Il 27 dicembre di settantasei anni fa a Budapest il martirio della giovane suora ungherese Sara Salkaházi fucilata dai croce frecciati e poi gettata nel Danubio insieme alla catechista Vilma Bernovits per aver nascosto un centinaio di ebrei.
Il 27 dicembre di settantasei anni fa a Budapest il martirio della giovane suora ungherese Sara Salkaházi fucilata dai croce frecciati e poi gettata nel Danubio insieme alla catechista Vilma Bernovits per aver nascosto un centinaio di ebrei.
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Mentre le truppe d’assalto sovietiche dell’Armata rossa nella loro travolgente offensiva sul Fronte orientale cingevano d’assedio Budapest in un sanguinoso combattimento senza esclusione di colpi nel tentativo di accerchiare la Wehrmacht, il 27 dicembre 1944, nella capitale ungherese avvolta da una gelida caligine invernale, un drappello del movimento crocefrecciato filonazista e antisemita capeggiato da Ferenc Szálasi, in seguito ad una spregevole delazione della diciassettenne Erzsébet Dömötör, con un blitz a sorpresa faceva improvvisamente irruzione nella casa delle Suore del Servizio Sociale – una congregazione religiosa fondata appena cinque anni prima, il 12 maggio 1923, da Margit Slachta che si proponeva di promuovere opere caritative e sociali a beneficio delle donne, dei bambini e delle famiglie bisognose – situata al civico 3 di via Bokréta e, senza tanti convenevoli, arrestarono la direttrice, sr. Sára Salkaházi, ed altre sei persone ivi rifugiate.
Ma procediamo con ordine e facciamo un passo indietro per capire chi era, in realtà, Sára Salkaházi e quali furono i motivi che portarono al suo arresto. Secondogenita di Leopold e Klotild Stiller, venne alla luce l’11 maggio 1899 a Kassa – l’odierna cittadina slovacca di Košice – una delle più eleganti città ungheresi sulle propaggini orientali dei monti metalliferi di Gömör-Szepes, dove il nonno era proprietario di un rinomato hotel. Dopo aver conseguito il diploma di maestra presso l’istituto delle Orsoline di Kassa, visto che con l’avvento del nuovo regime in seguito alla dissoluzione dell’Impero Austro-Ungarico sancito con la firma del trattato di pace di Trianon, era praticamente impossibile ottenere un insegnamento perché si rifiutava di giurare fedeltà al governo cecoslovacco, non si tirò indietro davanti a nessun tipo di lavoro e per un anno svolse, dapprima le mansioni di impiegata presso l’ufficio del Grand Hotel Schalkhaz, e poi – considerato lo stipendio piuttosto esiguo – ai principi di gennaio del 1920, iniziò il suo apprendistato presso il laboratorio del rilegatore Pintér. Proprio in quegli anni cominciò a coltivare la passione per la scrittura e, dopo essere riuscita ad ottenere la tessera di giornalista, a partire dal 1926, divenne redattrice dell’organo ufficiale del Partito Nazionale dei Socialisti Cristiani cecoslovacchi NÉP, impegnandosi attivamente come membro della direzione del partito soprattutto nel settore che si occupava delle questioni sociali che riguardavano le donne, tanto da diventare ben presto portavoce degli operai e di tutti coloro che non potevano rivendicare i propri diritti.
Fu proprio in questo ambiente che incominciò a prendere coscienza dei problemi che affliggevano il mondo del lavoro tanto che, come vedremo in seguito, saranno al centro anche delle sue principali attività tra le fila della congregazione religiose nella quale entrerà a far parte. Nel corso di questi anni, in particolare tra il 1918 ed il 1928, come rileva la sua amica Elisabetta Forgách, inizia pian piano a percepire la sua vocazione. Difatti, dopo una fugace storia d’amore con suo vecchio amico, capì che la sua strada era ben altra. A schiarirle le idee ci pensarono alcune religiose della Società del Servizio Sociale che ebbe la fortuna di conoscere nel 1928, le quali la aiutarono a trovare le risposte alle domande che da alcuni anni ormai tormentavano i suoi pensieri tanto che, dopo aver resistito a lungo, il 6 febbraio 1929 decise di voltare definitivamente pagina e lasciare Kassa per trasferirsi a Budapest allo scopo di iniziare il suo periodo di noviziato presso le Suore del Servizio Sociale. Dopo aver preso i primi voti solenni, la domenica di Pentecoste del 1930, subito si fece notare per il suo carisma, dedicandosi in diverse attività: dall’insegnamento alla supervisione delle opere di carità, dall’organizzazione del lavoro della comunità all’attività giornalistica a favore delle donne cattoliche, raggruppate poi in un’associazione nazionale col beneplacito della Conferenza Episcopale Slovacca che, il 3 marzo 1933, affiderà alle Suore Sociali l’organizzazione e il controllo delle donne, nominando proprio suor Sàra Schalkházi moderatrice nazionale. Quindi, durante la Pentecoste del 1940, facendo proprio il motto del profeta Isaia: “Ecce ego, mi mitte” (Eccomi, manda me!), potrà pronunciare finalmente la sua professione perpetua dedicandosi toto corde al servizio dei bisognosi.
Nel frattempo, il 30 agosto 1940, subito dopo la firma del secondo arbitrato di Vienna, si profilava all’orizzonte un altro grave problema con cui le religiose dovettero confrontarsi: la lotta contro l’antisemitismo. Il ritorno sotto l’amministrazione militare ungherese della Transilvania e della Terra dei Szekely aveva determinato, infatti, anche l’immediato dispiegamento dei militari nazisti in quella zona i quali, l’8 novembre 1940, indussero le autorità governative magiare a decretare l’espulsione di ben ventiquattro famiglie ebree, costrette ad abbandonare rapidamente Csíkszereda in poche ore. Due giorni dopo, visto che i Rumeni si rifiutavano di prenderli in consegna, su ordine del comandante militare i gendarmi ungheresi, a piccoli gruppi, li condussero oltre il confine russo da dove, tuttavia, poco dopo alcuni riuscirono a rientrare clandestinamente e ad avvertire i loro congiunti, i quali subito si rivolsero a suor Margit, come la signora Schultz Benőné, per rintracciare la figlia, il genero e la nipote. Ad occuparsi di questa delicata missione fu incaricata proprio suor Sára che, immediatamente, si recò da Técső a Körösmező e, dopo varie peripezie, riuscì a parlare con un agente di polizia il quale la rassicurò che li avevano presi in consegna i Russi e dopo qualche giorno sarebbero stati rimessi in libertà.
Il clima politico non prometteva niente di buono, anzi, diventò sempre più difficile e pericoloso soprattutto quando, il 19 marzo 1944, di fronte al rifiuto oppostogli dal reggente Miklós Horthy di appoggiare le potenze dell’Asse accettando lo stazionamento di truppe tedesche in Ungheria e un cambiamento di governo più compiacente alla politica nazista, senza pensarci su due volte, Hitler decretò l’occupazione dell’Ungheria mediante quella che fu definita in codice Operazione Margarethe.
Poi, dopo aver appreso delle trattative segrete per siglare l’armistizio con l’Unione Sovietica intavolate dall’Ammiraglio Horthy il 15 ottobre 1944, ordinò al colonnello Skorzeny di arrestarlo e affidare il governo magiaro nelle mani più compiacenti del leader filo-tedesco del Partito delle Croci Frecciate Ferenc Szálasi, il quale subito si fece notare per la sua crudeltà macchiandosi dei più efferati delitti e per la deportazione di massa di migliaia di cittadini di religione ebraica verso i lager nazisti. Di lì a poco, infatti, il Führer nominò l’ambasciatore Edmund Veesenmayer plenipotenziario del Reich Tedesco in Ungheria e Otto Winkelmann capo delle SS e della Polizia col preciso intento di presiedere alla soluzione finale della popolazione ebraica ancora residente in Ungheria. In questo clima arroventato dall’odio e dalla violenza, con l’incalzare degli eventi, anche sr. Sára Salkaházi, con sprezzo del pericolo e alto senso di umanità, seguendo l’esempio della consorella Roza-Katalin Peitl – che aveva salvato la vita a più di 90 persone, tra cui il dr. Szcucs Albertné, Szekely Zoltan, Sperak Jozsefné, Sandor Palné, Szekely Otto, Lukin Laszloné e Hetenyi Varga Karoly – e della fondatrice sr. Margit Slachta si prodigò con tutti i mezzi per aiutare i perseguitati, riuscendo a trarre in salvo circa un centinaio di persone, tra donne e bambini, che nascose sotto mentite spoglie nella casa madre di via Thökölyne nell’altra di via Bokréta 3 a Budapest, di cui era direttrice, che aveva preso in affitto il 31 ottobre 1944 per offrire riparo ad oltre un centinaio di donne operaie, tra cui c’era anche – travestita da suora – l’ebrea slovacca Mirjam Grosz (poi Shlomi) insieme al figlio Menachem di appena quattro anni. Dopo l’avvento al potere del partito dei Croce frecciati anche la villa sul lago Balaton che ospitava il primo istituto popolare di insegnamento superiore per operaie, si riempì di profughi offrendo asilo a più di trenta ebrei perseguitati. Qui, spesso la religiosa si recava per infondere coraggio, provvedere al loro sostentamento e interporre i suoi buoni uffici con le autorità al fine di indurle a più miti consigli.
Insieme al vescovo di Győr Vilmos Apor, al cardinale József Mindszenty, al console svizzero Carl Lutz ed a molti esponenti di spicco di altre ambasciate presenti a Budapest, ispirati dall’attivismo del diplomatico svedese Raoul Wallenberg e dall’italiano Giorgio Perlasca – che, il 30 novembre 1944, dopo la partenza del capo della legazione spagnola Angel Sanz-Briz, con un’astuta messa in scena era riuscito a spacciarsi per incaricato d’affari spagnolo – fu allestita un’efficiente rete clandestina per sottrarre alla deportazione verso i lager nazisti decine di migliaia di ebrei allora residenti a Budapest, grazie ai numerosi documenti di protezione che ognuno di loro emisero su carta intestata delle rispettive ambasciate e la costituzione di varie “case protette” che, godendo del diritto di extraterritorialità, si rivelarono un rifugio sicuro per molti ebrei braccati dai nazisti e dai loro sodali ungheresi delle Croci Frecciate. In tal senso si mosse abilmente anche la nunziatura apostolica della S. Sede che, grazie all’abnegazione profusa da mons. Angelo Rotta e del suo segretario don Gennaro Verolino che, dopo aver espresso formale protesta al governo ungherese per la deportazione degli ebrei, oltre alla produzione di numerosi falsi certificati di battesimo, provvide a distribuire loro, in meno di un anno, tra le 25.000 e le 30.000 “lettere di protezione”, con le quali riuscirono a salvarsi perché sotto la protezione diretta dello Stato della Città del Vaticano. Anche la casa madre delle Suore del Servizio Sociale che sorgeva a Budapest in via Thököly godeva di questo privilegio. Difatti, un giorno appena si presentarono i nazisti, la superiora sr. Margit Slachta immediatamente contattò Raoul Wallenberg che, insieme all’ufficiale dell’ambasciata svedese Valdemar Langlet ed al segretario del nunzio apostolico don Gennaro Verolino, subito si recarono sul posto riuscendo a sventare ogni pericolo e impedire la perquisizione.
Tuttavia, sapendo il grave rischio al quale consapevolmente si era esposta la sua superiora, ospitando, fin dal 1942, all’interno della casa madre alcuni rifugiati slovacchi, sr. Sára – che in segno di protesta contro l’influenza nazista aveva fatto magiarizzare il suo cognome Schalkhaz in Salkaházi – per impedire che i croce frecciati potessero far del male a sr. Margit e alle altre sue consorelle, il 14 settembre 1943, aveva chiesto ed ottenuto dai suoi superiori l’autorizzazione ad offrire il sacrificio della propria vita «nel caso in cui dovesse avvenire la persecuzione della Chiesa e quella della società e delle suore, […per] risparmiarle dalle minacce e dalle torture».
La cerimonia si svolse solennemente, in gran segreto, nella piccola cappella della casa madre di via Thököly, dove trovarono rifugio per un certo periodo di tempo, tra gli altri, anche la scultrice Erzsébet Schaártra, Fanni Gyarmati moglie del celebre poeta ungherese di origini ebraiche Miklós Radnóti – ucciso il 9 novembre 1944 dai croci frecciati – Jenő Heltai, Istvánt Rusznyák, l’ottantaquattrenne attrice Emilia Márkus con suo marito Károly Pulszky, Oszkárt Párdányi, il socialdemocratico Tibor Vágvölgyi e lo scultore Tibor Vilt. Il pericolo, tuttavia, era sempre in agguato a causa dei numerosi delatori che per qualche vile tornaconto personale erano disposti a tutto denunciando le persone che le suore proteggevano. Difatti, i croce frecciati avendo fiutato qualcosa di strano negli atteggiamenti di sr. Sára, si misero a tallonarla per controllare ogni suo spostamento. Ma, grazie al suo savoir-faire la giovane suora per un bel po’ riuscì a schivare ogni insidia, ingannando la loro vigilanza, anche se era consapevole che in ogni momento correva il rischio di essere scoperta e uccisa.
Il sinistro presagio si materializzò come accennato in precedenza, appena due giorni dopo il Natale, la mattina del 27 dicembre 1944, allorché un drappello di croce frecciati giunsero presso la casa di via Bokréta nell’intento di acciuffare la direttrice sr. Sára Salkaházi insieme agli ebrei ivi rifugiati così come era stato loro segnalato. Il turpe misfatto, in realtà, si consumò il giorno precedente, quando la religiosa aveva confidato ad una delle due cameriere, la giovane Erzsébet Dömötör, che aveva deciso di trasferirla in un’altra casa, alle stesse condizioni di servizio perché, evidentemente, la sua relazione con un soldato ungherese, che alloggiava insieme ai suoi commilitoni proprio al piano di sopra della loro casa, poteva pregiudicare l’opera di salvataggio che stava portando a termine nel più stretto riserbo. La ragazza lì per lì non rispose nulla, ma poi spifferò tutto a Magdolna Borbàs – che in precedenza aveva fatto parte della direzione di quella casa – la quale riuscì a persuaderla che a quel punto, per salvaguardare il suo posto di lavoro, doveva ad ogni costo denunciare la religiosa alle autorità magiare, rivelando l’opera di salvataggio che svolgeva a beneficio degli ebrei. Detto fatto. La ragazza non se lo fece ripetere la seconda volta e, per vendicarsi del torto subito, la mattina del 27 dicembre, si recò presso il quartier generale delle croci frecciate in Ferenc körút 41, per sporgere denuncia ai danni della consorella, proprio mentre sr. Sàra, in compagnia di Edvige Jolsvai si stava recando presso la casa di Liszt Ferenc 6 per predisporre il suo trasferimento con la direttrice.
Quindi, verso l’una, mentre stava rincasando, da un angolo di via Mester, Edvige Jolsvai scorgendo da lontano una sentinella dei croce frecciati appostata proprio davanti all’uscio, allarmata rivolgendosi all’amica esclamò: «non vuoi tagliar la corda? Per poter continuare a sbrigare le cose. Entrerò io nella casa». Ma sr. Sàra replicò fermamente: «No, vengo anch’io!». In effetti era accaduto che subito dopo la denuncia presentata dalla giovane Erzsébet Dömötör, una pattuglia di 7-8 croce frecciati si era precipitata in via Bokréta allo scopo di perquisire da cima a fondo l’intero stabile al termine del quale erano riusciti a scovare le donne ebree nascoste nel rifugio antiaereo. Poi, controllando meticolosamente le carte dei 150 ospiti, erano riusciti a scoprire perfino che una decina di loro erano in possesso di documenti falsi. A quel punto la compagna cercò invano di persuadere la giovane suora a fuggire, ma lei con coraggio si avvicinò al gendarme il quale con un tono minaccioso la costrinse a scendere nel rifugio dove il comandante stava procedendo al controllo dei documenti dei rifugiati. Senza scomporsi più di tanto gli si accostò e, dissimulando una certa meraviglia, esclamò: «Io sono la responsabile della casa. Mi spiegate per favore di cosa si tratta?»
Fissando negli occhi la religiosa, incominciando a sospettare qualcosa, il croce frecciato chiese spiegazioni sulla presenza di tutti quei documenti ritrovati in una cassa, dopodiché, con un tono intimidatorio, indicando una donna, aggiunse: «Lei è la direttrice – da quando questa donna si trova in questa casa?». Suor Sàra obiettò dicendo che avevano «assunto tutti i lavoratori alla fine di ottobre, così lei è venuta qualche giorno dopo». Ma il gendarme non abboccò tant’è che subito la interruppe gridando: «Sta mentendo, questa è una bugia! So tutto di lei!»
Fu a quel punto che la suora capì che per lei non c’era più nulla da fare perché, ormai, la sua sorte era segnata. Difatti, dopo un pasto frugale, mentre stava per essere condotta via dalle croci frecciate insieme alle altre sei donne fermate, all’improvviso rivolta ad uno dei
suoi aguzzini esclamò perentoriamente: «Lasciatemi entrare qui per un breve istante!». Rapidamente aprì la porta della cappella e prostrata davanti al tabernacolo, per qualche minuto, si raccolse in una fervida preghiera stringendo forte il rosario fra le sue mani finché il gendarme spazientito le intimò: «Basta! Vieni immediatamente! Andiamo, potrai pregare ancora durante la notte!» e afferratala brutalmente, col pretesto di farle firmare il verbale, la condussero presso il loro ufficio in Ferenc körút 41, insieme alla catechista Vilma Bernovits, Béláné Fischer, Leontint Féderer, Róna Andornét, Jónás Magdolnát e un certo Bátorinét con il figlio, Istvánnal Bátori, che alla fine, per fortuna, riuscirono a farla franca dimostrando che non erano di origine ebraica. Da quel momento in poi Sr. Sàra Salkaházi e le altre persone arrestate svanirono nel nulla e di loro non si seppe più niente.
Le consorelle attesero invano il suo ritorno recitando i salmi per tutta la notte, senza sapere che ormai, a loro insaputa, il sacrificio si era già consumato. Il giorno successivo, infatti, come racconta nelle sue memorie l’aspirante Leticia, al secolo Ilus Pozsegovits, appresero da un giovane croce frecciato che abitava nei dintorni che sr. Sàra Salkaházi era stata giustiziata all’imbrunire insieme agli altri prigionieri ebrei, dopo un processo sommario, senza neanche una regolare sentenza, aggiungendo che si dovevano ritenere «contente che non fosse toccato a noi». I particolari raccapriccianti del martirio di sr. Sára, tuttavia, furono rivelati soltanto alcuni anni dopo, nel corso del processo che si celebrò a Zugló nel 1967 nei confronti dei diciannove aderenti al partito dei croce frecciati responsabili della tortura e del massacro di tutte quelle persone innocenti. In tale circostanza, infatti, uno degli imputati raccontò, con dovizia di particolari, che «durante quella notte di fine dicembre, i prigionieri vennero trasportati a sera tarda davanti all’edificio della dogana centrale e costretti a togliersi i vestiti di dosso I poveri disgraziati stavano lì, sulla riva del fiume e sapevano che dovevano morire. Alcuni si lamentavano ed imploravano la grazia. In quel momento – prima che rimbombassero nell’aria gli spari del plotone d’esecuzione – una piccola donna dai capelli neri e corti si girò con un’inspiegabile tranquillità d’animo verso i suoi giustizieri, li guardò per un istante negli occhi, si inginocchiò e, alzando gli occhi al cielo, si fece un ampio segno della croce». Fu questo il suo ultimo gesto d’amore anche verso i suoi carnefici i quali, evidentemente, non ancora paghi dello scempio commesso, trascinarono i loro corpi ancora caldi sulla riva del Danubio e, senza alcun ritegno, afferrandoli per i piedi e le braccia, li scaraventarono tra le onde alte che non li avrebbe mai più restituiti. In virtù di questo esemplare gesto d’amore, nel 1969 sr. Sára Salkaházi ha ricevuto da Yad Vashem il titolo di “Giusto tra le Nazioni”, mentre il 17 settembre 2006 è stata innalzata agli onori degli altari dal Primate d’Ungheria, card. Péter Erdő, in rappresentanza di Benedetto XVI, proprio nel giorno in cui 78 anni prima aveva mosso il primo passo sulla strada della sua vocazione.
© Giovanni Preziosi, 2022
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