, venne liquidato come un residuo passivo. Lo stesso giorno in cui era diventato capitano comandante della Guardia Svizzera, Aloïs Estermann venne ucciso a quarantatrè anni il 4 maggio 1998 alle 21, nel suo appartamento nello Stato della Città del Vaticano. Erano passati due mesi dalla fine delle inchieste sull’attentato al Papa e sul sequestro Orlandi. Con lui morirono la moglie Gladys Meza Romero (1949-1998) e il vice-caporale Çedric Tornay (1974-1998)[220]. La fulminea indagine del Vaticano, nella quale non vennero ammesse le forze di polizia italiane contrariamente al solito, e le cui istruttoria e perizia di autopsia non vennero mai rese note se non in forma sunteggiata dopo nove mesi, concluse per un omicidio suicidio compiuto da Tornay in grave disaccordo con il superiore[221]. Non mancarono voci squallide e senza fondamento su una pista a sfondo omosessuale. Ma la madre di Tornay, Muguette Baudat, avuta la salma del figlio, chiese ulteriori accertamenti in patria, a Losanna il 14 maggio, che smentirono clamorosamente la ricostruzione fatta dalla Sala stampa della Santa Sede, lanciata a tamburo battente già la mattina dopo del delitto[222]. La madre del defunto denunciò le incongruenze dell’istruttoria nel 2002. A Martigny in Isvizzera nel 2005 si riaprì il procedimento, senza esiti particolari a me noti.
I retroscena tuttavia emersero molto prima sulla stampa mondiale. Secondo De Villemarest, Tornay, tiratore scelto, non era solo una guardia svizzera, ma un giovane membro del Sodalitium Planum, il cui superiore, Ivan Bertorello, sotto le mentite spoglie di prete e senza disdegnare frequentazioni lefebvriane, indagava da dieci anni su Estermann, che pure frequentava, sulle rivalità tra l’Opus Dei e i Legionari di Cristo e sulle infiltrazioni dei nuovi servizi russi in Vaticano[223]. La Gendarmeria non vedeva di buon occhio questa attività del Sodalitium, ma non poteva impedirla, sebbene forse presaga della sua rischiosità. Una persona aveva già perduto la vita, proprio mentre andava a riferire al Sodalitium che Estermann era una spia, tempo prima della strage. Il suo nome era Cherebin ed era stato ucciso lungo il Tevere da una sicaria insospettabile, che lo aveva toccato con una borsa avvelenata[224]. Lo stesso Bertorello, poi trasferitosi a Parigi dove fa oggi il disegnatore e lo sceneggiatore, rivelò in lacrime al funerale di Tornay di aver ricevuto una richiesta di aiuto del suo pupillo alle 20,30 della sera del delitto, registrata dalla sua segreteria telefonica. La grande stampa estera diffuse la vera identità di Estermann. Wollf e Bohnsack ammisero con Imposimato di averlo avuto ai loro ordini[225]. Emerse che il defunto comandante della Guardia Svizzera fu basista dell’attentato al Papa (vanificò il vantaggio che la Santa Sede aveva avuto dall’informativa De Marenches perché permise ai bulgari e ai turchi di fare tranquillamente i loro sopralluoghi preparatori, comunicò loro il tragitto che la jeep papale avrebbe fatto il pomeriggio dell’attentato e ovviamente non difese il Pontefice, avvicinandosi solo ad attentato finito) e anche del sequestro Orlandi (descrivendone le abitudini e segnalando la fatale, ultima uscita della ragazza da casa sua ai rapitori, ma spiando anche tutti quelli che, come l’avvocato Egidio o il giudice Sica, entravano o telefonavano in Vaticano per indagare o colloquiare con alti prelati e funzionari)[226]. Emerse che fu uno speculatore venale, assistito dalla moglie Gladys, agente venezuelana e forse anche della CIA, almeno per un certo periodo, e che poté avvicinare gli ambienti vaticani grazie alla protezione inconsapevole del cardinale Rosalio José Castillo Lara (1922-2007), connazionale della moglie. La coppia poté essere forse e dunque la sintesi perfetta degli squilibrati equilibri della Guerra Fredda in Vaticano, in Italia, nella DDR, in URSS, negli USA e nell’America Latina. Il denaro russo arrivò alla coppia fino al 1989, anche tramite la Bulgaria, e fu accreditato ovunque, a Mosca, negli USA, a Sofia e in Vaticano. Estermann aveva infatti un conto allo IOR, come gli spettava in quanto ufficiale della Guardia Svizzera. Siccome era prassi dello IOR concedere libertà di transito ai versamenti da qualunque parte vengano senza troppe domande, in cambio di una parte dei profitti, a maggior ragione non escluderei che le somme, probabilmente ingenti, colà movimentate da un così distinto ufficiale, fossero lasciate transitare proprio in cambio di provvigioni generose, che erano destinate alle opere di bene dell’Istituto, evidentemente come copertura[227]. Questo potrebbe aver aiutato qualche funzionario compiacente a non farsi troppe domande sul motivo di tanta ricchezza di una Guardia Svizzera, a meno che non fosse egli stesso un agente infiltrato. Del resto la supposta presenza di un conto IOR, intestato evidentemente ad un prestanome, dell’ambasciata bulgara in Vaticano non solo aprirebbe una serie di sospetti su come il blocco sovietico possa aver dal di dentro sabotato le finanze vaticane e come questo si saldi con il crack dell’Ambrosiano (sospetti che potranno essere confermati o fugati solo quando qualcuno visionerà i CD – ROM della Commissione Andreev), ma permetterebbe di dedurre che i pagamenti più scottanti fatti dai bulgari e dai tedeschi orientali a coloro che furono coinvolti nell’attentato al Papa avvennero proprio in casa del Pontefice stesso, a causa dell’assoluta mancanza di una normativa adeguata di controllo sulle attività bancarie[228].
Caduto il Muro ed esautorato Bohnsack, diviso il KGB in FSB e SVR, secondo De Villemarest il GRU di Valentin Korabelnikov (n. 1946, in carica dal 1997 al 2009) prese in mano nel 1997 la rete degli agenti orientali in Vaticano, compresi quelli che un tempo dipendevano dalla STASI, nell’Osservatore Romano e nella Guardia Svizzera. Per la Federazione Russa, sia sotto El’cin che sotto Vladimir Putin (n. 1952, in carica dal 1999 alternativamente come Presidente e Primo Ministro), mantenere la propria influenza in Vaticano rimaneva certo un obiettivo strategico. Il colonnello Sergej Ivanov (n. 1953, attualmente capo dell’amministrazione presidenziale della Russia) ebbe allora alle sue dipendenze Estermann. Cospicue elargizioni di denaro continuarono a vantaggio di Estermann[229].
Qualcosa cambiò però ed improvvisamente. Estermann sembra abbia confidato ad Ivanov di sentirsi minacciato, forse dalla CIA[230]. Nel 1997 nel suo studio subì un furto di misteriosi documenti che improvvisamente lo resero inutile e indifeso – quasi che essi gli servissero per dei ricatti o semplicemente come assicurazione sulla vita – se non addirittura pericoloso, in quanto ultima memoria vivente di verità inconfessabili o bersaglio di eventuali scandali montati con quanto gli era stato sottratto[231]. Mi sembra evidente che gli autori di questo furto possono essere stati agenti segreti di qualunque servizio, interno ed esterno. Fu così che Estermann decise di defezionare. Sebbene i suoi alti protettori cercassero di rassicurarlo promettendogli la promozione a capo della Guardia Svizzera, che poi arrivò, egli prese contatto con l’ex gladiatore Antonino Arconte (n. 1954), usando il suo nome da spia, Werder. Arconte era, come altri membri della Stay Behind, oggetto di vessazioni palesi ed occulte e al centro di un movimento che organizzava l’espatrio di quei gladiatori che, a differenza sua, non avevano avuto la prontezza di rendere pubblico tutto quello che sapevano, così da assicurarsi la vita. Estermann gli scrisse e poi lo incontrò a Civitavecchia forse nel marzo 1998; in questi scambi gli confidò di essere in pericolo perché sapeva cose importanti su persone potenti, di voler fuggire con una nuova identità negli USA, di sapere tutto sull’attentato a Giovanni Paolo II, voluto da Mosca su richiesta di Varsavia e Berlino Est, per evitare la crisi del Blocco sovietico. Aggiunse che Ağca, se il delitto fosse riuscito, doveva essere ucciso subito dopo e fatto passare per un terrorista islamico dell’estrema destra turca. Disse che secondo lui il killer alla fine aveva mangiato la foglia e aveva sbagliato il tiro volontariamente. Aggiunse che la regia dell’impresa era bulgara e che il DS aveva individuato il sicario tramite la mafia turca, con cui aveva ottime relazioni. Ammise di lavorare in Vaticano e di essere stato minacciato, ma non svelò la sua identità. Parlò del sequestro Moro asserendo che dietro vi era il KGB anche se, come sua prassi, mediante diversi schermi di servizi segreti satelliti. Arconte disse a Werder che la prima data utile per partire da Ajaccio per Parigi e poi per gli USA era il 4 maggio 1998[232]. Data che Estermann evidentemente scelse di non utilizzare festeggiando la promozione, e in cui lui e la moglie furono uccisi. Si può dedurre che la promozione venne caldeggiata da chi voleva trattenerlo a Roma per ucciderlo. La concomitante morte di Tornay fu sicuramente una maniera per eliminare un agente molto vicino ai segreti che dovevano morire con gli Estermann, segreti che forse il giovane aveva già scoperto, oltre che per creare un depistaggio. Ma che sia stato un omicidio per tutti e tre, non mi sembra ci siano dubbi, nonostante non siano mancate delle pubblicazioni che difendessero la versione ufficiale della Santa Sede[233].
Innanzitutto lo attesta la dinamica del delitto: la pistola di Tornay si trovava sotto il suo corpo sebbene secondo la versione ufficiale si sarebbe sparato in bocca, dopo aver ucciso gli Estermann, in una posizione che, nel rinculo, avrebbe scaraventato l’arma molto lontano. Il foro del proiettile nel cranio di Tornay aveva sette millimetri di diametro ma il calibro della sua pistola era di 9,41 millimetri. Inoltre il giovane aveva i polsi segnati da lacci, come se l’avessero legato, e gli incisivi rotti, come se la pistola gli fosse stata cacciata in bocca a forza. Si parlò, da parte del Vaticano, di un raptus del vicecaporale, ma si asserì anche che egli aveva scritto una lettera di addio alla madre (dimostrando che il gesto era premeditato e non improvviso), indirizzandogliela però con il cognome del secondo marito, che Tornay non usava mai. La firma in calce alla lettera non era autentica. Del resto Tornay aveva parlato con madre e fidanzata nel pomeriggio e non aveva fatto cenno ad alcun malessere. E i motivi del presunto rancore, movente del duplice delitto e del suicidio, erano assai puerili. Venne poi attribuita a Tornay una ciste al cranio che ne disturbava la personalità, ma di essa non si trovò traccia nella seconda autopsia e se pure fosse esistita, nella posizione in cui si asserì che c’era, avrebbe reso la personalità molto mite e non aggressiva. Estermann poi venne ucciso a telefono con due colpi, e non durante una lite. L’interlocutore, di cui non si disse il nome, ha preteso di non aver sentito nulla, implicando, qualora non mentisse, che chi sparò usasse il silenziatore. La Romero fu invece uccisa con un colpo. Ma la pistola di Tornay sparò cinque colpi, uno in più di tutti, compreso quello usato per il suicidio. Le traiettorie dei colpi inoltre non corrispondevano alla ricostruzione ufficiale della scena del delitto. Inoltre nella casa di Estermann sul tavolo furono trovati quattro bicchieri, mentre le salme erano tre[234]. Imposimato ha ricostruito in questo modo la scena del delitto: Tornay, dopo il suo turno, fu inseguito, tramortito, legato e portato nello scantinato della palazzina dove abitavano gli Estermann. In casa di questi entrarono almeno due persone, senza destare sospetti, anzi accolti amichevolmente, che però ammazzarono i coniugi. I loro complici (o loro stessi) portarono su il vicecaporale legato, gli spararono in bocca e gli fecero esplodere un colpo per renderlo positivo all’esame della paraffina. E scomparvero[235]. Per De Villemarest è chiaramente una balayeur, ossia un omicidio fatto da professionisti che non lasciano tracce e anzi depistano, tipica dei sicari del GRU[236]. Ma non si può avere la certezza che Estermann sia stato ucciso dai suoi datori di lavoro. E’ certo che però con lui si chiuse un cerchio e la possibilità di sapere la verità sull’attentato al Papa direttamente dalla bocca di uno dei suoi protagonisti. Ancora una volta, con maestria, l’incidente fu confezionato in modo tale che il Vaticano fosse travolto da uno scandalo e non potesse dire la verità a nessuno (per evitare presumibilmente tensioni diplomatiche sul passato e nel presente), nemmeno al Papa (che pubblicamente acclarò la versione ufficiale), anche perché riguardava indirettamente il suo stesso attentato. Poteva il mondo cattolico accettare la verità per cui uno dei massimi responsabili della sicurezza del Pontefice aveva congiurato contro la sua vita?
Infatti, la versione ufficiale, di chi evidentemente sapeva che Estermann era una spia ma non aveva ancora le prove, fu davvero improvvisata e pasticciata, come abbiamo visto. Nemmeno la sofisticata supervisione di due diplomatici di razza come il sostituto della Segreteria di Stato agli Affari Generali Giovanni Battista Re (n. 1934, oggi cardinale) e dell’assessore agli stessi Pedro Lopez Quintana (n. 1953) potè impedire agli inquirenti di incappare in errori clamorosi, comprensibili proprio per la potenziale pericolosità dell’esito delle indagini.
Sembra infatti che molti elementi di prova siano stati alterati e che la scena del delitto sia stata passata a setaccio in modo volutamente maldestro, mentre le autopsie sarebbero state fatte sui cadaveri appositamente malamente conservati, i vestiti dei coniugi Estermann sarebbero stati gettati e quelli di Tornay addirittura bruciati. Per quest’ultimo si chiese la cremazione, ma la madre si oppose e lo fece tumulare. Persino il vecchio colonnello della Guardia Svizzera, Roland Buchs-Binz (n. 1941), richiamato frettolosamente in servizio, non credette che Tornay fosse colpevole e gli tributò un funerale con tutti gli onori[237]. Una misteriosa lettera, scritta a nome del defunto Tornay, giunse ad Imposimato, all’epoca legale degli Orlandi, il 15 gennaio 2002. Era un tentativo di depistaggio, ma presentando Estermann come una vittima, alla luce dei dati raccolti dopo, evidentemente rendeva paradossalmente affidabili quelle persone che invece tentava di denigrare, come Cibin e Bonarelli, da sempre nel mirino dei mandanti dell’attentato al Papa e del sequestro Orlandi, perché fedeli al Papa[238]. Vennero altri tentativi di depistaggi, in un libello che però era anonimo (e che non cito proprio per questo, sebbene pubblicato con una nota casa editrice specializzata in inchieste alternative), che come per il caso Orlandi tentarono di acclarare la versione dell’omicidio maturato in seguito alle lotte di potere tra le fazioni vaticane. Una versione tanto incredibile quanto traballante fu la versione ufficiale con cui lo stesso Vaticano dovette cercare di chiudere il caso.
In ogni caso, tutti i tentativi di fare luce sulla rete spionistica in Vaticano, sull’attentato e sui sequestri dell’Operazione Papa, cessarono da quest’ennesimo evento sanguinoso e i protagonisti sopravvissuti furono allontanati da Roma. Il Sodalitium Planum cedette il passo alla Gendarmeria nella gestione degli affari segreti. E dal 1999 la Santa Sede ha scelto il silenzio tombale per evitare problemi diplomatici con gli innumerevoli Paesi coinvolti nel grande intrigo contro Giovanni Paolo II, oltre che laceranti scandali interni.
Di lì a poco uscì definitivamente di scena Alì Ağca: diventato completamente innocuo, fu graziato nell’Anno Giubilare del 2000 dal presidente della Repubblica Carlo Azelio Ciampi (n. nel 1920, in carica dal 1999 al 2006); estradato in Turchia, scontò a due riprese la pena per l’omicidio Ipekci, venendo liberato nel 2010. Così si adempì la promessa che gli era stata fatta da Markov Petkov e Ormankov. Ancora oggi il killer continua ad alternare varie versioni sull’attentato al Papa e sul caso Orlandi.
Tra il 1999 e il 2008 Ferdinando Imposimato, come abbiamo visto, indagò a titolo personale e come legale della famiglia Orlandi sulle vicende dell’attentato al Papa interrogando Bohnsack, il quale però si rimangiò parte delle cose dette privatamente al magistrato in interviste a grandi quotidiani e nell’audizione dinanzi alla Commissione Mitrokhin. Si può supporre che lo facesse perché si sarebbe compromesso eccessivamente.
Il 2 aprile 2005, alle 21:37, dopo i Primi Vespri della Divina Misericordia, morì piamente anche Giovanni Paolo II. L’attentato, da cronaca, diventava storia e agiografia.
Nel 2007 in Italia, al termine dei lavori della Commissione Mitrokhin, fu rilanciata la Pista bulgara, suscitando le proteste della Russia e della Bulgaria stessa. Colà, nello stesso anno, opportunamente, si spense, per cause naturali, Antonov, oramai afflitto da depressione cronica, solo e abbandonato da tutti.
La nuova stagione di loquacità di Bohnsack finì nel 2013 col suo decesso. In ogni caso, le sue rivelazioni e gli spunti investigativi sul caso Orlandi forniti dalla Commissione Mitrokhin erano state mediaticamente oscurate in Occidente dalla nascita della finta Pista della Banda della Magliana sul sequestro Orlandi, come abbiamo detto in nota[239].
Nel 2015 si è spento il maggior basista italiano dell’attentato, Licio Gelli, a pochi mesi dalla pubblicazione dei dossier sulle attività del DS bulgaro da parte della Commissione Andreev, di cui abbiamo detto.
L’ultimo dei grandi mandanti dell’attentato, Gorbacev, è ancora vivo.
CHI SALVO’ IL PAPA
Colpisce che in una selva oscura come questa dell’attentato, in cui il Papa, profeta disarmato, si trovò praticamente solo, questi uscisse miracolosamente illeso. Questo suscitò lo stupore dello stesso Ağca, che nel suo unico incontro con Giovanni Paolo II, gli chiese come mai si fosse salvato dai due colpi che egli aveva esploso. Suscitò anche l’incredulità di Estermann e di qualche criminologo, che pensarono che il turco, per salvarsi la vita o per ordini ricevuti, avesse sbagliato il colpo decisivo. E infine sollevò tantissimi dibattiti. Del resto, anche se il turco avesse sbagliato appositamente il tiro – il che è assurdo – rimane il dato che nemmeno il terzo colpo fu fatale. Il professor Crucitti, nell’équipe che operò il Papa, notò che la pallottola che colpì il Papa all’addome (ossia quella di Çelik) si mosse dentro di lui in modo anomalo e inspiegabile, evitando gli organi vitali e danni irreparabili come la morte e la paralisi. Il Papa attribuì alla Madonna di Fatima, nella cui festa subì l’attentato, questo miracoloso intervento. E identificò se stesso col Papa della visione apocalittica del Terzo segreto del 13 ottobre 1917 divulgato nel 2000. Del resto, la profezia di un Papa ferito ma salvato dalla Sua protezione materna era stata formulata anche dalla Vergine a La Salette nel 1846.
Ma Ağca avrebbe potuto finire il suo compito e sparare ancora. Solo che, come dicevamo all’inizio, il suo braccio fu bloccato da una suora, da non confondersi con quella che lo acciuffò durante la fuga. La suora che lo bloccò e che l’attentatore vide non fu mai identificata. In realtà si trattava di Cristina Montella, in religione suor Rita (1920-1992), morta in odore di santità nella clausura di Santa Croce sull’Arno in Toscana. Mistica e stigmatizzata, era figlia spirituale di San Pio da Pietrelcina (1888-1968), che nel 1948 profetizzò a Karol Wojtyła, in visita a San Giovanni Rotondo da semplice sacerdote che studiava all’Angelicum, il Papato e l’attentato. Suor Rita, attualmente sotto processo di beatificazione, confessò al suo amico sacerdote passionista Franco d’Anastasio (1929-2016) – di grande cultura ed equilibrio – di essere stata in bilocazione in Piazza San Pietro con la Vergine Maria: “assieme alla Madonna deviai il colpo dell’attentatore”, disse, vincolando il confidente al segreto fino alla sua morte. La biografia pro manuscripto che d’Anastasio fece della mistica fu da questi inviata in Vaticano e mi risulta sia ancora inedita. Ma la notizia è riportata anche nelle altre vite della Serva di Dio. Questa, subito dopo l’attentato, fece delle rivelazioni al suo biografo che si sono dimostrate vere: “l’attentatore non parlerà; lui era con altri due [ossia Çelik e Antonov, n.d.a.] che sono fuggiti; c’era una trama internazionale contro il Papa e la Chiesa”. Aggiungerà anche che le pallottole erano avvelenate, anche se di questo non è stato possibile avere riscontro, perché il bossolo che colpì il Papa è nella Corona della Madonna di Fatima[240].
Dunque, anche nella notte caliginosa della violenza, del sopruso, del tradimento, del ricatto, dell’ipocrisia, della viltà e dell’opportunismo, si scorge una luce. E’ quella da cui sono guidati i destini degli uomini nell’eteronomia dei fini, ed è quella da cui i protagonisti innocenti di questo grande intrigo sommariamente descritto, usciti drammaticamente da questa vita anche a causa di esso, ora guardano al loro triste passato terreno. E sorridono.
NOTE
[1] M.ANSALDO – Y.TASKIN, Uccidete il Papa, Milano 2011, contiene le tesi più complete oggi in Italia sulla genesi dell’attentato a Giovanni Paolo II.
[2] Nel testo sono stati riportate tutte le date di nascita e morte dei personaggi citati, a meno che non siano state irreperibili. Per quanto segue cfr. V.SIBILIO, L’attentato a Giovanni Paolo II e la Guerra Fredda. Una ricostruzione dei fatti, digitale, Amazon 2016 e ID., Trentacinque anni dall’attentato al Papa. Una ricostruzione dei fatti, ed. on line su Christianitas VII/1 (2015), pp. 171-286.
[3] I. MARTELLA, 13 Maggio ’81: tre spari contro il Papa, Milano 2011, pp. 15-35 elenca i principali punti accreditanti l’ipotesi complottista sin dalla Prima inchiesta, che vengono qui esaminati progressivamente. Il libro rimanda nell’apparato erudito ai testi dell’istruttoria.
[4] F. IMPOSIMATO – S. PROVVISIONATO, Attentato al Papa, Milano 2011, pp. 22-24.
[7] L’uso disinvolto della sessualità sembra abbia contraddistinto anche l’enigmatico attentatore di De Gaulle, assunto dagli oltranzisti della Guerra di Algeria e che, come Ağca, non riuscì nel suo intento criminale. A tale scopo, più efficace di qualsiasi lettura bibliografica, può essere la visione de Il Giorno dello Sciacallo, celebre film sull’argomento.
[8]COMMISSIONE PARLAMENTARE D’INCHIESTA CONCERNENTE IL “DOSSIER MITROKHIN” E L’ATTIVITA’ D’INTELLIGENCE ITALIANA, Documento conclusivo sull’attività svolta e sui risultati dell’inchiesta, presentato dai commissari del centrosinistra, p. 188 (da ora in poi Relazione di minoranza).
[33]Resoconto stenografico della 78 a seduta mercoledì 28 settembre 205 della Commissione Parlamentare d’inchiesta concernente il Dossier Mitrokhin e l’attività di intelligence italiana, audizione del dott. Rosario Priore, p. 26.
[34] F. IMPOSIMATO, Doveva morire, Milano 2014, pp. 223-232. Singolare che la Relazione di minoranza della Commissione Mitrokhin già citata in precedenza (pp. 164-169), abbia profuso tante energie per mostrare, a mio avviso senza successo, che Solokov nulla ebbe a che fare col piano delle BR per sequestrare lo statista democristiano. E’ singolare perché la Relazione è a firma di molti deputati provenienti dal vecchio PCI, e quindi con una gestalt inadatta ad accettare queste possibili verità.
[44] Se la moglie di Antonov fu realmente presente agli incontri preparatori dell’attentato, stando ad Ağca sia in un ristorante che nella casa del bulgaro, si deve supporre che costei fosse anch’essa membro dei servizi bulgari.
[47]Relazione di minoranza, pp. 217-218. La Relazione di minoranza insiste molto su questa discrepanza per minare la credibilità di Agca. Ma in verità essa è sanabilissima. Ciò che smontò il valore probante della testimonianza del killer fu il semplice fatto che egli poi la ritrattò. Nel testo citato si riporta la testimonianza in Commissione del giudice Martella, che nel 2005 disse che secondo lui Agca si era inventato tutto. E tuttavia nel suo libro qui citato più volte ed edito nel 2011 lo stesso magistrato riporta le ricostruzioni di Agca considerandole, evidentemente nel complesso, ancora valide. E tali appaiono, indipendentemente dalle diverse valutazioni che Martella ne ha dato nel corso del tempo.
[49] Sull’atteggiamento della CIA verso la Pista Bulgara cfr. la Relazione di minoranza, pp. 200-205.
[50] Sulla vita di Agca, almeno nelle parti non controverse, si cfr. Mehmet Ali Agca. La mia verità, a cura di A.M.TURI, Roma 1996.
[51] La cosa, oltre che nella Lettera a Martella, fu dichiarata dallo stesso Ağca subito dopo l’arresto. Cfr. COMMISSIONE PARLAMENTARE D’INCHIESTA CONCERNENTE IL DOSSIER MITROKHIN E L’ATTIVITA’ DI INTELLIGENCE ITALIANA, Documento conclusivo sull’attività svolta e i risultati dell’inchiesta (d’ora in poi Relazione di maggioranza), p. 225.
[52]Dispositivo del G.I. Rosario Priore, pp. 9-12.
[54] DANIELE ET PIERRE DE VILLEMAREST, Le KGB au coeur du Vatican, Parigi 2006, p. 161.
[55] IMPOSIMATO – PROVVISIONATO, Attentato, pp. 23-25.
[56]Relazione di minoranza, pp. 198-199; IMPOSIMATO-PROVVISIONATO, Attentato, p. 25.
[57] Cfr. sempre la Lettera a Martella del 1997; IMPOSIMATO-PROVVISIONATO, Attentato, p. 28.
[58] Si noti la cura con cui i movimenti di Ağca vennero coperti dai Bulgari e pazientemente riscostruiti nella Seconda inchiesta in MARTELLA, 13 maggio, pp. 77-86.
[59] IMPOSIMATO – PROVVISIONATO, Attentato, pp. 29-30. 41-62.
[63] A. CASAROLI, Il martirio della pazienza. La Santa Sede e i paesi comunisti (1963-89), Torino 1989, pp. 123-192.
[64] Sull’idea di patria, nazione, storia e valori cristiani, umani e naturali cfr. GIOVANNI PAOLO II, Memoria e identità, Città del Vaticano-Milano 2005, pp. 75-154.
[65] J. KWITNY, L’Uomo del secolo, Casale Monferrato 2009 (ed. orig.: Man of Century, New York 1997), pp. 102-104; 142-145; 152-154.
[70] M. F. FELDKAMP, Stasi:Spitzel im Vatikan. Wer war Eugen Brammertz? in “Rheinischer Merkur”, 23.10.1998; B. SCHAEFER, The East German State and Catholic Church. 1945-1989, Oxford 2010 (ed. orig.: Staat und Katolische Kirche, Böhlau 1998), p. 167; J.KOHENER, Spies in the Vatican, New York 2009.
[72] Per le accuse cfr. ID.-PROVVISIONATO, Attentato, pp.70-76; DE VILLEMAREST, Le KGB, pp. 150-153, 158-159. Per le questioni finanziarie cfr. B. LAI, Finanze vaticane, Soveria Mannelli 2012, pp. 57-70. Per le presunte rivelazioni di Agca cfr. l’ intervista trasmessa nel programma della TV di Stato turca Stanza Cosmica, 9.11.2010.
[73] ADNkronos, 10.10.96: La Spezia, chi è il prelato polacco. I sospetti si appuntano su mons. Krawczyk.
[74] Anche su di lui qualcuno (ID.-PROVVISIONATO, Attentato, pp. 82-84) ha avanzato sospetti di infedeltà. Ancora una volta però la fonte è anonima e quanto non dipende da essa è di fatto illazione. La fiducia pluridecennale del Papa nel suo segretario personale e la decisione senza precedenti di crearlo cardinale e designarlo Arcivescovo di Cracovia attestano una stima che Giovanni Paolo II non avrebbe mai nutrito se avesse avuto modo di vedere qualcosa di poco chiaro in una persona che visse con lui per anni e fino alla sua morte.
[75] Si tratta di Mister M, poi identificato con Andrzej Madejczyk, agente dell’SB legato anche alla STASI, ormai deceduto, ma di cui Hejmo afferma di non aver mai conosciuto l’attività di intelligence. Cfr. Spowiedź ojca Hejmo, in “Focus”, 4.7.08. Hejmo ha avuto e ha autorevoli difensori. Cfr. P. RAINA, Anatomia linczu: sprawa ojca Konrada Hejmo, Varsavia 2006.
[76] IMPOSIMATO-PROVVISIONATO, Attentato, pp. 68-84.
[103] IMPOSIMATO-PROVVISIONATO, Attentato, pp. 108-112. Cfr. anche A. MARCEVSKI, Misteri italo-Bulgari, Roma 2002.
[104] Cfr. PressReader.com, Panorama 16 luglio 2015, per la biografia di questo personaggio, che abbandonò i servizi italiani sentendosi minacciato per i segreti che custodiva, che passò a lavorare per altri servizi, che si diede agli affari proprio in Bulgaria e che, inquisito per vari reati e poi prosciolto, tornò in Italia nel 2008 senza più alcuna proprietà.
[105] IMPOSIMATO-PROVVISIONATO, Attentato, p. 112.
[106]Relazione di maggioranza, pp. 248-250. Cfr. N. WEST (pseudonimo di R. ALLASON), The Third Secret: The CIA, Solidarity and the KGB’s Plot to Kill the Pope, Londra 2000. Questo autore, uomo politico britannico di eccezionale competenza in materia e con stretti contatti con la CIA, non è stato audito dalla Commissione Mitrokhin, tanto che la Relazione di minoranza non tiene in nessun conto il suo studio documentatissimo.
[107]The terror network: The Secret War of International Terrorism, New York 1981; The time of assassins, New York 1984.
[108] E. HERMAN-N.CHOMSKY, Manufactoring consent, New York 2011.
[109]Dispositivo del g.i. Rosario Priore, pp. 13-14.
[110] DE VILLEMAREST, Le KGB, p. 247. Questo contesto va tenuto presente anche per l’ipotesi della pista russa per l’omicidio Calvi. L’Ambrosiano, stando al ragionamento dei De Villemarest, sarebbe stata l’unica Banca a scommettere sul crollo e non sulla durata del comunismo polacco. E naturalmente è uno scenario da tener presente anche per collocare l’attentato al Papa, in un quadro di impunità che i sovietici speravano di avere anche grazie alla neutralità dei potentati economici occidentali.
[111] IMPOSIMATO-PROVVISIONATO, Attentato, pp. 112-113.
[116] IMPOSIMATO-PROVVISIONATO, Attentato, pp. 194-196.
[117] La Relazione di minoranza, p. 10, sostiene che l’Ormankov che venne ad interrogare Ağca, di nome Jordan, era persona diversa da quell’Ormankov che si sarebbe recato a Berlino per alcune riunioni con la STASI, e di nome Lyubomir. Interrogato in tal senso Priore, questi rispose che non poteva né confermarlo né smentirlo (Resoconto stenografico della 77a seduta mercoledì 27 luglio 2005 della Commissione Parlamentare d’inchiesta concernente il Dossier Mitrokhin e l’attività d’intelligence, seguito dell’audizione del dott. Priore, pp- 9-11). A parer mio, bisognava al massimo chiedere a Martella. In ogni caso, le confessioni di Bohnsack a Imposimato confermano che era la stessa persona. Per cui ho pensato di attribuirgli entrambi i nomi, sebbene Bohnsack lo chiamasse Jordan. Cfr. IMPOSIMATO-PROVVISIONATO, Attentato, pp. 270-271. Forse Ormankov usava uno pseudonimo a Berlino.
[136] DE VILLEMAREST, Le KGB, p. 172. La pista della CIA avrebbe avuto tanta enigmatica fortuna, venendo rilanciata persino dalle colonne del mensile ciellino 30Giorni, diretto da Giulio Andreotti, nel 1992. Le ragioni politiche dei depistaggi e soprattutto delle coperture di chi li aveva favoriti evidentemente erano ancora forti nove anni dopo.
[137] P. TESSADRI, Orlandi, il mistero dell’ex-spia, ne L’Espresso, 30 giugno 2011.
[138] IMPOSIMATO-PROVVISIONATO, Attentato, p. 220. 223-226.
[139] ID.-ID., Attentato, pp. 208-209; 217-220; 221-223; 226-229.
[154] MARTELLA, 13 maggio, p. 219. Colpisce nel Sequestro Orlandi e in quello Gregori che i due ostaggi siano stati praticamente dei fantasmi, in quanto nessuno seppe mai nemmeno lontanamente avvicinarsi al luogo della loro detenzione, nemmeno nella prima parte di essa, che dovette avvenire in Italia. Una condizione di intoccabilità dei sequestratori che ricorda quella, altrettanto enigmatica, dei carcerieri di Aldo Moro.
[185] Nei resoconti stenografici delle sue audizioni alla Commissione Mitrokhin egli lamenta più volte di non aver potuto approfondire tante cose come lui (ma non altri forse) avrebbe voluto.
[186] Sembra che i Lupi Grigi abbiano tentato quindi più volte di assassinare il Papa, sia nel 1985 che nel 1997 in Bosnia Erzegovina, quando ancora emerge il nome di Oral Çelik. Cfr. A. ZAKRZEWICZ, I labirinti oscuri del Vaticano, Roma 2013.
[187]Resoconto stenografico della 78 a seduta, pp. 27-28.
[191]Dispositivo del G.I. Rosario Priore, pp. 15-16.
[192]Resoconto stenografico della77a seduta, pp. 20-22.
[193]Dispositivo del G.I. Rosario Priore, pp. 30-32.
[194]Resoconto stenografico della 78 a seduta, pp. 23.29-30.
[195]Resoconto stenografico della 76 a seduta mercoledì 20 luglio 2005 della Commissione Parlamentare d’inchiesta concernente il Dossier Mitrokhin e l’attività di intelligence italiana, audizione del dott. Rosario Priore, p. 13.
[196]Resoconto stenografico della 78a seduta, p. 29.
[239] Nonostante ciò, sulla scia di queste inchieste screditate si colloca la produzione (da parte di Jean Vigo Italia s.r.l. e RAICinema) e la realizzazione del film “La verità sta in Cielo”, di Roberto Faenza, iniziato nel 2015 e uscito nel 2016. Sarebbe stato più utile se la TV di Stato avesse acquistato i CD della Commissione Andreev usciti proprio nel 2015 e avesse realizzato un documentario sulla Guerra Fredda per RAIStoria? Non essendo stato fatto questo acquisto, non lo sapremo mai. Di certo, il film, già di per sé controverso, non aiuta a fare nessuna chiarezza e la sua produzione non è, come si vuol far credere, uno schiaffo al potere, perché se così fosse la RAI non sarebbe tra i finanziatori. Di certo storna l’attenzione, more solito e indipendentemente dalle intenzioni di chi lo ha realizzato, dalle piste più interessanti e meno note. E’ un film più coerente con l’impegno politico da sinistra del regista e di Jean Vigo Italia che con la tortuosa storia del caso Orlandi.
[240] A. SOCCI, Il segreto di Padre Pio, Milano 2007, pp. 9-29, con amplia bibliografia in apparato sulla Serva di Dio.
Comments
Reginald Liehr
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