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La “catena di salvezza” di Padre Placido Cortese

La rete segreta per il salvataggio dei perseguitati politici e degli ebrei allestita da Padre Placido Cortese.

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Fiumi d’inchiostro sono stati versati, finora, per cercare di raccontare con dovizia di particolari, le fasi cruciali che hanno segnato la lotta di Resistenza al nazifascismo. Tuttavia, in tempi recenti, dagli archivi compulsati meticolosamente dagli storici, stanno affiorando uno dopo l’altro nuovi documenti e testimonianze che evidenziano, se ancora ce ne fosse bisogno, il contributo determinante fornito da tanti religiosi e religiose durante l’occupazione tedesca, contribuendo a dissipare dubbi e incertezze di tanti episodi rimasti ancora avvolti nel mistero, per offrire l’occasione di cogliere più da vicino le conseguenze che tali azioni determinarono nell’economia del territorio e della società del tempo.

Fra Placido Cortese con la sorella Nina

Emblematica in tal senso appare la vicenda che, suo malgrado, vide per protagonista il giovane frate minore conventuale della Basilica del Santo di Padova, Placido Cortese, che proprio settant’anni fa, nel novembre del 1944, in una cella del bunker della Gestapo a Trieste, pagò col sacrificio della propria vita l’abnegazione profusa per trarre in salvo  tanti militari alleati, partigiani, ebrei e ricercati dai nazifascisti, aiutandoli a raggiungere in treno, passando per Milano, il confine elvetico, non esitando finanche a collaborare attivamente con l’organizzazione antifascista FRA-MA,[1] capeggiata dai due noti accademici e latinisti patavini  Concetto Marchesi ed Ezio Franceschini.[2]

Concetto Marchesi
Ezio Franceschini

A Padova, nel convento del Santo – dichiara a chi scrive fr. Giovanni Odoardi – non pochi furono aiutati, ma uno dei loro benefattori, il P. Placido Cortese, finì assassinato, a Trieste, nel più crudele dei modi.[3]

fr. Giovanni Odoardi

Questo giovane ed audace frate francescano era originario di Cherso, una cittadina dell’Istria che all’epoca apparteneva all’impero austro-ungarico. Venne alla luce il 7 marzo 1907 ed i genitori lo battezzarono col nome di Nicolò. La sua vocazione sacerdotale subito emerse negli anni giovanili allorché, il 22 ottobre 1920, decise di entrare nell’Ordine dei Frati Minori Conventuali, iniziando la sua formazione presso il seminario antoniano patavino di Camposampiero, dove trascorse l’anno di noviziato nella Basilica del Santo, emettendo la prima professione il 10 ottobre 1924 col nome di fra Placido.[4]

In seguito completò i suoi studi conseguendo la licenza in teologia presso la facoltà dell’Ordine a Roma dove, il 6 giugno 1930, ricevette anche l’ordinazione sacerdotale. Quindi si trasferì a Milano presso la nuova parrocchia dell’Immacolata, dopodiché fu inviato di nuovo alla Basilica del Santo a Padova in qualità di ufficiatore e nel febbraio del 1937, ricoprì perfino la direzione del “Messaggero di S. Antonio” che mantenne per ben sei anni consecutivi.[5]

Quindi, nella temperie della seconda guerra mondiale, il Delegato pontificio della Basilica, l’allora Nunzio Apostolico in Italia mons. Francesco Borgongini Duca,[6] di concerto con il ministro Provinciale dei Francescani Conventuali, p. Andrea Eccher,[7] gli affidarono il delicato incarico di occuparsi dell’assistenza di ebrei, profughi slavi, giovani sloveni e internati nel campo di concentramento di Chiesanuova nella periferia di Padova.[8]

Difatti, come dichiarerà lo stesso ministro provinciale dei conventuali patavini in un’intervista rilasciata al prof. Giorgio Erminio Fantelli nel settembre del 1964, aveva avuto modo di conoscere

in quell’epoca molte persone protagoniste degli avvenimenti sia partigiani che fascisti, anche per opera del p. Fulgenzio Campello (un frate del convento, cappellano delle carceri) che agiva con molta prudenza, intelligenza, specialmente tra i carcerati che egli soccorreva con viveri, sigarette e denaro […]. Era anche in relazione con l’Alto Commissariato fascista per il Veneto diretto da Giuseppe Pizzirani e con Cesare Rossi (tenente aiutante di Pizzirani) e Pozzo presso i quali intervenne a favore di carcerati o di altri e li trovò sempre comprensivi e gentili.[9]

All’indomani della proclamazione dell’armistizio, nel marasma generale e vuoto istituzionale che si verificò nel Paese, padre Placido – insieme al resto del clero patavino – immediatamente si adoperò per cercare di mettere in salvo tutti coloro che erano ferocemente braccati dai nazifascisti e per scongiurare la loro per scongiurare la deportazione, consigliò perfino alle ragazze di presentarsi nelle caserme dichiarando di essere sorelle o fidanzate dei soldati detenuti, in modo tale che poi potevano tranquillamente essere ospitati nelle loro case, indossando gli abiti dei parenti dispersi o morti in guerra.

Dal luglio del 1944, infatti, in seguito alle pressanti richieste del Capo della provincia Federico Menna, inizierà ad imperversare nel capoluogo patavino anche la famigerata banda del maggiore Carità,[10] tristemente nota per la crudeltà delle torture a cui sottoponeva i malcapitati tra le mura di Palazzo Giusti, in via san Francesco 55, che avevano la sventura di finire nelle sue grinfie.[11]

Mario Carità (al centro) insieme a due membri della sua Banda

Tra le persone che collaborarono nel più stretto riserbo con Padre Placido Cortese merita di essere annoverata anche la figura di Carla Liliana Martini che, insieme alle sorelle Teresa, Lidia e Renata facevano parte dell’organizzazione diretta dal giovane frate francescano patavino e dall’ex ufficiale pilota Armando Romani  – emissario delle autorità alleate che si trovavano in Svizzera -. All’indomani della proclamazione dell’armistizio dell’8 settembre 1943, si prodigò per aiutare circa 300 persone, tra prigionieri alleati evasi ed ebrei, a varcare il confine per raggiungere sani e salvi la Svizzera.

Teresa Martini e Andrea Redetti in una foto del primo dopoguerra

Tuttavia questa “catena di salvezza” costò alle giovani sorelle Teresa e Liliana Martini la reclusione nell’orribile lager di Mauthausen dove furono deportate dopo essere state arrestate il 14 marzo 1944. Lidia, invece, riuscì a sfuggire alla cattura perché era fuori Padova quando le SS fecero irruzione nella loro abitazione in via Galilei. Teresa e Liliana furono trasferite nel carcere di Venezia e poi di Bolzano prima di essere internate nel campo di sterminio di Mauthausen dove, dopo un po’, furono destinate al campo di lavoro forzato di Linz. Qui conoscono uno giovane studente di medicina, Andrea Redetti, militante del Fronte della Gioventù di Eugenio Curiel. Spostate nel “sottocampo” di lavoro Wohnlager Erika di Grein an der Donau, Teresa viene sottoposta ad un duro lavoro per  otto ore al giorno ad una fresatrice, mentre Liliana lavora ben 12 di fila al tornio ad acqua in un’officina per la costruzione di pezzi d’aereo. Per fortuna alla fine riusciranno a scampare alla camera a gas soltanto per un pelo ed a fuggire proprio il giorno dopo che gli alleati liberarono il campo il 5 maggio 1945, mentre – com’è tristemente noto – a loro insaputa, p. Cortese era stato brutalmente torturato per alcune settimane e, infine, trucidato ai principi di novembre del 1944 nel bunker della Gestapo a Trieste.

Aveva appena 37 anni!

Teresa e Lidia Martini

Ma ecco come descrive, con dovizia di particolari, l’attività di questa “rete di salvataggio” la stessa Carla Liliana Martini nel suo libro di memorie:

A questo punto, un evento apparentemente casuale comporta un salto di qualità nel sistema di soccorso attraverso il contatto, preso dalla sorella Lidia, con un ufficiale scappato dopo l’8 settembre dal campo di aviazione di Padova e ora nascosto in città. Costui, di nome Armando Romani diventa un abile agente informativo alle dipendenze del console italiano di Lugano. Egli prende in mano a Padova la “rete di salvataggio” precedentemente guidata da padre Artero e da don Zanin costretti entrambi a fuggire in Svizzera perché ricercati.
Romani espone il suo piano a mia sorella Teresa che a sua volta mette al corrente i nostri genitori e le altre sorelle. Posso dire dunque che la nostra “resistenza” sia scattata come conseguenza della formazione ricevuta in famiglia e in parrocchia.
Infatti, tutti aderiamo a questo piano desiderosi di contribuire alla salvezza del maggior numero di persone ricercate, senza pensare ai rischi cui andiamo incontro, mossi prevalentemente da carità cristiana. (…)
In quel periodo conosciamo pure padre Placido Cortese, dal 1937 direttore del «Messaggero di sant’Antonio» (edito dalla basilica del Santo), una rivista diffusa in tutto il mondo.
Costui ricevette da parte delle autorità preposte, e precisamente dal cardinale Borgongini Duca, nunzio apostolico in Italia e delegato pontificio della basilica del Santo, l’incarico di assistere gli ebrei, i croati e gli sloveni internati nel campo di concentramento di Chiesanuova, alle porte di Padova, sia spiritualmente come pure trasmettendo loro, di nascosto, pacchi di viveri e vestiario nonché lettere da parte delle loro famiglie.
Le cronache conventuali di quel tempo riportano che il santuario antoniano in Padova, grazie alle garanzie di cui fruisce quale territorio del Vaticano, costituisce un rifugio sicuro per gli uomini minacciati e perseguitati. Questo padre è particolarmente sensibile e attento ai bisogni dei perseguitati.
Le leggi razziali, emanate nel 1936 in Germania e nel 1938 in Italia, sono inizialmente disattese nel nostro paese, ma ora vengono fatte rispettare con sistemi inumani da parte dei fascisti e dei nazisti.
A ricevere l’aiuto di padre Cortese sono anche i numerosi prigionieri alleati disseminati nel territorio patavino.
Benché sconsigliato dai superiori, padre Cortese continua a provvedere in vario modo alle necessità impellenti: è in contatto con il CLN di Milano, del quale è figura di spicco il professor Franceschini, docente dell’Università Cattolica della città meneghina.
Con lui porta avanti vari progetti che hanno come fine la sottrazione del maggior numero possibile di vite in pericolo dagli sgherri fascisti e nazisti.
Padre Cortese non si mette dalla parte dei più forti ma non è neppure neutrale.
A Padova prende forma la «catena della salvezza» di cui noi sorelle (Teresa, Lidia, Renata, Liliana) siamo dei semplici anelli.
Necessitano: abiti civili, poiché la maggior parte degli ex prigionieri veste tuttora la divisa militare; documenti d’identità italiani; mezzi di trasporto (individuati nelle Ferrovie dello Stato), un punto d’incontro stabilito tra i fuggiaschi e le guide per accompagnarli in Svizzera.
Il percorso programmato è Padova-Milano, dove si cambia treno e linea, per proseguire sino a Oggiono, sul lago di Como, dove le persone vengono affidate a contrabbandieri precedentemente avvisati e profumatamente pagati tramite Romani.
Saranno costoro a far attraversare il confine italo-svizzero, verso la salvezza, a ex prigionieri, ebrei e italiani renitenti alla leva militare.
I viaggi della speranza si susseguono senza inconvenienti e tutto procede come desiderato e previsto. Oltre a noi sorelle Martini, varie sono le persone impegnate, come Delia Mazzucato, Franca Decima, Milena Zambon, Parisina Lazzari, tutte di Padova e Delfina Borgato con sua zia Maria di Saonara (Padova).
La partecipazione diretta delle donne contro la quotidiana follia nazista e fascista è stata un contributo indispensabile alla lotta di liberazione, alla salvezza di tante vittime.
A questo proposito va ricordato che la presenza femminile si è resa necessaria per vari motivi: la sensibilità della donna meglio recepisce i bisogni di chi soffre, la sua presenza può più facilmente passare inosservata mentre gli uomini o sono prigionieri di guerra, o sono sui monti quali partigiani, oppure appartengono alla Repubblica di Salò istituita da Mussolini su ordine di Hitler.
Dalla stazione di Padova partono anche prigionieri provenienti da altri comuni patavini come Este, Monselice, Cittadella … i quali salgono negli scompartimenti, mescolandosi ai civili, diretti nel Trentino dove pastori e boscaioli li aiutano ad attraversare le Alpi per proseguire verso la Svizzera.

Testimonianza di Carla Liliana Martini in “Catena di salvezza
Solidarietà nella lotta contro la barbarie nazifascista”, Edizioni Messaggero Padova, 2006.

Ad ogni modo, nonostante la cautela di padre Placido, la sua attività fu scoperta dalle S.S. tant’è che, a partire dall’autunno del 1944, si verificarono numerose visite improvvise nella Basilica del Santo da parte delle truppe nazi-fasciste allo scopo di trarre in arresto il frate e acciuffare anche alcuni rifugiati sospetti.

L’impavido frate francescano trascorreva le sue frenetiche giornate lungo le strade della città dove incontrava gente disperata che lo aspettavano trepidanti per chiedergli di aiutarle a sfuggire alle persecuzioni. Quindi, tornato in convento si recava nel chiostro dove c’erano ad attenderlo altre persone che avevano bisogno di un suo intervento per essere indirizzate in qualche luogo sicuro o presso persone fidate dove erano sicure di trovare adeguata protezione.

P. Cortese con una collaboratrice: Majda Mazovec

«Padre, c’è una “scopa” da mandare in Svizzera!». Questa era la frase convenzionale che spesso i suoi più fedeli collaboratori sussurravano, con circospezione, attraverso la grata del confessionale a fianco dell’altare maggiore, all’audace frate francescano per avvertirlo che occorreva al più presto un nuovo salvacondotto per far espatriare un fuggiasco, ebreo o inglese, ed impedire che fosse acciuffato dai suoi aguzzini. La risposta non si faceva attendere: «Di che colore, chiara o scura? – replicava prontamente il frate – Attendi e prega mentre provvedo».[12]

A quel punto padre Placido, senza dare troppo nell’occhio, si avvicinava alla cappella di san Luca e, di soppiatto, afferrava dagli ex voto una foto che pressappoco somigliava alla descrizione del fuggiasco che gli era stato appena segnalato, e confezionava un nuovo documento d’identità, opportunamente falsificato, che consegnava alla tipografia del Messaggero di sant’Antonio per farlo stampare. A completare l’opera, poi, ci avrebbero pensato i suoi collaboratori che, per non mettere a repentaglio la loro vita, si preoccupavano finanche di condurre i fuggiaschi alla stazione e accompagnarli fino alla destinazione stabilita. In questo modo centinaia, forse migliaia di persone, sono scampate alla deportazione, in anni nei quali Padova era funestata dal terrore nazifascista.

P. Placido Cortese nella redazione del “Messaggero di Sant’Antonio”

Il giovane frate patavino si avvaleva, infatti, della preziosa collaborazione di alcune persone di provata fedeltà[13] – tra cui spiccavano soprattutto frati e signorine dell’Azione Cattolica e universitarie come Majda Mazovec – alle quali non esitava ad affidare il delicato compito di accompagnare in luoghi sicuri, lontani da occhi indiscreti, questi sventurati che erano per lo più stranieri fuggiti dai campi di prigionia. A questi corrieri raccomandava di non proferire alcuna parola con le persone che accompagnava e, appena portata a termine la missione, dovevano immediatamente lasciare quel luogo e tornare indietro per evitare sgradevoli sorprese.

Padre Placido Cortese assieme ai confratelli collaboratori del Messaggero di S. Antonio

Poi, nel caso in cui qualcuno avesse chiesto loro le generalità di quelle persone, il buon padre li aveva addestrati a dovere, perché in tal caso dovevano rispondere prontamente che quei viaggiatori avevano chiesto soltanto una semplice informazione per recarsi in una strada che non conoscevano, ragion per cui si era fatto loro il piacere di accompagnarli. Fu proprio grazie a questa sua rete di collaboratori che riuscì a salvare la vita a centinaia di ebrei e soldati inglesi e americani permettendo loro di poter espatriare attraverso la linea che da Padova conduceva a Milano e da qui in Svizzera, grazie anche alla preziosa collaborazione del cappuccino padre Carlo Varischi e al prof. Ezio Franceschini.[14] Per i prigionieri inglesi l’intrepido frate francescano si avvaleva di una fitta rete clandestina composta da informatori, benefattori ed altre persone di provata fedeltà che aveva scelto oculatamente per svolgere questa “missione” aiutando, questi poveri sventurati, a sfuggire alle ricerche delle SS e degli agenti delle Guardia Nazionale Repubblicana che già erano sulle loro tracce. 

Ricordo – scrive nel suo memoriale padre Carlo Varischi – la giornata drammatica dell’8 dicembre 1943. Mentre dovevo seguire l’Assemblea della “Necchi” all’Università (Cattolica, nda), mi piombavano da Padova sei o sette comitive di ebrei, terrorizzati per la caccia delle SS tedesche, indirizzati a me da quel sant’uomo di padre Cortese dei Conventuali della Basilica del Santo[15]

Memoriale di padre Carlo Varischi

A tal proposito il signor Mario Gobbin dichiara, inoltre, che:

Più volte ho accompagnato delle persone affidatemi dal padre alla stazione di S. Sofia, ora soppressa. Il mio compito era quello di acquistare i biglietti e di sistemare quelle persone sulla littorina, possibilmente in scompartimenti non troppo affollati.
Un rapido saluto a quei poveretti dal destino incerto, un cenno della mano e poi via al “Messaggero”, dove lui mi attendeva per sapere come era andata la missione. Spesso era preoccupato. Una volta gli è sfuggita una frase: “Poveretti, speriamo che ce la facciano![16]

Testimonianza di Mario Gobbin

P. Placido Cortese subito si mise all’opera alacremente per assolvere il compito che gli era stato affidato dai suoi superiori, tant’è che all’indomani della caduta del regime fascista si prodigò per trarre in salvo numerosi ricercati dai nazi-fascisti, nonostante fosse ben consapevole di essere costantemente sorvegliato. Declinò persino l’invito rivoltogli da alcuni suoi confratelli di trasferirsi in un altro convento più appartato, lontano da occhi indiscreti, in modo da scongiurare questo pericolo che incombeva sulla sua persona, implorando il suo superiore di lasciargli continuare la sua missione di aiutare i tanti perseguitati che, in preda al panico, quasi quotidianamente si rivolgevano a lui.

La Gestapo era perfettamente al corrente che padre Cortese era il vero deus ex machina di questa efficientissima rete assistenziale e da mesi aspettava il momento opportuno per acciuffarlo. Proprio per scongiurare questo pericolo, negli ultimi tempi, l’audace frate francescano, mostrava più cautela, non mettendo più piede fuori dal convento che, beneficiando dell’extraterritorialità, non correva il rischio di essere perquisito.

Purtroppo questo sinistro presagio divenne realtà la domenica dell’8 ottobre 1944 allorché, verso le 13.30, suo malgrado, cadde in un’imboscata ordita da due agenti delle S.S. tale Fritz (o Friedrich) Werdnik di origine slovena di Maribor (deceduto a Salisburgo il 4 marzo 2002) del Servizio di controspionaggio militare tedesco che operava a Trieste, con la complicità di un suo amico, un certo Mirko probabilmente di origini croate, conosciuto dal Padre, il quale si era recato trafelato dal portinaio del convento implorandolo di chiamare subito il buon padre in quanto doveva prestare urgentemente soccorso ad alcuni rifugiati. Questi due loschi individui, rivolgendosi alla guardia della basilica, chiesero subito di parlare con il frate francescano quello “che si occupa(va) dell’aiuto alle persone bisognose”, aggiunsero.

fra Stanislao Masetto

Il portinaio della Basilica del Santo, fra Stanislao Masetto, constatando il volto poco rassicurante di quei due tedeschi, andò a chiamare Padre Placido Cortese il quale gli disse di farli accomodare nella Basilica, ma i due infingardi si rifiutarono accampando scuse destando qualche sospetto in fra Stanislao che, da quel momento in poi, cercò in ogni modo di persuaderlo a non incontrare quegli individui, esclamando: “Non vada, padre. Quei due non mi piacciono”. La risposta, tuttavia, fu perentoria: “Stanislao, cosa vuoi farci? Bisogna usare carità con tutti. Bisogna che vada, ormai mi hanno visto”.

Naturalmente padre Placido, ignaro della perfida messa in scena, orchestrata ad hoc per catturarlo, immediatamente si precipitò oltre il sagrato della Basilica dove trovò ad attenderlo due uomini in borghese che parlavano italiano con uno spiccato accento straniero, uno dei quali era monco alla mano destra. Da quel momento in poi scomparve nel nulla e di lui non si seppe più niente.

Quello che non sapeva era che Mirko era un doppiogiochista della Gestapo che si era infiltrato nella sua rete di fuga che contrabbandava prigionieri di guerra britannici e del Commonwealth fuggiti verso la salvezza nella Svizzera neutrale. Fino a quel momento non avevano potuto perlustrare fino in fondo il convento nel timore di uno scandalo diplomatico con la S. Sede, considerato che la Basilica godeva del diritto di extraterritorialità. Per questo motivo numerosi perseguitati avevano beneficiato di questo escamotage nascondendosi al suo interno per scongiurare gli efferati rastrellamenti effettuati dalle S.S. Tra questi rifugiati in uno dei chiostri del convento, c’era anche una giovane intellettuale ebrea la quale però, indossando abiti civili, fu facilmente individuata e tratta in arresto dai soldati tedeschi.

Basilica del Santo a Padova

Il giovane frate francescano, infatti, ignorava che Mirko, in realtà, era un doppiogiochista della Gestapo che si era infiltrato nella sua rete di salvataggio che cercava di agevolare la fuga degli ebrei e dei prigionieri di guerra britannici e del Commonwealth verso il confine elvetico.

Questi due loschi individui, infatti, sotto la minaccia delle armi, lo avevano costretto ad attraversare la piazza perché in un vicolo non lontano – all’angolo con via Orto Botanico – li attendeva una macchina a bordo della quale fecero salire il sacerdote per condurlo a Trieste nella sede della Gestapo situata in piazza Oberdan. Proprio qui si consumò il dramma del giovane frate francescano, che trovò la morte il 15 novembre successivo, in seguito ad atroci sevizie e torture perpetrate ai suoi danni dai nazisti che, senza alcun ritegno, gli cavarono dapprima gli occhi, quindi gli tagliarono la lingua ed infine lo cremarono, probabilmente, nella Risiera di San Sabba.[17]

Io stesso ho visto molti prigionieri, croati, italiani e di altra nazionalità, che sono stati maltrattati, – dichiarò successivamente nella sua deposizione il sergente Charles Roland Barker, testimone oculare delle percosse a cui fu sottoposto padre Placido – hanno avuto le membra spezzate ed hanno ricevuto il cosiddetto “trattamento elettrico” che ha spesso prodotto bruciature ed altre lesioni del corpo. C’è stato in particolare un prete italiano, frate della chiesa di S. Antonio a Padova, al quale avevano strappato le unghie, spezzato le braccia, bruciato i capelli e che portava sul suo corpo i segni di ripetute bastonate. Mi fu detto in seguito che gli avevano sparato.[18]

Deposizione del sergente Charles Roland Barker

A quel punto, non vedendo più far ritorno in convento padre Placido, il rettore della Basilica, padre Lino Brentari, si preoccupò subito di denunciare al questore di Padova l’inspiegabile allontanamento del frate dichiarando:

Devo precisare che verso le ore 13 di ieri (domenica) due sconosciuti chiesero del suddetto padre con rozza insistenza. Uno era di media statura, faccia piena, carnagione bruna e giacca marrone scuro. L’altro, che si teneva in disparte, slanciato, magro e senza il braccio destro, con un impermeabile.[19]

padre Lino Brentari

Ad ogni modo, nonostante le violenze subite durante gli interrogatori, padre Placido non svelò mai i nomi dei suoi collaboratori, allo scopo di sottrarli ad un analogo turpe destino.

Padre Cortese era terribilmente malridotto – raccontò, con dovizia di particolari, l’allora diciassettenne Janez Ivo Gregorc rinchiuso in un’altra cella del bunker di piazza Oberdan perché membro della Croce Rossa slovena, all’epoca molto attiva nella resistenza contro i nazisti –, era stato bastonato, picchiato, col vestito lacerato, colla faccia insanguinata. Ancora oggi vedo davanti ai miei occhi le sue mani deformate, giunte come in preghiera. Ci siamo riconosciuti; lui mi infondeva coraggio, perché rimanessi costante, confidando in Dio e che non tradissi nessuno.[20]

Testimonianza di Janez Ivo Gregorc

Un’altra testimonianza al riguardo ci viene fornita dal celebre pittore sloveno, Anton Zoran Mušič, che fu rinchiuso per un mese in quelle terribili celle in piazza Oberdan a Trieste, dove la Gestapo sottoponeva i prigionieri ad atroci torture per estorcere la loro confessione.

Il padre pregava sempre, a mezza voce – dichiarò Mušič –; ciò che (mi colpì) era la sua volontà. La fermezza e la fede del piccolo e fragile padre che non si arrese e non tradì nulla.[21]

Testimonianza di Anton Zoran Mušič

Negli scorsi anni sono affiorati dai National Archives and Records Administration (NARA) statunitensi di College Park riguardanti proprio il giovane frate francescano patavino tra cui merita di essere annoverato tra queste pagine una lettera inviata alla Allied Screening Commission da Lugano il 5 giugno 1946, probabilmente dal viceconsole britannico in Svizzera, nella quale dichiara che in quel periodo padre Placido Cortese ed Angelo Lorenzi si adoperarono alacremente nell’aiutare i soldati alleati a fuggire dall’Italia. In un altro report sull’organizzazione padovana per la protezione dei prigionieri di guerra, addirittura si dichiara che

Zanin ha ricevuto denaro da 3 fonti:
1. De Gaston, Vice Console a Lugano, Svizzera;
2. CLN locale;
3. Il capo dei collaboratori locali essendo i fratelli Bonato, anche il loro principale aiuto per la fornitura di vestiti.
Baciagalupi ritiene che la somma totale di denaro erogata dal CLN fosse di circa 50.000 lire.
[…].
De Gaston, ora viceconsole a Milano, dice che Zanin è un bravissimo uomo e uno dell’organizzazione padovana. Il vero capo di questo gruppo era Padre Cortese. Zanin trascorse gli ultimi sedici mesi dell’occupazione tedesca in Svizzera effettuando in questo periodo occasionali visite in Italia.
De Gaston fornì circa 250.000 lire a questa organizzazione padovana tramite Zanin e un altro aiutante chiamato Romani.

N.A.R.A – National Archives and Records Administration, College Park, Maryland, Relazione sul gruppo operante a Padova per soccorrere i prigionieri di guerra: Zanin – Bomaco (recte: Bonato) – Karovic – Organisation in Padua

Inoltre, nel dossier statunitense relativo a padre Placido Cortese, è stato rinvenuto anche un altro “Report of outside investigation” dal quale si evince chiaramente che salvò prigionieri di guerra (Pows) ed ebrei (Jews).

Ucciso dalla Gestapo.
Ha speso 2.000,000 lire della Chiesa per salvare PoWs (Prigionieri di guerra) ed Ebrei (Jews).
Si propone un certificato di II grado (onorificenza) se fosse rimasto in vita.

N.A.R.A – National Archives and Records Administration, College Park, Maryland, Dossier Padre Placido Cortese: Report of outside investigation

Ma perché quel piccolo frate era, in realtà, così temuto dai nazisti? A fornirci una risposta ci pensa Luigi Francesco Ruffato, il quale scrive:

Padre Cortese […] non era un rivoluzionario, ma nemmeno neutrale. Come dice il Vangelo, condivise la sorte di sbandati, ricercati e perseguitati. […] I tedeschi consideravano padre Placido un protettore dei perseguitati politici. […] La coscienza lo spingeva a disattendere i rischi.
Di che cosa lo accusavano? Dice Lidia Martini Sabbadin, testimone e sua collaboratrice: Era accusato di aver protetto ebrei in fuga verso la Svizzera, via Milano; di solidarizzare con il gruppo Fra-Ma, Franceschini-Marchesi, due noti professori dell’Università di Padova (Concetto Marchesi era anche Rettore magnifico), sorto nel giugno del 1944 per soccorrere i prigionieri alleati e aiutare i rifugiati sloveni, croati… che i tedeschi consideravano partigiani comunisti. Fingevo, in basilica, di accostarmi al suo confessionale per confessarmi, invece era un modo per chiedere denaro e fotografie utili a contraffare i documenti. Usavo slogan convenzionali: Abbiamo bisogno di dodici rami… di dodici scope…. E così usciva dal confessionale e mi accompagnava alla Tomba di sant’Antonio per individuare dodici foto esposte fra gli ex voto.
Padre Placido rischiava ogni giorno di essere catturato e ucciso. Le autorità religiose e alcuni confratelli gli consigliavano di andarsene, lontano da Padova. Ma lui, clandestino in convento, continuava nella sua opera, nonostante i più stretti collaboratori fossero stati arrestati o, per timore del peggio, avessero lasciato il terreno della solidarietà. Inviava messaggi agli alleati perché salvassero prigionieri: Furono centinaia a salvarsi attraverso la linea Padova-Milano-Svizzera.[22]

LUIGI FRANCESCO RUFFATO, Padre Placido Cortese un silenzio che gli costò la vita, in Messaggero di sant’Antonio”, 24 Agosto 2004

Alla luce di quanto poi è accaduto, appaiono profetiche le frasi che padre Placido Cortese, ancora giovanetto, in tempi non sospetti, proprio mentre era in procinto di consacrarsi al Signore mediante la professione religiosa, il 7 ottobre 1924, aveva scritto:

La Religione è un peso che non ci si stanca mai di portare, ma che sempre più innamora l’anima verso maggiori sacrifici … fino a morire tra i tormenti, come martiri.[23]

Gli eventi successivi, purtroppo, finiranno per dargli ragione.

Per questo suo gesto dal sapore profondamente evangelico, il 29 gennaio 2002 il vescovo della Diocesi di Trieste, mons. Eugenio Ravignani, avviò il processo di beatificazione che si concluse il 15 novembre dell’anno successivo ed ora si attende soltanto il pronunciamento delle competenti autorità vaticane che hanno esaminato la copiosa documentazione.


[1] F. Giannantoni, IL “Gruppo FRAMA”. Il comunista Marchesi e il cattolico Franceschini: una rete nella Resistenza, in “Triangolo Rosso”, n. 1-2, gennaio-marzo 2008, pagg. 30-33. Tra le numerose persone che operavano in questa rete di salvataggio, particolare rilievo ebbero Armando Romani, le sorelle Martini (Teresa, Lidia e Liliana), Milena Zambon e Maria Borgato cfr. P. GIOS, Dal soccorso ai prigionieri inglesi ai campi di sterminio tedeschi. Le testimonianze dei padovani don Giovanni Fortin e Milena Zambon, Conselve, 1987.

[2] Sulla figura dei due professori della resistenza patavina cfr. P. Treves, Ritratto critico di Concetto Marchesi. Nel decennale della sua morte, Società editrice Dante Alighieri, Milano 1968; E. Franceschini, Concetto Marchesi. Linee per l’interpretazione di un uomo inquieto, Antenore, Padova 1978; C. Pottier (a cura di), Concetto Marchesi (1878-1957). Un umanista comunista. Atti del convegno nazionale di studi, Gallarate 25 ottobre 1997, C.I.S.E., Gallarate 1998; B. De Munari Bortoli, Ricordo Marchesi. 1942-43, Archivio Concetto Marchesi, Cardano al Campo 2006; L. Canfora, La lezione di Concetto Marchesi, il rettore della Resistenza, in “Corriere della Sera”, 19 dicembre 2003, pag. 37.

[3] Carteggio con l’autore di p. Giovanni Odoardi o.f.m Conv., 15 dicembre 2003.

[4] Per un profilo biografico esaustivo di Padre Placido Cortese si veda: A. Tottoli, Ho soccorso Gesù perseguitato. Vita passione e morte del Padre Placido Cortese, Provincia Padovana F.M.C., Padova 2001; Id., Padre Placido Cortese vittima del nazismo, Edizioni Messaggero, Padova, 2002; U. SARTORIO, Il Perlasca col saio. Ricordo di Placido Cortese, in “L’Osservatore Romano”, 10-11 novembre 2014, pag. 4.

[5] C. Sartori, Padre Placido Cortese: il coraggio del silenzio, in “Messaggero di S. Antonio”, Dicembre 2006, n. 1234.

[6] Mons. Francesco Borgongini Duca nacque a Roma il 26 febbraio 1884 da Giovanni e da Rosa Scalzi. Il suo cursus honorum ecclesiastico iniziò compiendo i suoi studi in sacra teologia e diritto canonico presso il Pontificio seminario romano, al termine dei quali fu ordinato sacerdote il 22 dicembre 1906 e nel 1907 divenne officiale della Sacra Penitenzieria apostolica. Nell’anno seguente fu assegnato, in qualità di minutante, alla Sacra Congregazione di Propaganda Fide. Nel 1917 divenne segretario della Penitenzieria. Ricoprì, quindi, la carica di Segretario degli Affari Ecclesiastici Straordinari, partecipando anche alla firma dei Patti lateranensi finché, il 30 giugno 1929 gli fu conferito l’incarico di primo nunzio apostolico per l’Italia, carica che mantenne fino a quando Pio XII lo elevò al rango cardinalizio nel concistoro del 12 gennaio 1953 col titolo di S. Maria della Vallicella. Morì a Roma il 4 ottobre dell’anno successivo.

[7] M. Pozzo Gianni, Ricordo di padre Andrea Eccher, in “Il Santo”, n. 1 (LIV – 2014), pagg. 579-582. P. Andrea Eccher ricoprì la carica di ministro provinciale dal 1940 al 1952.

[8] Cfr. in merito L. Brentari, L’opera del Santo nell’ultima guerra, in “Il Santo”, Anno XXI, Fasc. 3, Settembre-Dicembre 1981, pp. 617-618; L. F. Ruffato, Padre Placido Cortese un silenzio che gli costò la vita, in “Messaggero di S. Antonio”,

Settembre 2004, n. 1209. Sull’opera del clero patavino si rimanda alla seguente bibliografia: Il primo è stato G.E. FANTELLI, La resistenza dei cattolici nel Padovano, Padova, 1965; P. GIOS, Resistenza, parrocchia e società nella diocesi di Padova (26 luglio 1943-2 maggio 1945), Venezia, 1981. A livello generale ne ha trattato anche S. TRAMONTIN, La lotta partigiana nel Veneto e il contributo dei cattolici, Venezia, 1995, pp. 19-25 e V. MARANGON, Il movimento cattolico padovano. Parte I (1875-1945), Padova, 1997, pp. 99-114; P. GIOS, Un vescovo tra nazifascisti e partigiani. Mons. Carlo Agostini vescovo di Padova (25 luglio 1943-2 maggio 1945), Padova, 1986; IDEM, Il clero padovano durante la guerra e la lotta di liberazione, in I cattolici e la resistenza nelle Venezie, a cura di G. De Rosa, Bologna, 1997, pp. 17-123.

[9] Archivio della Curia Provinciale OFMConv Provincia Patavina – Sez. Vice postulazione, Testimonianza-intervista rilasciata nel 1964 dal Ministro Provinciale dell’Ordine dei Francescani Minori Conventuali della Provincia Patavina, P. Andrea Eccher, al Prof. Giorgio Erminio Fantelli in data 11 settembre 1964, trascritta dal figlio e inviata il 29 settembre 2000 a p. Tito Magnani vicepostulatore della causa di beatificazione di p. Placido Cortese, pp. 1531-1535. Il prof. Fantelli fa riferimento a della documentazione ricevuta in consultazione: si tratta fondamentalmente della raccolta di ritagli di giornali, conservati a tutt’oggi nell’Archivio del Centro Studi Antoniani della Basilica del Santo.

[10] Il maggiore Mario Carità nacque a Milano il 3 maggio 1904. Allo scoppio della seconda guerra mondiale partecipò attivamente, anche se soltanto per breve lasso di tempo, alla campagna di Grecia venendo arruolato, come volontario, nella 92ª legione “Camicie Nere”, con il grado di centurione (cfr. M. Griner, La “pupilla del duce”. La Legione autonoma mobile Ettore Muti, Bollati Boringhieri, Torino, 2004, p. 129). Poi, il 17 settembre 1943, a Firenze, fu messo a capo dell’Ufficio politico investigativo di Polizia denominato in seguito “Reparto servizi speciali” (R.S.S.), alle dirette dipendenze della 92ª legione della Milizia Volontaria Sicurezza Nazionale, che in seguito passerà tristemente alla storia col nome di “banda Carità”. Nel gennaio del 1944, infatti, questa formazione fu incorporata nella neonata Guardia Nazionale Repubblicana, di cui Carità divenne uno dei massimi dirigenti nel capoluogo fiorentino. Era una di quelle unità speciali autonome di Polizia più malvagie dello stato fantoccio della R.S.I., al punto che giunse a reclutare al suo interno finanche delinquenti comuni già condannati per furti, rapine, scassi e altri delitti, intraprendendo una spietata campagna di repressione contro ebrei ed oppositori del regime fascista. Naturalmente anche questo reparto si avvalse del contributo di alcuni collaborazionisti italiani fra i quali spiccano, in qualità di ufficiali di collegamento, il capitano Remo Del Sole e il tenente Giovanni Castaldelli, un ex sacerdote affiancato da due monaci benedettini: Padre Ildefonso, al secolo Alfredo Epaminonda Troya e don Gregorio Baccolini, cappellano della “29ª Waffen-Grenadier-Division der SS Italienische Nr.1” e fanatico propagandista del Partito fascista repubblicano. A Padova, invece, il quartier generale fu allestito soltanto ai primi di novembre del 1944 all’interno del magnifico Palazzo Giusti. Il trasferimento nel capoluogo patavino, in realtà, si deve alle pressantirichieste del Capo della provincia Federico Menna (3 agosto 1944 – 27 aprile 1945), il quale intendeva avvalersi dei servigi del Reparto servizi speciali per sdradicare il nucleo politico della Resistenza veneta (cfr. in merito Archivio di Stato Padova, Fondo Questura, b. 235, fasc. A, sottofasc. Allegro A., Benetollo D., Prisco D., Allegro V., interrogatorio per istruttoria CAS di Alfredo Allegro, 28 giugno 1945).Al termine del conflitto il maggiore Carità, insieme alle sue due figlie, riuscì a trovare un provvidenziale rifugio presso l’abitazione di alcuni contadini di Siusi, una frazione del comune di Castelrotto in provincia di Bolzano. Tuttavia, proprio mentre pensava di essere al sicuro, nella notte del 19 maggio 1945, lui e la sua convivente – Emilia Chiani – furono sorpresi da una pattuglia della Polizia militare alleata, e rimasero uccisi nello scontro a fuoco che ne scaturì. Per un ulteriore approfondimento sulle vicende relative al maggiore Mario Carità ed alla ‘banda’ dai lui comandata, si rimanda alle seguenti opere: A. Mugnai, La “banda Carità”. Ora che l’innocenza reclama almeno un’eco, Becocci, Firenze, 1995; P. De Lazzari, Le SS italiane, introduzione di Arrigo Boldrini, 2ª ed., Teti editore, Milano 2002; Istituto Storico per la Resistenza e l’età contemporanea di Lucca, Processo Carità ed altri, fald. 2, fasc. Imputati da Accomanni a De Santis, memoriale difensivo di Castaldelli Giovanni del 28 giugno 1950; M. Dondi, La lunga liberazione. Giustizia e violenza nel dopoguerra italiano, Editori Riuniti, Roma, 1999; R. Caporale, La Banda Carita: storia del Reparto servizi speciali, 1943-45, prefazione di Dianella Gagliani, S. Marco litotipo, Lucca 2005.

[11] Sull’opera della Banda carità a Padova si veda T. Dogo Baricolo, Ritorno a Palazzo Giusti: Testimonianze dei prigionieri di Carità a Padova (1944-45), La Nuova Italia, Firenze 1972; E. Ceccato, Resistenza e normalizzazione nell’Alta Padovana (1943-48): il caso Verzotto, le stragi naziste, epurazione ed amnistie, la crociata anticomunista, Centro Studi Ettore Luccini, Padova 1999.

[12] U. SARTORIO, Il Perlasca col saio. Ricordo di Placido Cortese, art. cit.

[13] Tra le tante persone che collaboravano con questa rete di salvezza meritano di essere annoverate anche le sorelle Teresa, Lidia, Liliana Martini, Milena Zambon e Maria Borgato.

[14] Si veda in merito National Archives and Records Administration, Allied Screening Commission, Confidential Report on investigation made in Padova by Captain J. Litta (Claim N. 53032), in cui si sostiene che: «Padre Cortese diede tutto ciò che poté per l’assistenza ai prigionieri di guerra iugoslavi e agli internati prima dell’armistizio e ai prigionieri di guerra alleati dopo l’armistizio».

[15] A. L. Carlotti, Il memoriale di padre Carlo, fonte autentica per la storia della Cattolica nella Resistenza, in “Vita e Pensiero”, 58 (1975), pagg. 99.

[16] Testimonianza di Mario Gobbin, riportata anche nell’articolo scritta da Luigi Francesco Ruffato, Padre Placido Cortese un silenzio che gli costò la vita, in “Messaggero di S. Antonio”, n. 1209, settembre 2004. Il “Messaggero di S. Antonio” era la rivista stampata della Basilica del santo di Padova che, come abbiamo avuto modo di accennare nelle pagine precedenti, era diretta dal 1937 proprio da p. Placido Cortese.

[17] Cfr. V. Vauhnik, Memoiren eines Militärattachés – ein Kampf gegen das Fingerspitzengefühl Hitlers. Editorial Palabra Eslovena, Argentinien 1967. (Traduzione di Slobodna Slovenija in tedesco).

[18] Public Record Office di Kew Gardens a Londra, TNA, WO 310/23, Affidavit del sergente Charles Roland Barker, 13 novembre 1945.

[19] L. F. Ruffato, Padre Placido Cortese un silenzio che gli costò la vita, in “Messaggero di S. Antonio”, n. 1209, settembre 2004. Per una ulteriore approfondimento sull’opera di p. Palcido Cortese si rimanda al saggio biografico scritto da padre Apollonio Tottoli, Padre Placido Cortese vittima del nazismo, edizioni Messaggero Padova, 2002. 

[20] Citato da U. SARTORIO, Il Perlasca col saio. Ricordo di Placido Cortese, in “L’Osservatore Romano”, 10-11 novembre 2014, pag. 4.

[21] Mušiĉ, infatti, accogliendo l’invito a trasferirsi nella pensione gestita dalle suore tedesche a San Provolo, dove erano ospitati altri connazionali intenti ad attività clandestine contro i tedeschi, verso la alla fine di settembre, fu arrestato dai nazisti insieme a quel gruppo di sloveni sorvegliato da tempo.

[22] Ibidem.

[23] Mons. Eugenio Ravignani, Padre Placido Cortese (1907-1944), Editto del Vescovo di Trieste, Trieste, 29 gennaio 2002.

© Giovanni Preziosi, 2022

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