Convegno di studi in occasione della ricorrenza delBICENTENARIO DELLA NASCITA DI AVELLINO CAPOLUOGO DI PROVINCIAAvellino, 21 giugno 2007(Sala “Penta” della Biblioteca Provinciale di Avellino)La città di Avellino nell’era fascista(1922-1943)Relazione di Giovanni PreziosiI caratteri peculiari del fascismo irpino: Il lento ricambio e la rivincita dell’aristocrazia patrimoniale.Secondo un cliché, a dire il vero piuttosto consolidato, riproposto con forza da una certa vulgata si ritiene che l’affermazione e la conquista del potere da parte del fascismo nel Meridione sia avvenuta sostanzialmente su basi clientelari. A sostegno di questa tesi si fa rilevare che il calcolo opportunistico e l’arrivismo di quanti avevano compiuto il classico salto della quaglia per rimpinguare le file del nuovo soggetto politico, avrebbe contribuito a neutralizzare la debole spinta ideale del movimento, finendo così inevitabilmente per rinsaldare il sistema delle vecchie clientele locali a cui il Regime intendeva sovrapporsi[1]. Tuttavia, bisogna rilevare, che in questa operazione di assimilazione degli elementi della vecchia élite liberale, il Sud rappresentò un’eccezione rispetto al resto del Paese: l’establishment fascista nazionale, infatti, tentò di assorbire al suo interno la vecchia classe dirigente, badando però a non dar luogo ad un’unità indifferenziata, nella quale si smarrisse il ruolo egemone del nucleo originario fascista.Il caso campano, del resto, testimonia in modo incontrovertibile come un rinnovamento della classe dirigente non ebbe affatto luogo, se si considera che i fascisti della prima ora erano accomunati da un’esperienza di militanza in un gruppo politico democratico – quasi sempre quello nittiano – e di affiliazione massonica. Difatti, lo stesso Aurelio Padovani[2], elemento di spicco del fascismo campano, proveniva dal ceto politico liberale in quanto vantava un passato …
Convegno di studi in occasione della ricorrenza del
BICENTENARIO DELLA NASCITA DI AVELLINO CAPOLUOGO DI PROVINCIA
Avellino, 21 giugno 2007 (Sala “Penta” della Biblioteca Provinciale di Avellino)
La città di Avellino nell’era fascista
(1922-1943)
Relazione diGiovanni Preziosi
I caratteri peculiari del fascismo irpino: Il lento ricambio e la rivincita dell’aristocrazia patrimoniale.
Secondo un cliché, a dire il vero piuttosto consolidato, riproposto con forza da una certa vulgata si ritiene che l’affermazione e la conquista del potere da parte del fascismo nel Meridione sia avvenuta sostanzialmente su basi clientelari. A sostegno di questa tesi si fa rilevare che il calcolo opportunistico e l’arrivismo di quanti avevano compiuto il classico salto della quaglia per rimpinguare le file del nuovo soggetto politico, avrebbe contribuito a neutralizzare la debole spinta ideale del movimento, finendo così inevitabilmente per rinsaldare il sistema delle vecchie clientele locali a cui il Regime intendeva sovrapporsi[1]. Tuttavia, bisogna rilevare, che in questa operazione di assimilazione degli elementi della vecchia élite liberale, il Sud rappresentò un’eccezione rispetto al resto del Paese: l’establishment fascista nazionale, infatti, tentò di assorbire al suo interno la vecchia classe dirigente, badando però a non dar luogo ad un’unità indifferenziata, nella quale si smarrisse il ruolo egemone del nucleo originario fascista.
Il caso campano, del resto, testimonia in modo incontrovertibile come un rinnovamento della classe dirigente non ebbe affatto luogo, se si considera che i fascisti della prima ora erano accomunati da un’esperienza di militanza in un gruppo politico democratico – quasi sempre quello nittiano – e di affiliazione massonica. Difatti, lo stesso Aurelio Padovani[2], elemento di spicco del fascismo campano, proveniva dal ceto politico liberale in quanto vantava un passato di militante del movimento capeggiato da Nitti[3]. In effetti, nel Mezzogiorno il radicamento fascista si svolse piuttosto lentamente rispetto al resto d’Italia, tanto è vero che il fascismo campano, prima dell’avvento al potere si caratterizzava fondamentalmente per una diffusione territorialmente limitata a cui faceva da pendant una modesta propensione alla mobilitazione delle masse[4]. Di conseguenza la dinamica dell’irradiamento fascista in Campania ebbe come caratteristica dominante l’esiguità della base d’insediamento, se si considera che nel 1921 le sezioni erano appena 41[5]. Il fascismo irpino seguì una direttrice analoga. Si pensi, infatti, che i primi Fasci in Irpinia sorsero nell’aprile del 1921, in occasione delle elezioni politiche, ad opera dell’Associazione Combattenti per sostenere il proprio candidato Vittoria.
In realtà il disegno strategico che si celava dietro questa iniziativa era sostanzialmente quello di creare una sorta di organismo collaterale di cui servirsi soltanto in questa circostanza, salvo poi disfarsene non appena raggiunto l’obiettivo, per difendersi dalle accuse sferrate dai propri avversari di essere in combutta con la fazione giolittiana rappresentata da Francesco Tedesco e Alfonso Rubilli[6]. Pertanto, alcuni fasci sorti in aprile nella prospettiva di ottenere un successo elettorale, nell’estate successiva già si erano sciolti, avendo espletato la loro funzione. Soltanto l’ala intransigente del fascio di Avellino, composta in massima parte da giovani studenti pugliesi e siciliani dell’Istituto Agrario, si contraddistinse mostrandosi alquanto refrattaria a rientrare nei ranghi del combattentismo[7].
Come si evince da quanto asserito in precedenza il fascismo in Campania, a differenza delle altre regioni, non nacque sulla spinta di «lotte e sacrifizi spesso cruenti», ma al contrario si era radicato con «tranquilla rapidità quando era trionfante in numerose altre province», ragion per cui la folta schiera di trasformisti della prima ora che rimpinguarono le fila del P.N.F., contribuirono a neutralizzare la spinta ideale del movimento – già di per sé evanescente – assestando in tal modo una brusca battuta d’arresto al processo di trasformazione messo in atto dal Partito e finendo per rinsaldare il sistema consolidato delle clientele locali a cui il regime intendeva sostituirsi.
Volgendo lo sguardo a livello locale, viceversa, l’accesso a incarichi politici, filtrato dalle relazioni clientelari, costituiva una tappa obbligatoria nel cursus honorum politico e professionale, mentre il requisito ideologico risultava del tutto marginale. La penetrazione del fascismo nella città di Avellino, diversamente dai centri rurali interni della provincia, incontrò molta più resistenza. Difatti, come abbiamo avuto modo di accennare in precedenza, pur essendo sorta una sezione del fascio nel maggio del 1921, essa era costituita prevalentemente da studenti e combattenti, perlopiù non avellinesi, ed il totale degli iscritti ammontava complessivamente a 200 unità, poco meno della metà del totale delle altre sezioni. Il fascismo irpino, infatti, fin dal suo divenire, affondava le sue radici nel movimento dei combattenti capeggiato dal ragioniere Giuseppe Pelosi.
Come dirà Dorso, si trattava di una «folla indistinta di giovani artigiani e contadini, sbattuti attraverso l’inferno della guerra senza nessun corredo di coscienza critica». Tuttavia, va rilevato che il fascismo si affermò soltanto nel momento in cui s’impadronì completamente del movimento dei combattenti, col quale vivrà anche fasi di contrapposizione dopo l’entusiasmo dei primi tempi. All’interno del P.N.F. irpino, infatti, convivevano due anime: una intollerante e aggressiva, che faceva riferimento ad Aurelio Padovani, fiduciario per la Campania, capeggiata dallo squadrista umbro Fausto Fatti e dallo studente della Scuola Enologica Alberto Carfì; e l’altra, che alla fine prevalse confluendo nel vecchio sistema politico mediante il tradizionale calcolo opportunistico, rappresentata dal marchese Paolo De Cristofaro, affiancato dal giurista Alfredo De Marsico, Oberdan Cotone e dall’avvocato Giovanni Trevisani.
Gli ostacoli che contrastarono l’affermazione del fascismo nel capoluogo irpino vanno rintracciati, essenzialmente, nella fitta rete clientelare allestita dalle forze politiche tradizionali che avevano dalla loro parte soprattutto i ceti impiegatizi medio-superiori. Ciò fece si che le resistenze si protrassero ben oltre la marcia su Roma e il consolidarsi del regime. L’analisi di Dorso risulta ancora una volta illuminante per fornire la spiegazione di questo fenomeno. Il fascismo, sosteneva l’insigne meridionalista irpino, aveva creato nel Mezzogiorno «una nuova classe trasformistica, la di cui forza [era] riposta nell’opera di mediazione tra il Governo centrale e le masse inerti». Quindi, concludeva Dorso riferendosi alla crisi politica del momento,
Ad ogni modo fu proprio questo modus operandi intransigente che sancì la capitolazione di Carfì e di Fatti, favorendo l’affermazione definitiva dell’ala moderata. Il bilancio, sullo stato del partito relativo all’anno 1923, presentato dal segretario Cotone ammontava a 128 fasci, 11.000 iscritti, 90 amministrazioni fasciste, nonché numerosi e forti sindacati.
Fin dalla metà del 1923 iniziò un processo di normalizzazione e di cooptazione di vecchie personalità, in realtà estranee alle forze politiche di matrice giolittiana quali/come: Carmine Barone, Nunziante Testa, Carmine Tarantino, Giovanni Trevisani e Alfredo De Marsico. Tuttavia, l’adesione dei vecchi notabili e possidenti costituiva soltanto una maschera dietro la quale si celava ancora integro lo spirito padovaniano, che sembrava riaffacciarsi anche con Oberdan Cotone il quale, nel 1923, fu eletto segretario generale dei sindacati fascisti della Provincia. Difatti, l’azione di penetrazione del fascismo sembrò avvalersi di uno strumento quanto mai efficace quale era quello dell’organizzazione sindacale, sotto il potente impulso del suo solerte segretario.
Basti ricordare che nel 1923 su 11.000 iscritti al fascio, 8.000 erano inquadrati nei sindacati fascisti. Nella prima metà dello stesso anno, anche nella città di Avellino, si assisteva ad un notevole sforzo in questa direzione che si rivolgeva, da un lato verso quei settori economici più bassi (vetturini, lavoratori del terziario, ecc.), ma soprattutto verso i ceti medi intellettuali costituiti dagli impiegati del Comune (150 iscritti) e dai professori delle scuole medie. La convivenza all’ombra del fascismo di gruppi ed interessi diversificati consentì la ricomposizione del fronte borghese che, dopo il fervore padovaniano, riprese il sopravvento senza incontrare più ulteriori intralci. Finanche la scelta aventiniana di un numero cospicuo dei Democratici Liberali, in ossequio alla scelta del loro lider maximo Alfonso Rubilli, se sottraeva al fascismo cittadino una notevole base di consenso, tuttavia, in seguito si rivelerà determinante nel favorire questo processo, liberando il campo da attriti e sensi di rivalsa.
La conquista del municipio sancì, pertanto, la piena affermazione del regime ad Avellino e l’ascesa al gradino più alto dell’amministrazione cittadina suggellò la definitiva legittimazione del ceto politico di matrice fascista. Difatti, il blocco sociale che ad esso si richiamava costituiva un gruppo sostanzialmente coeso, in cui si riscontravano reali articolazione gerarchiche. A primo acchito, può sembrare che in seguito alla normalizzazione, messa in atto con maestria dal nascente regime, si ristabilivano, seppur in un quadro radicalmente mutato, le antiche distanze sociali visto e considerato che il primo – e anche l’ultimo – sindaco fascista era esponente del ceto agrario locale.
In tal modo, pur senza mutare il quadro sociale preesistente, il fascismo offriva l’opportunità a vasti strati del ceto medio di annullare il divario con le classi superiori. Gli homines novi portati alla ribalta della scena politica locale dal regime, infatti, non diedero vita ad un processo di disgregazione del vecchio ordine sociale, ma si limitarono soltanto ad estendere i confini alle classi emergenti. Il consolidamento del sistema di potere fascista nei maggiori centri urbani era subordinato alla cooptazione di almeno uno dei due più rilevanti schieramenti moderati, il giolittiano e il popolare, nella sfera d’influenza del partito fascista. Quest’ultimo si inserì nel conflitto per l’acquisizione del consenso tra i ceti medi impiegatizi e proprietari, utilizzando la corrente ideologicamente meno motivata, riplasmandone la sua prospettiva politica per convertire a proprio vantaggio il suo reale peso specifico elettorale.
La penetrazione dell’ideologia fascista nell’ambito dei partiti tradizionali fu favorita, probabilmente, ad una comune matrice massonica, che costituì il deterrente nello scontro frontale tra gruppi borghesi. Per quanto concerne, poi, la contiguità rispetto ai popolari essa andava ricercata più che altro nelle motivazioni clientelari che spinsero i candidati dell’ala moderata a confluire nella sfera d’influenza governativa. Nello scontro tra le due anime del moderatismo, il fascismo si schierò – in genere – con la corrente progressista più incline a recepire le istanze del nuovo ceto politico. Nel capoluogo irpino la classe dirigente fascista fu cooptata, dunque, dalle fila del Partito popolare, il cui ultimo segretario provinciale, Modestino Romagnosi, rivestiva la carica di rettore dell’Amministrazione Provinciale, affiancato da un altro popolare, l’avvocato De Cunzo.
Nel frattempo, si apprestavano a confluire nel P.N.F. anche il conte Cenci-Bolognetti, l’avvocato Petrizzi e il marchese Paolo De Cristofaro, astro nascente del regime e futuro segretario federale. Questi ultimi vennero scavalcati a sinistra dai repubblicani capeggiati da Ferrara e da Oberdan Cotone, i quali aderirono immediatamente al movimento fascista, mentre le uniche voci, peraltro flebili, di dissenso al regime provenivano proprio dai giolittiani Alfonso Rubilli ed Ettore Tedesco e dal nittiano Francesco Amatucci. Tuttavia, bisogna rilevare che la scomposizione dei gruppi politici moderati andava attribuita alla separazione dei capicorrente dalla loro base elettorale.
Ancor prima della crisi determinata dall’efferato assassinio perpetrato da alcuni sicari fascisti ai danni del deputato socialista Giacomo Matteotti, la spinta al ricambio avviata dal regime sembrò sul punto di vacillare in seguito alla controffensiva dei gruppi moderati liberali – che controllavano la maggior parte della amministrazioni comunali – e del potere prefettizio locale. Nelle province campane i segretari federali furono cooptati, in larghissima parte, dalla piccola e media borghesia. In realtà fu proprio il declassamento verso livelli di reclutamento intermedio – designando alla guida del P.N.F. esponenti privi di un adeguato spessore politico – a relegare questo organismo al rango di ufficio distaccato del potere prefettizio.
Nel 1925 il regime diede il via alla trasformazione della macchina amministrativa con la soppressione del principio elettivo e l’istituzione dell’Alto commissario cittadino al quale furono affidate le funzioni spettanti al prefetto e al provveditorato alle opere pubbliche e la sovrintendenza su tutte le amministrazioni statali della provincia. In questo modo gli organi amministrativi e politici furono ridotti al rango di meri dipartimenti del potere centrale. In realtà, l’Alto commissario poteva essere considerato a pieno titolo come l’antesignano dell’istituto podestarile che prese forma e sostanza a partire dal 1926 sancendo, definitivamente, l’incompatibilità del municipio politico autonomo con la teoria centralistica dello stato fascista, in virtù della quale il «Municipio amministrativo era soltanto concepibile come organo dello Stato, gerarchicamente vincolato ad esso e al potere centrale»[10].
Veniva così abolita, senza colpo ferire, ogni forma di autonomia locale. Tuttavia, nella città di Avellino la supremazia del potere prefettizio tendeva a ridimensionare l’autorità del podestà. Questa nuova istituzione, dopo qualche perplessità, venne accolta favorevolmente dalla stampa avellinese, in quanto contribuiva a «porre fine alla cuccagna comunale ed al carnevaletto elettorale ricorrente»[11]costituendo un elemento di precisazione delle alleanze sociali realizzate dal fascismo fin dal suo divenire. In realtà, l’introduzione del nuovo ordinamento comunale non si tradusse, come era negli auspici, in una repentina normalizzazione del quadro amministrativo, al contrario, fino al 1931, si verificò un frenetico avvicendamento di commissari prefettizi che furono chiamati a ricoprire questa nuova carica, per consentire in tal modo al regime di imprimere un’accellerazione al processo di fascistizzazione nei quadri del potere locale non ancora ben definito. L’instabilità amministrativa era testimoniata dal fatto che ad Avellino si alternarono in questo quinquennio (1926-1931) ben quattro commissari prefettizi e due podestà. La struttura monocratica di questo organo amministrativo, rappresentava esso stesso un elemento permanente di instabilità, suscitando ambizioni e rivalità nell’entourage della stessa classe dirigente fascista. La doppiezza costituiva uno degli espedienti più in voga in quel periodo, a cui si faceva spesso ricorso nella competizione politica, in quanto costituiva ormai un fenomeno particolarmente diffuso nel Mezzogiorno[12] al punto da indurre le autorità a intensificare il controllo sugli enti locali cercando di arginare la conflittualità, per l’appunto, mediante la nomina di podestà e commissari esterni.
Il ricorso sistematico a queste rigide forme di controllo si evinceva, tra l’altro, dalle frequenti ispezioni svolte proprio durante i primi anni dell’entrata in vigore del nuovo istituto di governo municipale. Nel capoluogo irpino, così come avveniva a livello nazionale, la fase che segnò il passaggio dall’età liberale al regime fascista si caratterizzò per la natura convulsa con la quale si svolse, almeno fino agli albori degli anni trenta, allorquando con la nomina a podestà di Giuseppe de Conciliis, si gettarono le basi per un periodo di stabilità amministrativa che si protrasse fino al 1938.
Le prerogative indispensabili, predisposte dal legislatore, per poter aspirare a ricoprire la carica di podestà (sposato, con prole, di fede cattolica, benestante) in questo caso erano puntualmente rispettate, come risulta dalle biografie conservate presso il fondo “Podestà”del Ministero degli Interni. I requisiti richiesti per poter ambire a ricoprire la carica di podestà tendevano, dunque, a favorire i rappresentanti del ceto possidente, ai quali venivano imposti, tuttavia, dei precisi vincoli nell’attribuzione e nell’esercizio delle loro funzioni, caratterizzate da tutta una serie di prescrizioni morali e sociali.
In questo modo, come rileva opportunamente Paolo Varvaro, dal ceppo della vecchia classe dirigente si diramava una nuova classe di funzionari, assimilando il patrimonio etico e «le regole di comportamento che non (erano) più quelli delle aristocrazie patrimoniali ma non (erano) ancora quelli di una classe media emergente»[13]. Si nota, fin dall’inizio, nella selezione del personale politico-amministrativo fascista, una predilezione per l’elemento proprietario, scelta che sembra rinverdire – in contrapposizione alla scelta privatistica nell’esercizio del potere propria della borghesia giolittiana – una concezione patrimonialistica che affonda le sue radici nella tradizione elitistica di matrice risorgimentale, secondo cui soltanto il ceto che era in possesso di un congruo patrimonio poetva aspirare a ricoprire cariche pubbliche, senza lasciarsi condizionare dalle blandizie materiali legate all’esercizio dell’attività politico-amministrativa. Questa tendenza costituirà il leitmotiv di tutto il periodo successivo e non conoscerà alcuna deroga dell’impianto politico-amministrativo. In realtà, come sembrano attestare i primi risultati di ricerca su questo terreno, la matrice autoritaria dello stato fascista non debella la natura intimamente conflittuale del potere a livello locale, né tanto meno azzera la dialettica centro-periferia, anzi ne ridefinisce i termini del rapporto.
Ciò, in parte, è determinato dalla continuità sul piano istituzionale di determinati vincoli ereditati dallo stato liberale, ma in modo più specifico dipende dalla complessità con cui cominciarono a manifestarsi i processi di ricambio all’interno della classe dirigente dominante. In sostanza si tratta di individuare, attraverso lo spessore sociale, economico e politico dei protagonisti, gli effettivi confini dell’area di mediazione tra lo stato e la società civile nel momento in cui – di fronte ad una realtà complessivamente strutturata su solide relazioni parentali e clientelari – essa è sottoposta ad un deciso e massiccio sviluppo dell’iniziativa politica programmata dall’alto. Un modo, insomma, «per leggere dall’interno le spinte molteplici che si affrontano o convivono durante il ventennio tra centro e periferia, tra vecchio e nuovo, tra istituzioni e società civile»[14].
Per la realizzazione di questo genere di ricerche, dunque, si è dovuto partire necessariamente ab imis, in quanto nella numerosissima pubblicistica e nella scarsa letteratura scientifica dedicata alla storia dell’abbazia di Montevergine di questo periodo, è stato possibile rintracciare soltanto dei frammenti utili a questo discorso, visto e considerato che il cospicuo stato delle fonti archivistiche si è rivelato poco esplorato e privo di un’adeguata analisi ermeneutica.
Pertanto l’auspicio che ci sentiamo di formulare per l’avvenire è che d’ora innanzi questi studi possano ricevere un impulso ed un’attenzione maggiore, aprendo la strada a quel filone della storiografia locale per contribuire a gettare un ulteriore fascio di luce su queste vicende storiche, dissipando – in tal modo – dubbi e incertezze per aprire la strada a questo vasto campo di ricerche rimasto, purtroppo, ancora avvolto nel mistero.
L’opera in questione si è distesa su un ampio orizzonte nel quale sono emersi i vari aspetti della vita civile e politica irpina, ordinaria ed istituzionale. Insomma, un quadro completo ed organico della storia scritta nel tempo dall’abbazia benedettina di Montevergine che non rimase affatto passiva ed indifferente alle spinte modernizzanti che riceveva dalle nuove idee politiche, sociali e religiose, rivelandosi – proprio nel corso di questi anni – un’autentica fucina per la formazione dell’élite politico-amministrativa locale, soprattutto di matrice democristiana, fornendo ad essa gli strumenti necessari, culturali ed ideali, per poter emergere ed affermarsi nell’agone politico provinciale e nazionale.
L’élite politico-amministrativa fascista durante il ventennio:Il lento ricambio e la rivincita dell’aristocrazia patrimoniale.
Bisogna far osservare che l’élite dei notabili‑funzionari ai quali il regime affidò la gestione delle federazioni provinciali del partito, non aveva alle spalle una militanza ed un’esperienza politica consistente. I primi funzionari del regime che salirono alla ribalta della scena politica locale erano espressione della media e piccola borghesia professionale. La predominanza della componente notabiliare nell’ambito del ceto politico fascista era confermata dal fatto che la sua affermazione non dipendeva da un criterio di fedeltà e di merito, bensì derivava dalla posizione sociale e dalla capacità di mediazione all’interno del gruppo di appartenenza. Al vertice della piramide notabiliare si collocavano i dirigenti di maggior prestigio a livello nazionale, quali ad esempio Alfredo De Marsico, la cui designazione alla carica di ministro di Grazia e Giustizia nel 1943, rispondeva a criteri di competenza e di attitudini professionali.
Nativo di Sala Consilina, un paese in provincia di Salerno, De Marsico, divenne avellinese d’adozione, fin dal 31 ottobre 1920, allorché si candidò nella lista del Fascio delle opposizioni alle elezioni provinciali per il collegio di Avellino. La sua adesione al fascismo, invece, risaliva al 28 gennaio 1923, poco dopo fu chiamato dal Preziosi a far parte dei Gruppi Fascisti di Competenza; in effetti fu considerato fin dall’inizio un liberale prestato al fascismo come il filosofo Giovanni Gentile. Tuttavia, mentre quest’ultimo, affascinato dal carisma del Duce si fece relegare ai margini della vita politica, impegnandosi in attività esclusivamente culturali, De Marsico tentò di contrastare il fascismo, “per linee interne” – come avrebbe detto più tardi Bottai – in nome della civiltà. Difatti, basta ricordare che quest’ultimo fu l’unico, insieme a Porzio, ad avanzare qualche obiezione nel corso di una seduta della Camera dei Fasci e delle Corporazioni contro la reintroduzione, nel nostro ordinamento, della pena di morte, voluta da Mussolini e proposta dal giurista del regime Alfredo Rocco. Inoltre, non esitò ad opporsi a numerosi provvedimenti emessi dal fascismo, come il Tribunale Speciale, che riteneva addirittura incostituzionale. L’attività politica dell’insigne giurista iniziò all’indomani della caduta di Padovani, allorquando ricevette la nomina a far parte del Direttorio Federale (5 giugno 1923). Tuttavia, nonostante le sue benemerenze, rischiò di essere escluso dal listone in occasione delle elezioni politiche che si svolsero nel 1924. Ma sul filo del rasoio riuscì ad essere candidato e successivamente la sua brillante affermazione gli valse a fugare ogni sospetto nei confronti di chi aveva paventato più di una perplessità sull’opportunità della sua candidatura.
In seguito, la sua stella cominciò a brillare ancora più intensamente al punto che fu nominato fiduciario per la Campania e membro del nuovo direttorio nazionale del P.N.F. Questo momento di grande successo personale fu offuscato, nei primi mesi del 1925, quando in seguito alla grave crisi del fascismo irpino fu costretto a presentare le dimissioni da membro del Direttorio Nazionale e da fiduciario per la Campania al prefetto Almansi. In realtà le motivazioni di fondo che spinsero De Marsico a prendere questa drastica decisione, andavano ricercate nel venir meno del sostegno da parte della segreteria del P.N.F. alla federazione irpina, divenuta oggetto di una denigratoria campagna giornalistica, ad opera del Preziosi, che non mancava di lanciare frecciate velenose nei confronti dei dirigenti irpini dalle colonne del suo giornale Il Mezzogiorno. L’altro motivo di amarezza del giurista avellinese risiedeva nel continuo rinvio della concessione di provvidenze e lavori pubblici a favore della provincia.
Ad ogni modo, la parabola politica di De Marsico sembrò subire una vera e propria incrinatura solo agli inizi del 1929, allorché il prefetto Chiaromonte tentò astutamente di estrometterlo dalla lista del P.N.F. In seguito a questo increscioso avvenimento De Marsico si convinse di rivolgersi direttamente al Duce, scrivendogli una lettera, nella quale affermava:
Nel corso degli anni 30, fino al definitivo crollo del regime, De Marsico rimase l’unico punto di riferimento del fascismo irpino visto e considerato che gli altri tre esponenti di rilievo, Preziosi, De Cristofaro e Brescia, erano ormai scomparsi dal panorama politico locale. Così, al giurista avellinese nel 1932 fu affidata la presidenza del Consiglio Provinciale dell’Economia Corporativa, che mantenne fino al 1940. La sua parabola politica raggiunse l’apice/il culmine il 5 febbraio del 1943, allorquando Mussolini, in uno dei suoi ultimi rimpasti, lo chiamò a ricoprire la carica di Ministro di Grazia e Giustizia nel suo governo. In questa veste, grazie all’influenza che vi poté esercitare, riuscì ad ottenere l’approvazione del progetto di trasferimento della stazione ferroviaria dalla periferia est di Avellino (dov’è ancor oggi!) al vallone Fenestrelle. Il piano prevedeva anche un collegamento ferroviario con Nola, dove il tracciato si sarebbe unito alla Circumvesuviana, in modo da congiungere direttamente Avellino con Napoli. L’ambizioso disegno, tuttavia, con lo scoppio della guerra venne sospeso e in seguito fu definitivamente accantonato.
Com’è noto, l’approvazione dell’ordine del giorno sottoscritto da Grandi nella seduta del Gran Consiglio, svoltasi nella notte tra il 24 e il 25 luglio 1943, determinò la caduta del regime, offrendo al Re il pretesto costituzionale di esautorare Mussolini dalla guida del governo e di sostituirlo con il maresciallo Badoglio. La partecipazione di De Marsico a quella che venne definita una congiura monarchica con l’adesione di una frangia di fascisti dissidenti, non si limitò al solo voto favorevole, egli, infatti, entrò nel merito della questione ricercando il cavillo costituzionale in grado di dar forma giuridica alla stesura dell’ordine del giorno. Da questa sua decisa presa di posizione, scaturì, successivamente, la condanna a morte in contumacia spiccata nei suoi confronti nel 1944, dal Tribunale repubblichino di Verona.
Alla scadenza del mandato ministeriale, inoltrò formale richiesta per essere di nuovo investito dell’incarico di preside della provincia, dimostrando ancora una volta il forte legame che intercorreva tra la carriera politica ed il retroterra locale[16]. Terminate le ostilità, dopo un periodo dedicato esclusivamente all’insegnamento – era infatti docente di diritto presso l’ateneo napoletano – De Marsico tentò di rientrare nella vita politica attiva, ma commise l’errore di schierarsi col partito monarchico che, ormai, non trovava più larghi consensi nel cuore degli italiani. La stagione delle amministrazioni democratiche ad Avellino subì una battuta d’arresto a partire dal 1923, in virtù delle dimissioni rassegnate inopinatamente dai consiglieri, che manifestarono in tal modo la loro resa di fronte alle reiterate richieste di sovvenzione di sussidi da parte dei dipendenti comunali, da finanziarsi mediante l’accensione di nuovi mutui, col conseguente inasprimento fiscale ai danni del settore commerciale[17].
Tuttavia bisogna rilevare che la penetrazione del fascismo nella città di Avellino, diversamente dai centri rurali interni della provincia, incontrò molta più resistenza. Difatti, pur essendo sorta una sezione del fascio nel maggio del 1921, essa era costituita prevalentemente da studenti e combattenti, perlopiù non Avellinesi, ed il totale degli iscritti ammontava complessivamente a 200 unità, poco meno della metà del totale delle altre sezioni. Il fascismo irpino, infatti, fin dal suo divenire, affondava le sue radici nel movimento dei combattenti capeggiato dal ragioniere Giuseppe Pelosi. Come dirà Dorso, si trattava di una folla indistinta di giovani artigiani e contadini, sbattuti attraverso l’inferno della guerra senza nessun corredo dicoscienza critica. Tuttavia, va rilevato che il fascismo si affermò soltanto nel momento in cui s’impadronì completamente del movimento dei combattenti, col quale vivrà anche fasi di contrapposizione, dopo l’entusiasmo dei primi tempi.
All’interno del fascismo irpino, infatti, convivevano due anime: una intollerante e aggressiva, che faceva riferimento ad Aurelio Padovani, fiduciario per la Campania, capeggiata dallo squadrista umbro Fausto Fatti e dallo studente della scuola enologica Alberto Carfì; e l’altra, che alla fine prevalse, confluendo nel vecchio sistema politico mediante il tradizionale trasformismo, rappresentata dal marchese Paolo De Cristofaro, affiancato dal giurista Alfredo De Marsico, Oberdan Cotone e dall’avv. Giovanni Trevisani. Gli ostacoli che contrastarono l’affermazione del fascismo nel capoluogo irpino vanno rintracciati essenzialmente nella fitta rete clientelare allestita dalle forze politiche tradizionali, che avevano dalla loro parte soprattutto i ceti impiegatizi medio-superiori. Ciò fece si che le resistenze si protrassero ben oltre la marcia su Roma e il consolidarsi del potere fascista. L’analisi di Dorso risulta illuminante per fornire la spiegazione di tali processi. Il fascismo, sosteneva l’insigne meridionalista irpino, aveva creato nel Mezzogiorno «una nuova classe trasformistica, la di cui forza (era) riposta nell’opera di mediazione tra il Governo centrale e le masse inerti». Quindi, concludeva Dorso, riferendosi alla crisi politica del momento, «non si tratta(va) della lotta fra due principi opposti, di cui uno il fascismo (…) e l’altro il trasformismo (…) ma si tratta(va) della lotta di due sistemi identici e forse perciò più fieramente avversi fra loro»[18].
All’indomani della marcia su Roma, tutta la provincia fu funestata, per vari mesi, dalla ferocia intimidatoria dello squadrismo, che imperversava ovunque grazie all’impunità di cui godeva. Assalti ad associazioni operaie, violenze private, ferimenti, addirittura assassini, si registrarono un po’ dappertutto, in particolar modo alla stazione ferroviaria di Avellino. Tuttavia, l’episodio più eclatante, che suscitò scalpore e veementi reazioni ad opera dei militanti fascisti del capoluogo, fu l’assassinio perpetrato ai danni del giovane studente Gino Buttazzi, che si consumò nei pressi di una nota via cittadina, il 23 maggio del 1923.
L’atto criminoso, ufficialmente fu attribuito al giovane falegname di estrazione socialista Lazzaro Battista, ma in realtà, stando alla memorialistica coeva/dell’epoca, quasi certamente, avvenne in seguito ad un colpo partito accidentalmente dalla rivoltella di un altro fascista. In seguito a questo delitto, l’ordine pubblico fu sconvolto dalla efferata recrudescenza dello squadrismo, che intervenne con mano ferma, seminando il panico nella popolazione, non esitando a far ricorso a spari, assalti e bastonature.
Ad ogni modo, fu proprio questo modus operandi intransigente, che sancì la capitolazione di Carfìe di Fatti, favorendo l’affermazione definitiva dell’ala moderata. Il bilancio, sullo stato del partito al 1923, presentato dal segretario Cotone ammontava a: 128 fasci, 11.000 iscritti, 90 amministrazioni fasciste, nonché numerosi e forti sindacati.
Il successo di mobilitazione delle masse intorno al partito, registrato tra il 1922 e il 1923 dalle organizzazioni sindacali, che si richiamavano al nuovo movimento, andava ascritto essenzialmente alle veementi rivendicazioni corporative e demagogiche che costituivano una peculiarità del sindacalismo fascista delle origini. Nel capoluogo, difatti, nel corso di questi anni vennero fondati il sindacato dei dipendenti comunali, dei professori e degli studenti medi, dei medici, degli ingegneri, dei vetturini, dei lavoranti di albergo e cosi via[20]. Questi nuovi organismi fungevano, in pratica, da veri e propri anelli di congiunzione intorno ai quali cominciava a saldarsi il legame tra la società civile e il partito, mediante una penetrazione capillare in modo da surrogare le diffidenze che cominciavano a manifestarsi nei confronti del P.N.F. anche nel periodo di maggior fulgore del regime[21].
Nel capoluogo irpino, infatti, alla metà degli anni 20, rispetto ai circa 500 iscritti al PNF, le diverse categorie sindacali raccoglievano pressappoco il doppio delle adesioni[22]. La figura più eminente del nascente sindacalismo fascista era rappresentata senza dubbio dal solerte organizzatore Oberdan Cotone, il quale discendeva da una famiglia di spiccate tradizioni repubblicane. In seguito si dedicò ad un’intensa attività giornalistica, culminata nel 1924 con la nomina al vertice della federazione irpina[23]. Tuttavia, va rilevato che i brillanti risultati riscossi a livello sindacale non premiavano l’abnegazione effettivamente profusa dal fascismo sul piano locale, in quanto quest’ultimo aveva privilegiato quei settori che non avevano aderito o erano scarsamente presenti nel blocco sociale dei Democratici Liberali. In questa ottica risultava evidente che il confronto di maggior rilievo si svolgeva sul piano amministrativo per aggiudicarsi il controllo dell’ente municipale. In realtà, questa scelta costituiva l’unica via d’uscita che indusse il fascismo a misurarsi sul terreno classico della lotta politica meridionale, quello che, mediante una prassi consolidata in auge dopo l’avvento della sinistra storica, aveva sistematicamente ricondotto lo scontro politico alla conquista dell’amministrazione locale.
Alle elezioni che si svolsero nel 1924, con un nuovo sistema elettorale varato con la legge Acerbo, basato sul collegio regionale e sul premio di maggioranza, il listone fascista degli onorevoli De Cristofaro, De Marsico e Brescia, riuscì a prevalere grazie anche al ferreo controllo ed alle pressioni esercitate dalla prefettura e al clima di intimidazione in cui si svolse la competizione elettorale. La voce dell’opposizione riuscì a farsi sentire soltanto mediante la lista dell’Orologio, di cui il leader indiscusso era Alfonso Rubilli che, nel capoluogo irpino, riuscì a surclassare addirittura i candidati fascisti. Difatti, sebbene il listone ottenne dappertutto una pregevole affermazione, raggiungendo la propria percentuale record proprio in Irpinia col 79,50%, in provincia di Avellino, infatti, la lista fascista fece registrare 68.749 voti, a fronte dei 7.270 della compagine rubilliana, dei 2.107 del blocco di forze riunite intorno alla Bandiera capeggiata da Di Marzo, dei 2.087 della lista amendoliana, dei 1.425 della Democrazia Sociale di Vittoria, dei 615 dei comunisti, dei 540 del P.P.I e dei 346 voti riportati dai socialisti unitari.
Tuttavia, a livello cittadino la situazione si capovolse radicalmente, sancendo la clamorosa affermazione della lista dell’Orologioche, con 2.674 preferenze, prevalse su quella fascista che ne ottenne soltanto 1.148. Dunque un vero e proprio campanello d’allarme per il fascismo avellinese, si erano rivelate le elezioni comunali che si svolsero nel capoluogo irpino il 24 febbraio 1924, facendo registrare appena 2.547 votanti (29%) a fronte di ben 8.821 elettori, per votare l’unica lista ammessa al voto: quella fascista! Le nuove dinamiche intervenute nella contesa per il controllo sociale, obbligavano le varie formazioni politiche a modificare gli schemi tradizionali e il ruolo stesso che il Comune si trovava a svolgere nella costruzione del nuovo regime. I gruppi sociali rappresentati dal fascismo nell’ambito del consiglio comunale, nel corso degli anni 1920-24, costituivano il segno tangibile del ricambio che, attraverso gli uomini, tentava di imprimere una svolta nei metodi e nella gestione dell’ente. Un ulteriore indicatore di questa tendenza innovatrice dei quadri politici era rappresentato dal fatto che il 56% dei consiglieri comunali del PNF nel periodo considerato, aveva un’età inferiore ai 40 anni, rispetto al 22% degli avversari. Inoltre, soltanto il 15% aveva ricoperto in precedenza cariche amministrative e politiche, mentre più della metà (52 % dei Democratici Liberali) era presente in consiglio da almeno due legislature ed il 26% da più di tre. Da questo punto di vista gli avvenimenti che costituirono il preludio del successo amministrativodel PNF, nel 1924, mettevano in luce un diverso modo di concepire la gestione del governo municipale che, caratterizzata dal reiterato ricorso al commissariamento governativo delle amministrazioni locali, trovava, caso piuttosto raro, la classe dirigente fascista del capoluogo irpino su posizioni ancora più intransigenti rispetto alla linea governativa. Emblematiche, in proposito appaiono le motivazioni a cui ricorsero i massimi vertici dell’élite politica fascista per giustificare presso l’opinione pubblica la sostituzione, che essi stessi avevano sollecitata del commissario Giulio Corradi con Ildebrando Merlo, lasciando intravedere chiaramente quali saranno i caratteri peculiari che ispirarono in seguito l’amministrazione fascista.
Alla solita retorica fascista faceva da cornice il preciso intento di utilizzare la centralità dell’ente locale in funzione della mobilitazione del consenso, ridefinendo tuttavia i presupposti rispetto agli obiettivi perseguiti dal nuovo stato. Benché nel 1924 la lista fosse composta soltanto dai propri aderenti, i fascisti trasferirono nel consesso municipale gran parte dei quadri dirigenti del partito, di modo che 15 consiglieri su 30 ricoprivano cariche nel Direttorio cittadino e provinciale. Tra questi comparivano anche figure di spicco dell’élite locale tradizionale, esponenti del ceto possidente più antico, i quali avevano abbracciato gli ideali fascisti all’indomani della marcia su Roma e adesso tornavano alla ribalta dopo un lungo letargo dalla scena politica locale e dopo una velleitaria opposizione tra le fila del Fascio Democratico Irpino. Uno dei personaggi di maggior rilievo era certamente Nunziante Testa, il quale aveva ricoperto la carica di sindaco di Avellino tra il 1899 e il 1902, dopodiché, transfuga nel PPI, ne divenne ben presto un esponente di primo piano. Proprio dal PPI, partito dotato di grandi ambizioni a cui però non corrispondevano altrettanti consensi, transitarono gran parte dei futuri quadri dirigenti del PNF irpino[25].
Altre figure eminenti di questo ceto sociale erano rappresentate dall’avv. Giovanni Trevisani, discendente di una delle più influenti e facoltose famiglie irpine, che fino alla metà degli anni 80 del secolo scorso aveva esercitato un peso rilevante nella vita politica ed amministrativa della città[26]. Questi personaggi insieme ai vari Carmine Barone, Carlo Solimene, Serafino Pionati, costituivano quella frangia consistente della vecchia classe dirigente ottocentesca, emarginata e annichilita dai partiti popolari, che non indugiò ad indossare la camicia nera allo scopo di riacquistare di nuovo quel ruolo di prestigio che si era offuscato negli anni precedenti.
Ciò nonostante, fin dalla metà del 1923, iniziò un processo di normalizzazione e di cooptazione di vecchie personalità, in realtà estranee alle forze politiche di matrice giolittiana: Carmine Barone, Nunziante Testa, Carmine Tarantino, Giovanni Trevisani e Alfredo De Marsico[27]. Tuttavia, l’adesione dei vecchi notabili e possidenti costituiva soltanto una maschera, dietro la quale si celava ancora integro lo spirito padovaniano, che sembrava riaffacciarsi anche con Oberdan Cotone il quale, come abbiamo avuto modo di constatare, nel 1923 fu eletto segretario generale dei sindacati fascisti della Provincia. Difatti, l’azione di penetrazione del fascismo sembrò avvalersi di uno strumento quanto mai efficace quale era quello dell’organizzazione sindacale, sotto il potente impulso del suo solerte segretario.
Basti ricordare che nel 1923 su 11.000 iscritti al fascio, 8.000 erano inquadrati nei sindacati fascisti. Nella prima metà dello stesso anno, anche nella città di Avellino, si assisteva ad un notevole sforzo in questa direzione, che si rivolgeva da un lato verso quei settori economici più bassi (vetturini, lavoratori del terziario, ecc.), ma soprattutto verso i ceti medi intellettuali costituiti dagli impiegati del Comune (150 iscritti) e dai professori delle scuole medie. Gli spazi di manovra verso questi settori erano ampi, e d’altro canto il fascismo non si lasciò sfuggire questa ghiotta occasione, utilizzando a proprio vantaggio alcuni problemi cittadini che assillavano la popolazione, come: la crisi degli alloggi e l’aumento degli affitti, senza contare poi il caroviveri con l’estensione progressiva per il ceto impiegatizio della corresponsione dell’indennità. A tal proposito, rileva puntualmente Giovanni Acocella:
La convivenza all’ombra del fascismo di gruppi ed interessi diversificati consentì la ricomposizione del fronte borghese che, dopo il fervore padovaniano, riprese il sopravvento senza incontrare più ulteriori intralci. Finanche la scelta aventiniana di un numero cospicuo dei Democratici Liberali, in ossequio alla scelta del loro lider maximo, Alfonso Rubilli, se sottraeva al fascismo cittadino una notevole base di consenso, tuttavia, in seguito si rivelerà determinante nel favorire questo processo, liberando il campo da più acute frizioni e sensi di rivalsa.
La conquista del municipio sancì, pertanto, la piena affermazione del regime ad Avellino e l’ascesa al gradino più alto dell’amministrazione cittadina suggellò la definitiva legittimazione del ceto politico di matrice fascista. Difatti, il blocco sociale che ad esso si richiamava costituiva un gruppo sostanzialmente coeso, in cui si riscontravano reali articolazioni gerarchiche. A primo acchito, può sembrare che in seguito alla normalizzazione, messa in atto con maestria dal nascente regime, si ristabilivano, seppur in un quadro radicalmente mutato, le antiche distanze sociali, visto e considerato che il primo (e anche l’ultimo) sindaco fascista era esponente del ceto agrario locale.
Ad ogni modo per valutare la consistenza effettiva delle varie componenti che abbracciarono gli ideali fascisti, è opportuno rivolgere l’attenzione alle rispettive distribuzioni del potere nell’ambito del nuovo apparato che andava consolidandosi: una struttura il cui spessore, a livello orizzontale, aveva raggiunto un notevole grado di consistenza e concatenamento, in cui l’ente locale si inseriva in un quadro più complesso sorretto da ineludibili interdipendenze. Tuttavia, pur senza mutare il quadro sociale preesistente, il fascismo offriva l’opportunità a vasti strati del ceto medio di annullare il divario con le classi superiori. Gli homines novi portati alla ribalta dal regime, infatti, non diedero vita ad un processo di disgregazione del vecchio ordine sociale, ma si limitarono soltanto ad estendere i confini alle classi emergenti. Il consolidamento del sistema di potere fascista nei maggiori centri urbani era subordinato alla cooptazione di almeno uno dei due più rilevanti schieramenti moderati, il giolittiano e il popolare, nella sfera di influenza del partito fascista. Quest’ultimo si inserì nel conflitto per l’acquisizione del consenso tra i ceti medi impiegatizi e proprietari, utilizzando la corrente ideologicamente meno motivata riplasmandone la sua prospettiva politica per convertire a proprio vantaggio il suo reale peso specifico elettorale.
La penetrazione dell’ideologia fascista nell’ambito dei partiti tradizionali, risaliva, probabilmente, ad una comune matrice massonica, che costituì il deterrente nello scontro frontale tra gruppi borghesi. Per quanto concerne la contiguità rispetto ai popolari essa andava ricercata più che altro nelle motivazioni clientelari che spinsero i candidati dell’ala moderata a confluire nella sfera governativa. Nello scontro tra le due anime del moderatismo, il fascismo si schierò, in genere, con la corrente progressista, più incline alle istanze del nuovo ceto politico. Nel capoluogo irpino la classe dirigente fascista fu cooptata dalle file del Partito Popolare, il cui ultimo segretario provinciale, Modestino Romagnosi, rivestiva la carica di rettore dell’amministrazione provinciale, affiancato da un altro popolare l’avv. De Cunzo.
Nel frattempo si apprestavano a confluire nel P.N.F. anche il conte Cenci‑Bolognetti, l’avv. Petrizzi e il marchese Paolo De Cristofaro, astro nascente del regime e futuro segretario federale. Questi ultimi vennero scavalcati a sinistra dai repubblicani capeggiati da Ferrara e Oberdan Cotone, i quali aderirono immediatamente al movimento fascista, mentre le uniche voci, peraltro flebili, di dissenso al regime provenivano proprio dai giolittiani Alfonso Rubilli ed Ettore Tedesco e dal nittiano Francesco Amatucci. Tuttavia, bisogna rilevare che la scomposizione dei gruppi politici moderati andava attribuita alla separazione dei capicorrente dalla loro base elettorale.
Nel 1925 il regime diede il via alla trasformazione della macchina amministrativa con la soppressione del principio elettivo e l’istituzione dell’Alto commissario cittadino al quale furono affidate le funzioni spettanti al prefetto e al provveditorato alle opere pubbliche e la sovraintendenza su tutte le amministrazioni statali della provincia. In questo modo gli organi amministrativi e politici furono ridotti al rango di meri dipartimenti del potere centrale. In realtà, l’Alto commissario poteva essere considerato a pieno titolo come l’antesignano dell’istituto podestarile che prese forma e sostanza a partire dal 1926 sancendo, definitivamente, l’incompatibilità del municipio politico autonomo con la teoria centralistica dello stato fascista: «Il Municipio amministrativo era soltanto concepibile come organo dello Stato, gerarchicamente vincolato ad esso e al potere centrale»[29]. Il 4 febbraio del 1926, infatti, era stata approvata la legge che istituiva il Podestà nei comuni con meno di 5000 abitanti e il 3 settembre successivo questa norma fu estesa con decreto‑legge a tutti i comuni italiani. In questo modo nelle mani dei Podestà furono riuniti i poteri del Sindaco, della Giunta e del Consiglio Comunale. Veniva così abolita, senza colpo ferire, ogni forma di autonomia locale.
Tuttavia, nella città di Avellino la supremazia del potere prefettizio tendeva a ridimensionare l’autorità del podestà. Questa nuova istituzione, dopo qualche perplessità, venne accolta favorevolmente dalla stampa Avellinese, in quanto contribuiva a «porre fine alla cuccagna comunale ed al carnevaletto elettorale ricorrente»[30] costituendo un elemento di precisazione delle alleanze sociali realizzate dal fascismo fin dal suo divenire.
In realtà, l’introduzione del nuovo ordinamento comunale non si tradusse, come era negli auspici, in una repentina normalizzazione del quadro amministrativo, al contrario fino al 1931, si verificò un frenetico avvicendamento di commissari prefettizi che furono chiamati a ricoprire questa nuova carica, per consentire in tal modo al regime di imprimere un’accelerazione al processo di fascistizzazione nell’organigramma del potere locale non ancora definito. L’instabilità amministrativa era testimoniata dal fatto che ad Avellino si alternarono in questo quinquennio (1926‑31) ben quattro commissari prefettizi e due podestà.
Nel 1926,il giornale lanciò una campagna di chiarificazioni ai lettori sull’importanza che rivestiva la nuova riforma amministrativa degli enti locali che, oltre a costituire una novità, si riteneva che, grazie ai benefici effetti propalati dal nuovo sistema amministrativo, sarebbero definitivamente scomparse le clientele e i favoritismi. Tuttavia va rilevato che la selezione del personale politico non era stata affatto scevra di conflitti interni, visto e considerato che «molte (erano) le delusioni degli aspiranti che (avevano) intrigato fino all’ultimo per essere scelti»[32]. Del resto le perplessità sulle qualità taumaturgiche del podestà eranostate espresse dallo stesso giornale avellinese l’anno precedente, allorquando rispetto all’ipotesi di estensione dell’istituto podestarile ai comuni superiori ai cinquemila abitanti, si era sostenuto, in alternativa, la statizzazione del segretario comunale[33]. La struttura monocratica di questo organo amministrativo, rappresentava esso stesso un elemento permanente di instabilità, suscitando ambizioni e rivalità nell’entourage della stessa classe dirigente fascista.
Sul finire degli anni 30 l’esposto anonimo contro Salvatore Ianuario, vice ispettore federale in odore di ricoprire la carica di podestà di Avellino, costituisce la cartina di tornasole della natura conflittuale e dei mezzi utilizzati per accaparrarsi una carica di prestigio sgominando gli avversari di turno. «Ianuario – era scritto nell’esposto – per aver carpito la buona fede del Federale e la qualifica di squadrista, tenta con tutti i mezzi di farsi strada come medico, si è accaparrato incarichi e impieghi di ogni genere a danno di tutti, travolgendo e lasciando altri nella miseria. Individuo immorale e losco, pieno di debiti, giocatore accanito, unitamente ad altri suoi compari e presunti fascisti che per suo interessamento hanno ottenuto cariche politiche, ne commette di tutte le specie e colori»[34].
La doppiezza costituiva uno degli espedienti più in voga in quel periodo, a cui si faceva spesso ricorso nella competizione politica, in quanto costituiva ormai un fenomeno particolarmente diffuso nel Mezzogiorno[35] al punto da indurre le autorità ad intensificare il controllo sugli enti locali cercando di arginare la conflittualità dilagante mediante la nomina di podestà e commissari esterni. Il ricorso sistematico a queste rigide forme di controllo si evinceva, tra l’altro, dalle frequenti ispezioni svolte proprio durante i primi anni dell’entrata in vigore del nuovo istituto di governo municipale. Nel 1928, ad esempio, vennero destituiti dalle loro funzioni ben 363 podestà ritenuti colpevoli di partigianeria (6% del totale), una cifra considerata modesta ma che, invece, a ben vedere nascondeva una realtà ben più degradata, visto che nello stesso periodo si riscontrarono irregolarità gravi, derivanti più o meno direttamente dalla gestione dissennata e fraudolenta delle risorse pubbliche da parte dei podestà, in più di mille comuni rispetto ai seimila circa sottoposti al controllo governativo[36].
Nel capoluogo irpino, così come avveniva a livello nazionale, la fase che segnò il passaggio dall’età liberale al regime fascista si caratterizzò per la natura convulsa con la quale si svolse, almeno fino agli albori degli anni 30, allorquando con la nomina a podestà di Giuseppe De Conciliis si gettarono le basi per un periodo di stabilità amministrativa che si protrasse fino al 1938. Le prerogative indispensabili, predisposte dal legislatore, per poter aspirare a ricoprire la carica di podestà (sposato, con prole, cattolico, benestante) in questo caso erano puntualmente rispettate, come risulta dalle biografie conservate nel Fondo Podestàdel Ministero degli Interni.
I requisiti richiesti per ambire a ricoprire la carica di podestà tendevano a favorire i rappresentanti del ceto possidente, ai quali venivano imposti, tuttavia, dei precisi vincoli nell’attribuzione e nell’esercizio delle loro funzioni, caratterizzate da tutte una serie di prescrizioni morali e sociali. In questo modo, come rileva opportunamente Paolo Varvaro, dal ceppo della vecchia classe dirigente si diramava una nuova classe di funzionari, assimilando il patrimonio etico e «le regole di comportamento che non (erano) più quelli delle aristocrazie patrimoniali ma non (erano) ancora quelli di una classe media emergente»[37].
Nel capoluogo irpino spettò al sindaco in carica, Carmine Tarantino, il compito di inaugurare il nuovo ordinamento amministrativo. Il neo‑podestà era un esponente di spicco del ceto agrario, presidente dell’unione fascista degli agricoltori, il quale non disdegnava nei ritagli di tempo di dedicarsi all’attività forense. L’amministrazione generale dell’avvocato Tarantino, tra i vari problemi affrontati varò un Piano Regolatore Generale della città che prevedeva la sistemazione della piazza centrale, nonché l’ampliamento e l’illuminazione di alcune strade cittadine. Altra innovazione che si ebbe in questo periodo fu la creazione della consulta municipale della quale, come specificava una circolare del prefetto Violardi, potevano far parte anche le donne.
Tuttavia, l’istituto podestarile, nel capoluogo irpino, manifestò gli effetti deleteri della sua instabilità proprio nel corso di questi anni. Difatti, all’amministrazione guidata fino al 15 settembre 1928, da Carmine Tarantino seguirono due commissari prefettizi: Nicola Spirito e Francesco Barra. Il primo fu designato dal prefetto e curò gli affari municipali dal 17 ottobre 1928 al 25 aprile 1929. Più cauto di alcuni suoi predecessori, Spirito si affidò, invece, alla cooperazione della cittadinanza. La gestione commissariale si rivelò, in realtà, più lunga del previsto in quanto allo scadere dell’incarico il Comune, per altri due mesi, fu affidato nelle mani del dottor Francesco Barra, inviato dal prefetto per il bimestre maggio-giugno 1929. Proprio nel corso di quell’anno, dopo un breve periodo commissariale, si insediò al vertice dell’ente municipale Claudio Tozzoli. Il nuovo podestà, rampollo di un autorevole casato dell’aristocrazia agraria provinciale, si era distinto nel corso del primo conflitto mondiale a cui partecipò in qualità di ufficiale superiore dei Bersaglieri. In quella circostanza fu insignito di due medaglie per meriti di guerra. Congedato nel 1920 col grado di colonnello, nel settembre 1923 fu designato al comando della 144ª Legione Fascista Irpina, carica che conservò fino al marzo del 1927. Durante la sua amministrazione, il 23 luglio 1930, il capoluogo irpino fu funestato da un violento terremoto.
I danni maggiori si riscontrarono nella zona del Duomo e nel centro della città.
Inoltre, alcuni edifici pubblici come: l’ospedale, il seminario, l’edificio scolastico Regina Margherita ed il carcere, furono gravemente lesionati. Il sisma richiamò l’attenzione persino del Re Vittorio Emanuele III che, due giorni dopo, accorse in Irpinia per recarsi personalmente sui luoghi del disastro e rendersi conto dei danni provocati dall’evento tellurico. Le vittime ammontarono a 1425, di cui ben 1070 nella nostra provincia. Tuttavia, la città di Avellino, a parte i pochi crolli e le numerose case lesionate, non fece registrare nessuna vittima.
Al podestà Tozzoli successe, per un breve periodo di tempo, nuovamente il commissario Francesco Barra, che resse le sorti della civica amministrazione fino al 14 giugno del 1931, allorché fu designato al vertice dell’amministrazione municipale il dott. Giuseppe de Conciliis, che inaugurò un periodo di stabilità dell’istituto podestarile nel capoluogo, restando in carica per circa un decennio. Il nuovo podestà discendeva da un’antica e cospicua famiglia avellinese e, dopo aver conseguito brillantemente la laurea in medicina, si era specializzato in pediatria, esercitando proficuamente la professione fino all’indomani del prestigioso incarico amministrativo. Era iscritto al PNF fin dal 1928, e appena pochi anni dopo si ritrovava alla guida del Municipio di Avellino, che amministrò con fermezza fino al 17 febbraio 1938, dopodiché vi ritornò successivamente soltanto per pochi mesi – dal dicembre 1942 al settembre 1943 – nella temperie degli sconvolgimenti bellici e del drammatico bombardamento di Avellino.
Si nota, fin dall’inizio, nella selezione del personale politico-amministrativo fascista, una predilezione per l’elemento proprietario, scelta che sembra rinverdire, in contrapposizione alla degenerazione privatistica nell’esercizio del potere propria della borghesia giolittiana, una concezione patrimonialistica che affonda le sue radici nella tradizione elitistica di matrice risorgimentale, secondo cui soltanto il ceto che era in possesso di un congruo patrimonio poteva aspirare a ricoprire cariche pubbliche, senza lasciarsi condizionare dalle blandizie materiali legate all’esercizio dell’attività politico–amministrativa. Questa tendenza costituirà il leitmotiv di tutto il periodo successivo e non conoscerà alcuna deroga dell’impianto politico amministrativo. Difatti dalla scheda biografica di Giuseppe de Conciliis, redatta nel 1942, al termine del suo primo mandato podestarile, si evince che era considerato «un ariano, cattolico, coniugato, con prole, nato ad Avellino nel 1902, iscritto al PNF, dal primo gennaio del 1928, ha posizione economica floridissima ed indipendente, occupandosi soltanto dell’amministrazione dei beni di famiglia»[38]. La sua famiglia, infatti, apparteneva alla buona borghesia, diede alla città (prima e dopo) numerosi amministratori. La partenza del 244° battaglione delle camice nere per il suolo d’Africa offrì l’occasione al podestà De Conciliis di rivolgere, il 26 luglio 1935, un proclama agli avellinesi, dedicato in modo particolare alle madri e spose irpine, affinché «col sorriso sulle labbra, con animo forte e virile e con l’orgoglio di aver data la vita o di averla condivisa con chi è chiamato a servire la grande causa della civiltà e del fascismo»[39] sappiano accomiatarsi dai loro cari. Nel frattempo si erano succeduti alla guida della federazione irpina del PNF, ben dieci segretari federali.
Il primo fu Edoardo Brescia. Nato nel 1896 a Flumeri, paese dell’Alta Irpinia, fu valoroso e pluridecorato combattente. Vantava anch’egli una laurea in medicina ed era un agiato imprenditore agrario. La sua parabola politica iniziò ad avere un’impennata decisiva in seguito alla nomina a membro del direttorio provinciale, avvenuta il 5 giugno del 1923, e successivamente a fiduciario per il comprensorio arianese. Il 14 dello stesso anno fu chiamato a far parte della commissione reale dell’amministrazione provinciale e, nell’aprile del 1924 fu perfino eletto al parlamento, dopo De Cristofaro e De Marsico, riportando ben 12.453 preferenze.
All’indomani della defenestrazione di Cotone, Brescia accentrò nelle sue mani, tra il 1925 e il 1928, la carica di segretario federale del PNF, quella di presidente della federazione dei combattenti, segretario generale della federazione dei sindacati fascisti e, infine, podestà di Cervinara. Ad ogni modo, la sua definitiva consacrazione politica si verificò il 18 aprile 1925 grazie al matrimonio con Adriana Vetroni, figlia del defunto onorevole Achille, a sua volta nipote dell’ultimo sindaco liberale di Avellino; testimoni del matrimonio furono il prefetto Almansi e l’onorevole De Cristofaro. La carriera politica di Brescia incominciò a subire qualche incrinatura a partire dal 22 maggio del 1928, quando fu destituito temporaneamente dalla carica di segretario federale che lasciò nelle mani del commissario straordinario Enrico De Biase.
Il 3 novembre dello stesso anno fu reintegrato nella carica di federale che mantenne fino al 17 aprile del 1929, quando in seguito all’avvento dell’autoritario prefetto Chiaromonte e al fallimento della cassa agraria, fu di nuovo rimosso dal suo incarico di segretario federale e, nel luglio successivo sospeso a tempo indeterminato da ogni attività di partito. Gli successe alla guida della federazione fascista irpina, Alberto Carfì, nativo di Vittorio (RG), uno squadrista che, nei tumultuosi giorni di crisi del fascismo, aderì alla Repubblica Sociale Italiana. La definitiva riabilitazione del Brescia si ebbe, comunque, dopo l’avvicendamento del federale Carfì e del prefetto Chiaromonte, sostenuti da Farinacci e Preziosi; in seguito all’inchiesta effettuata, nel febbraio del 1939, dal commissario straordinario onorevole Ezio Cingolani che guidò la federazione irpina del P.N.F. dal 31 ottobre del 1929 al 7 aprile dell’anno successivo. Nativo di Mogliano Marche (MC), Cingolani a differenza dei suoi predecessori era in possesso soltanto di un semplice diploma magistrale. Difatti, la sua attività professionale era stata prevalentemente quella di pubblicista e assicuratore. Negli anni ruggenti del regime partecipò alle guerre del 1935‑36 e 1940‑45 come volontario nell’esercito italiano, dove fu arruolato col grado di tenente dei bersaglieri. Si iscrisse al P.N.F., prima della marcia su Roma, il 10 agosto 1922. Successivamente, ricoprì varie cariche di rilievo nelle corporazioni del partito, fino a raggiungere il gradino più alto della piramide politica divenendo deputato nella XXVII e XXIX legislatura (1929-1939). L’incalzare degli eventi che determinarono il definitivo crollo del regime, indussero Cingolani a non prendere parte alla Repubblica Sociale Italiana.
L’istituto podestarile fu ripristinato soltanto temporaneamente il 7 aprile del 1930, allorquando fu chiamato a reggere le sorti della federazione irpina l’avellinese Giovanni Trevisani.
Per la prima volta – si legge dalle colonne del Corriere dell’Irpina – dalla istituzione della rappresentanza provinciale del partito, all’alto e delicato posto di fiducia è chiamato un cittadino del capoluogo. E la scelta è caduta, per giunta, su di uno dei figli migliori di questa nostra Avellino, e che continua degnissimamente le nobili tradizioni di un casato che nel corso dell’ultimo cinquantennio seppe accoppiare ad esemplare signorilità le più spiccate benemerenze nelle cariche amministrative e rappresentative[40].
A coadiuvare il nuovo segretario fu chiamato, dallo stesso Trevisani, in qualità di segretario personale il dott. Ugo Fattorini, uomo solerte e di provata fede fascista. Il Trevisani aveva al suo attivo una laurea in giurisprudenza ed esercitava regolarmente la professione forense ricoprendo, fra il 1934 e il 1943, anche la carica di segretario provinciale fascista degli avvocati e dei procuratori di Avellino. Era il rampollo di una delle più ricche e prestigiose casate irpine, che vantava un’intensa attività politico-amministrativa nella città di Avellino. Si iscrisse al P.N.F. nel 1923 e giudò la federazione irpina solo per un breve periodo, fino al 1° dicembre del 1930, allorquando fu chiamato a succedergli un altro commissario straordinario inviato da Roma, il giornalista Luigi Maino. Quest’ultimo vantava l’iscrizione ai fasci fin dal 1919, era poi stato squadrista a Como, tra il 1922 e il 1924, quindi aveva ricoperto la carica di capo ufficio stampa del partito tra il 1926 e il 1927 ed era gia stato commissario straordinario di alcune federazioni provinciali prima di approdare a quella di Avellino, dove rimase fino al 27 maggio del 1931.
Memorabile fu un discorso, che il commissario Maino rivolse ai segretari politici dell’Irpinia il 15 marzo del 1931 nella sala dell’ex consiglio comunale, messa a disposizione del partito dal podestà Claudio Tozzoli, il quale nella sua prolusione auspicò «la necessità di mantenere e rafforzare in provincia la linea attuale tenuta dalla federazione fascista, contro tutti i beghismi e in un’atmosfera di assoluta serenità». Prendendo la parola il commissario Maino esordì dicendo:
Il mio arrivo in Avellino è stato accolto da principio, con tutta probabilità, con delle riserve, riserve spiegabili, giustificabili. Un uomo nuovo, un commissario inviato dal partito, non si sa mai quale strada potrà pigliare, quali impressioni potrà formarsi, quali provvedimenti crederà di prendere, quali direttive ha ricevute (…). Qui vi era una tradizione di estrema instabilità: mutamenti continui nella segreteria federale[41].
Appena assunse i pieni poteri Maino confermò nella carica di capo ufficio della segreteria il dott. Ugo Fattorini e nominò reggente della segreteria amministrativa della federazione il prof. Lorenzo Ferrante. Altre riconferme riguardarono nelle loro rispettive cariche Resia De Marsico per i Fasci Femminili, il rag. Vittorio Campanile responsabile dei Fasci Giovanili e il dott. Vitale per i gruppi universitari.
Tutto ciò insomma – aggiunge Maino – che sembrava buono e conservabile della passata gestione federale io l’ho voluta conservare. Bisognava evitare la sensazione del cataclisma politico. Dare, al contrario, il più che era possibile il senso della continuità, rimandando in un secondo tempo, a distanza di un paio di mesi, l’opera dirò chirurgica, selezionatrice, depuratrice del partito[42].
Tuttavia, il commissario Maino non faceva mistero di aver fatto venire alla luce la piaga della raccomandazione:
Molti si sono presentati preceduti da lettere calorose di raccomandazione da parte anche di personaggi altolocati. Li ho trattati come tutti gli altri – dichiarava il reggente della federazione irpina – facendo però osservare che il fascismo è una milizia; che ognuno deve presentarsi da sé; e chi si sente di aver bisogno di speciali puntelli è segno che non si ritiene sicuro; e che in ogni caso la raccomandazione mi predisponeva se mai sfavorevolmente, mai in ogni caso favorevolmente. Oggi ogni e qualsiasi raccomandazione è finita. Sono stati disturbati persino dei miei amici personali residenti a Londra o a Mogadiscio perché avessero a scrivermi a favore di Tizio e di Caio. Ho cercato di stroncare questo deplorevole costume, – concludeva Maino – soprattutto condannabile quando l’oggetto della richiesta non è il pezzo di pane o l’impiego che è indispensabile all’esistenza, ma è la carica onorifica. Questa gente mi ha sempre ispirato una profonda e invincibile ripugnanza. A qualcuno di questi signori non ho rinnovato la tessera[43].
Il 27 maggio del 1931, tuttavia, Luigi Maino lasciava la sua carica di commissario straordinario nelle mani del marchese Francesco Saverio Navarra Viggiani e nel suo discorso di commiato dichiarò:
Lascio la federazione alla quale ho dato sei mesi di attività e di passione fascista nelle mani solide del camerata Marchese Franco Navarra, purissima camicia nera del 1920 e glorioso combattente della grande guerra. Sono sicuro che i fascisti dell’Irpinia accoglieranno con gioia tale nomina e saranno degni del loro nuovo dirigente federale[44].
In effetti, lo stesso Mussolini nutriva una profonda sfiducia verso gli uomini, che lo induceva ad attribuire i numerosi casi di malversazione da parte degli amministratori pubblici, più alla fragilità morale dei singoli piuttosto che alle caratteristiche intrinseche di un sistema politico in cui la rilevante centralizzazione dell’autorità intorno alla sua persona determinava la conseguente inefficienza dei controlli, prestando il fianco ad un maggior affarismo a cui faceva da cornice una corruzione dilagante all’interno delle istituzioni. Poco dopo Maino riprese attivamente la sua professione giornalistica collaborando con vari giornali e riviste. Concluse la sua esistenza a New York il 24 maggio del 1935, dove morì suicida a bordo del Rex ancorato nel porto della città statunitense. Il 4 maggio del 1931 si verificò il cambio della guardia al vertice della federazione irpina. Giungeva in città il nuovo segretario federale Francesco Navarra Viggiani che «fu ricevuto dal commissario Maino (dopodiché) si recò in federazione e quindi si recò ad ossequiare il prefetto comm. Vicedomini. Nel pomeriggio ebbero luogo la consegna ufficiale e l’insediamento»[45].
Nativo di Catanzaro, il marchese Navarra Viggiani discendeva da una famiglia proprietaria di nobile lignaggio. Aveva frequentato la scuola militare, divenendo ufficiale dell’esercito col grado di capitano in servizio permanente fino al 1921. Partecipò alla Grande Guerra prima come capitano di cavalleria, poi tra le fila degli arditi. Fu insignito di numerose onorificenze tra cui spiccavano quelle dell’ordine militare di Savoia, la medaglia d’argento al valore militare e una promozione per merito di guerra. Aderì al fascismo il 1° gennaio del 1920 e ben presto diventò un abile squadrista. Nel 1920 assunse la carica di segretario della federazione partenopea e dopo una breve permanenza a Potenza, approdò ad Avellino dove, tuttavia, guidò la federazione per soli quattro mesi, dal 27 al 29 dicembre del 1931. Successivamente assunse l’incarico di console della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale presso il ministero in qualità di capo ufficio. Nei colvulsi anni che precedettero la disfatta del regime, aderì alla R.S.I. divenendo generale di divisione e presidente della sottocommissione di revisione dei quadri ufficiali dell’esercito repubblicano[46].
L’avvicendamento al vertice della federazione irpina fu salutato con fervido entusiasmo ma fu anche accompagnato dal rammarico a causa delle dimissioni, per ragioni di carattere personale, rassegnate dal marchese Navarra Viggiani. A reggere le sorti del fascismo irpino fu chiamato il piemontese Agostino Podestà, al quale fu affidato l’arduo compito di rivitalizzare e normalizzarel’instabile federazione irpina. Lo scambio delle consegne avvenne il 3 gennaio del 1932 alla presenza del prefetto Vicedomini. Laureato in Scienze Fisiche, il nuovo federale, proveniva dalla città di Alessandria dove ben presto si dedicò all’attività pubblicistica.
Camicia nera della vigilia – si leggeva dalle colonne del Corriere dell’Irpinia – egli appart(eneva) alla schiera dei promotori del movimento intellettuale fascista (…). E(ra) stato sin dall’inizio uno dei più attivi organizzatori dei Gruppi Universitari Fascisti, prima in qualità di segretario del G.U.F. di Pavia e di comandante della locale coorte della Milizia Universitaria e successivamente come vice segretario generale dei Gruppi Universitari Fascisti (…). Nell’ultimo congresso internazionale studentesco di Bucarest e(ra) stato eletto vice‑presidente della Confedarazione Internazionale degli Studenti[47].
Dopo la felice parentesi avellinese fu nominato prefetto di Arezzo (1936‑39), di Perugia (1939‑40), di Bolzano (1940‑41) e infine di Fiume (1.2–20.8.1943). La sua parabola politica raggiunse il culmine grazie al prestigioso incarico di Alto Commissario per l’esecuzione degli accordi italo‑tedeschi per l’Alto Adige, di cui fu investito tra il novembre 1941 e il gennaio 1943[48]. Il nome di Agostino Podestà, tuttavia, resta legato indissolubilmente ai vari provvedimenti ed alle iniziative volte a rinvigorire la precaria struttura produttiva irpina, in modo tale da arginare l’incipiente crisi occupazionale. Tutto sommato, i rimedi che vennero adottati, si rivelarono in seguito dei semplici palliativi, come i turni di lavoro e i lavori di falegnameria per surrogare lo stallo di quelli edilizi; ed inoltre veniva auspicata la nascita di società di fatto tra datori di lavoro allo scopo di «allontanare dalla casa del modesto operaio il bieco fantasma della miseria»[49]. Nel giro di pochi giorni il segretario federale, di concerto col prefetto Vicedomini, varò una serie di provvedimenti in grado di fronteggiare la disoccupazione operaia invernale. A tal fine, il 20 gennaio del 1932, iniziò a funzionare, presso la federazione provinciale fascista l’opera d’assistenza ai disoccupati, sotto l’egida di un apposito comitato. Inoltre, il podestà De Conciliis, d’accordo col segretario federale, dispose «l’esecuzione di molti lavori già approvati, in modo da impiegare circa ottanta operai»[50].
Perfino la Presidenza della Provincia garantì «la continuazione durante la stagione invernale di tutti i lavori in corso, e in particolar modo di quelli inerenti alla costruzione del nuovo grande edificio scolastico al Viale De Concilii, dove erano impiegati circa sessanta operai»[51]. Nel frattempo, l’opera di risanamento compiuta dal nuovo federale si svolgeva su due fronti: rivitalizzare l’economia locale e dare impulso al tesseramento nelle varie federazioni del capoluogo e della provincia.
Il tesseramento al cento per cento – affermava il Federale Podestà – significa l’attuazione di una volontà decisa di fare della Cenerentola d’Italia una provincia d’avanguardia (…). Il risanamento finanziario dimostra un rigido senso dell’economia da cui è dominato chi amministra la cosa pubblica (…). L’anno IX (1931) – aggiunge il Segretario Federale –, al mese di settembre, trovò tesserati il 50% degli iscritti. L’anno X, e siamo ancora all’inizio, trova invece tesserati tutti gli iscritti[52].
Infine, a coronamento del suo bilancio, il massimo esponente del fascismo irpino tracciò la via maestra che i vari segretari dovevamo seguire per realizzare compiutamente le direttive del partito.
Non il segretario politico amante del quieto vivere, avulso dalla vita della collettività, capace di fare il segretario politico solo se nessuna grana viene a disturbargli la laboriosa digestione del pranzo. Ma il segretario politico il quale partecipi attivamente alla vita del paese, e faccia sentire il peso del suo controllo su tutte le organizzazioni del Partito; e – continua Podestà – senta tutta la responsabilità del suo posto che non è un posto di gerarchia comoda per soddisfare il piccolo tornaconto personale ma è prima di tutto posto di responsabilità da tenersi col polso di ferro e coll’anima delicatissima (…). Ebbene – conclude il Federale – è necessario che ognuno senta il peso della responsabilità, trascuri l’affaruccio personale e sacrifichi il feudo e il ducato, che forse qualcuno si illude ancora di potersi creare, all’interesse educativo delle masse che è ben più importante del tornacontuccio[53].
Per far fronte alla crisi occupazionale nel capoluogo furono varati una serie di lavori pubblici per un importo complessivo di oltre sette milioni di lire:
A distanza di pochi giorni fu convocata una riunione del Comitato Intersindacale della Provincia di Avellino nell’ufficio del Segretario Agostino Podestà, per prendere in esame
Il primo anno di attività dell’Amministrazione Podestarile del capoluogo irpino, sotto l’egida di Giuseppe de Conciliis si concluse con un bilancio al cui attivo figurava la sistemazione dei servizi in vari settori (uffici, acquedotto, anagrafe, sicurezza pubblica, sanità, educazione nazionale e opere pubbliche) che per la loro importanza non rispondevano più alle necessità del momento. Per dare un maggior approvigionamento idrico alla città furono così riattivate
Tuttavia, l’iniziativa più suggestiva realizzata in meno di due mesi dai massimi vertici del fascismo irpino, il federale Podestà e il prefetto Vicedomini, resta pur sempre la prima fiera irpina che si svolse dal 24 luglio al 20 agosto 1932, con l’intento di «suscitare un notevole risveglio di attività economica»[57]. La fiera, che si svolse nell’edificio scolastico, riguardava l’esposizione dei vari prodotti tipici dell’economia irpina: dall’agricoltura all’artigianato, dall’arte ai prodotti enologici e caseari, fino a comprendere persino i lavori femminili.
All’inaugurazione della fiera, il 24 luglio, assicurarono la loro presenza i Principi di Piemonte, Umberto e Maria José i quali furono accolti al loro arrivo in città da un tripudio di entusiasmo e di ammirazione.
L’avvicendamento al vertice della segreteria federale avvenne il 22 agosto dello stesso anno, allorquando fu chiamato a ricoprire questo delicato incarico l’avv. Gaetano Zampaglione. In questo modo, dopo alcuni anni di reggenza allogena, la guida del partito veniva di nuovo affidata ad un dirigente locale. Agostino Podestà, conclusa la sua missione di valorizzazione dell’economia irpina, lasciava così Avellino al termine di una frenetica attività organizzativa che gli valse il merito di essere annoverato come «il segretario federale non dell’ordinaria amministrazione».
Il suo successore, l’avv. Zampaglione, camicia nera del 1921, viceversa era nativo di Calitri e grazie alla sua laurea in giurisprudenza non disdegnava di dedicarsi attivamente all’attività forense. Anch’egli discendeva da una famiglia di nobile lignaggio. Apparteneva, infatti, «ad una delle più antiche e cospicue famiglie della provincia»[58], a testimonianza di come la matrice notabiliare costituiva un elemento difficilmente confutabile nella selezione del personale politico fascista. Inoltre, il padre – il comm. Francesco – aveva ricoperto la carica di consigliere e deputato provinciale per diversi anni. L’adesione al fascismo, del nuovo federale, si materializzò il 13 ottobre del 1921, allorquando divenne immediatamente uno squadrista, al punto che, successivamente, partecipò persino alla Marcia su Roma. Prima di ottenere il prestigioso incarico di segretario del P.N.F. irpino, Zampaglione si distinse – tra il 1925 e il 1926 – come Ispettore Federale di Avellino, segretario del Fascio di Calitri dal 1928 al 1930 e Commissario del Fascio di Cairano nel 1929. Inoltre, dal marzo 1927 all’agosto del 1932, accentrò nelle sue mani la doppia carica di federale e podestà di Calitri. L’integrazione dei ruoli, in questo periodo era frequente e mostrava quasi come la nomina podestarile veniva intesa quale semplice attestato di merito ad una carriera di notabile politico.
Proprio nel corso degli anni 30 prese forma il ricorso sistematico al funzionariato politico, mediante la designazione al vertice del partito di personaggi privi di un effettivo spessore politico, il cui merito principale consisteva soltanto nell’aver maturato una solida carriera nell’ambito degli apparati di partito o collaterali ad esso. Nei quadri dirigenti del P.N.F., in virtù di tale situazione l’istituto podestarile decadeva al rango di semplice ufficio sotto l’egida del potere prefettizio.
La cooptazione del nuovo ceto dirigente negli apparati politici e burocratici fascisti trovava la strenua l’opposizione dei vecchi quadri intermedi e periferici e, inoltre, era ostacolata dalla politica di decentramento burocratico al punto che sembrava riportare in auge la personalizzazione del potere con la relativa occupazione clientelare dei vari apparati della macchina statale, esautorando in tal modo il fascismo del suo carattere innovatore. Si assisteva, dunque, ad una serie di atteggiamenti opportunistici che davano spazio alle espressioni più retrive di una concezione politica di tipo personalistico.
L’affermazione della nuova classe dirigente si realizzò, pertanto, anche grazie all’ausilio dell’accentramento amministrativo che contribuiva a catalizzare nell’ambito dell’apparato pubblico le conflittualità ideologiche delle nuove generazioni, mitigando, al contempo, anche le rivendicazioni corporative e campanilistiche. All’indomani del suo insediamento, il nuovo federale Zampagllione riceveva in eredità dal suo predecessore la seguente situazione:
Tab. 1 La condizione delle organizzazioni fasciste al 1932
Organismo
N. iscrittial 1932
P.N.F.
14.710
Fasci giovanili
8.887
Fasci femminili
2.450
O.N.D.
4.400
O.N.B.
22.540
Federazione agricoltori
700
Unione industriale
500
Federazione del commercio
4.317
Unione agricoltori
6.837
Unione dei sindacati dell’industria
500
Sindacati del commercio
1.500
Federazione artigiana
1.500
Sindacato degli artisti e dei professionisti
900
Sindacato dei trasporti
1.025
Fonte: Il Corriere dell’Irpinia (27 agosto 1932)
Tuttavia, Zampaglione in occasione del convegno dei sindacati dell’industria rilevò che
Nel frattempo le organizzazioni sindacali esplicavano un’altra funzione rilevante, mediante la creazione delle casse mutue per le malattie non ancora coperte dall’assicurazione infortuni. «In Irpinia – affermava Zampaglione – le mutue hanno raggiunto uno sviluppo veramente considerevole; sono in funzione sette casse che complessivamente hanno svolto un’opera di assistenza per oltre 80.000 lire»[61]. Il federale, nella sua relazione al convegno dei sindacati dell’industria, snocciolò dei dati confortanti che lasciavano presagire un imminente decollo dell’economia irpina, rilevando come «dei 12.571 disoccupati iscritti nell’anno (1932), 10.835 erano occupati (…) a dimostrazione dell’efficienza raggiunta dall’ufficio (di collocamento) e come esso sia ormai entrato nella pratica della vita sindacale»[62].
Intanto, il 9 settembre 1933, si verificò l‘ennesimo avvicendamento al vertice della prefettura irpina; a Francesco Vicedomini, dopo quattro anni di intenso lavoro, successe il comm. Enrico Trotta, proveniente da Gorizia, ma nativo di Toro, una cittadina nei dintorni di Campobasso. Laureatosi brillantemente in giurisprudenza, vinse subito un concorso pubblico grazie al quale, a partire dal 1904, iniziò la sua folgorante carriera presso il Ministero dell’Interno.
Il suo primo incarico di funzionario prefettizio lo esercitò a Lodi, dopodiché fu trasferito a Saluzzo e quindi ad Acqui, prima di approdare a Genova dove svolse, per un decennio le sue mansioni alle dipendenze di vari prefetti distinguendosi per il suo dinamismo e la sua competenza in materia amministrativa. Nel corso della prima guerra mondiale si schierò tra le fila degli interventisti e prese parte attivamente al conflitto, guadagnandosi sul campo il grado di Capitano di Fanteria, che gli valse il merito di essere decorato con la Croce di Guerra. Durante l’armistizio svolse mansioni direttive presso il Comando Supremo dell’Esercito
Intanto, il 22 giugno 1935, si registrava un nuovo cambio della guardia al vertice del Rettorato Provinciale, di cui divenne Preside l’on. Alberto Di Marzo.
Inoltre, bisogna rilevare che proprio in questo periodo, anche nell’ambito del partito si ravvisava un certo fermento al punto che, il 5 settembre dello stesso anno, si dovette assistere all’ennesimo avvicendamento alla guida della segreteria provinciale. Difatti, l’avv. Gaetano Zampaglione fu costretto a rassegnare le dimissioni per seri motivi di salute. Nel suo discorso di commiato non mancò di sottolineare che
L’arduo compito di guidare la federazione irpina del P.N.F. fu quindi affidata nelle mani di un funzionario di banca di provata fede fascista: Vittorio Campanile. Veniva, così, di nuovo ripristinata la direzione del partito da parte di un gerarca locale. Il nuovo segretario aveva maturato una considerevole esperienza militare, avendo partecipato al primo conflitto mondiale col grado di capitano dell’aeronautica. Aderì al fascismo il 1° novembre del 1921 ed il suo cursus honorum all’interno del partito ebbe inizio allorquando ricevette la nomina di primo animatore dei Fasci Giovanili d’Irpinia. In seguito, fu stretto collaboratore del Federale Zampaglione, divenendo vice segretario del Fascio di Avellino e successivamente comandante in seconda dei Fasci Giovanili di Combattimento. Tuttavia la sua parabola politica incominciò a declinare rapidamente a partire dall’otto gennaio del 1940, allorquando lasciò la guida della federazione irpina del P.N.F. seguita dalle dimissioni che rassegnò poco dopo anche dalla carica di Seniore fuori quadro del Consiglio Nazionale della M.V.S.N. Nell’arco di questi pochi anni, nel capoluogo irpino, sembra di assistere dunque ad un convulso avvicendamento di tutte le più alte cariche del regime. Difatti, nel luglio del 1936, Tullio Tamburini subentrava, nelle funzioni di prefetto, ad Enrico Trotta trasferito a Grosseto. Il nuovo rappresentante di governo proveniva dai ranghi del fascismo toscano ed era partito
Ritornò alla ribalta della scena politica nella seconda metà degli anni trenta, dopo aver sperimentato sulla propria pelle le conseguenze della intransigente politica di normalizzazione del partito, messa in atto scrupolosamente da Turati e dal suo successore Giuriati. Appena fu investito del prestigioso incarico, Tullio Tamburini mostrò subito il suo effettivo spessore politico, varando una serie di iniziative destinate a lasciare il segno nel capoluogo ed in provincia. Difatti, dopo aver interposto i suoi buoni uffici presso il Duce, riuscì ad organizzare in Irpinia, tra il 20 ed il 30 agosto 1936, le grandi manovre del Regio Esercito.
Così, il nuovo prefetto, giunto ad Avellino il 1° agosto, costituì in un batter d’occhio un apposito comitato organizzatore, composto dal Questore, dal podestà De Conciliis, dall’on. Alberto Di Marzo, dal Federale Campanile e dal comandante dell’Arma dei Carabinieri. Per l’occasione vennero requisiti diversi edifici scolastici per alloggiare il personale di pubblica sicurezza proveniente da diverse sedi. L’iniziativa, in virtù dell’abile regia del prefetto Tamburini, riuscì alla perfezione anche sul versante logistico, e fu grazie ad essa che riuscì a strappare a Mussolini un congruo numero di promesse per ammodernare il capoluogo e la provincia, in maniera tale da rivitalizzare il tessuto produttivo.
Fu, poi, realizzata anche la riattazione delle strade cittadine e del sistema fognario, la localizzazione della ferrovia alla periferia-est di Avellino, un consorzio per la lavorazione del legno e – dulcis in fundo – la ristrutturazione di Piazza della Libertà. Quest’ultima fu, in seguito, ribattezzata dall’ineffabile prefetto, «Piazza della Rivoluzione» approfittando,
Nel frattempo, il podestà Giuseppe de Conciliis, dopo circa otto anni di amministrazione dell’ente municipale, il 17 febbraio 1938, venne sostituito dal commissario prefettizio Alessandro Bacci, il quale, tuttavia, restò in carica soltanto per quattro mesi, fino al 3 giugno successivo, allorquando fu investito dell’alto incarico di podestà il barone Eduardo Grella. Il nuovo gerarca era nativo di Sturno, un paese dell’Alta Irpinia, e rispetto al suo predecessore, vantava un maggiore spessore proprietario garantito dalle sue origini aristocratiche[68]. Discendeva, infatti, da un casato di nobile ed antico lignaggio rappresentato da quel Luigi Grella che fu Sopraindentente al Ministero delle Finanze al tempo dei Borboni, e dal giureconsulto Federico Grella che, nel 1848 fu eletto contemporaneamente deputato nel collegio di Napoli e di Sant’Angelo dei Lombardi. «Il nonno, Eduardo (invece) fu per sette legislature Deputato del Collegio di Mirabella Eclano»[69].
Il nuovo podestà trascorse gran parte della sua giovinezza nel capoluogo irpino, dove frequentò le scuole medie, al termine delle quali proseguì i suoi studi presso l’ateneo partenopeo, conseguendo – a soli vent’anni – la laurea in giurisprudenza. In seguito partecipò attivamente al primo conflitto mondiale, dopodiché esercitò, per oltre quindici anni, la professione di avvocato penalista che poi abbandonò «per dedicarsi completamente all’amministrazione del patrimonio avito, che egli in breve (portò) all’antica efficienza»[70].
Il cursus honorum politico del barone Grella iniziò nel 1923, allorquando fu eletto, prima sindaco di Sturno, e successivamente, con l’introduzione del nuovo ordinamento degli enti locali, fu nominato podestà. Negli anni seguenti gli fu affidato finanche l’incarico di Rettore della Provincia e poi di Presidente della sezione Agricola-Forestale del Consiglio Provinciale delle Corporazioni. Il suo floridissimo patrimonio immobiliare era costituito da «circa 2000 moggia di terreni in provincia di Avellino e Foggia»[71].
Per attendere al suo cospicuo patrimonio terriero fu costretto, nel 1942, addirittura a rassegnare le dimissioni dalla carica di podestà di Avellino[72], ricalcando le orme del suo predecessore che, a sua volta, si era dimesso «per esclusivi motivi di famiglia (e) per gli affari privati del tutto trascurati durante il settennato podestarile»[73]. In realtà questi personaggi erano esponenti di primo piano del ceto agrario e dopo un lungo esilio dalla vita politica attiva, erano stati cooptati dal fascismo nelle più alte cariche amministrative per ragioni di opportunità politica e per circoscrivere le loro rivendicazioni. Dal profilo socio–economico di questi homines novi, saliti alla ribalta della vita amministrativa locale, emerge immediatamente una caratteristica comune: per essi l’impegno politico era, in ogni caso, subordinato al loro interesse primario rappresentato dalla gestione oculata delle loro ingenti proprietà immobiliari. Ciò li induceva, pertanto, a privilegiare la dimensione privatistica anziché quella pubblica, che d’altronde abbandonavano senza eccessivo rammarico, in virtù di una libera scelta piuttosto che per un’imposizione dall’alto.
Tutto sommato le peculiarità di questi nuovi funzionari-amministratori, ben si conciliava con la natura della carica pubblica di cui erano investiti che, dopo le iniziali effimere aspirazioni manifestate da una frangia ristretta del fascismo locale la quale mirava a fare del podestà un vero e proprio funzionario dello stato, in seguito finì per acquistare una connotazione meramente onorifica. Tuttavia, essa non era priva di attribuzioni di un certo rilievo soprattutto nelle piccole comunità rurali[74], subordinata – comunque – all’elemento burocratico, rappresentato dal segretario comunale figura che, a partire dal 1928, verrà statizzata passando sotto l’egida del prefetto[75]. In questo modo il podestà costituiva «lo strumento più idoneo per la completa sparizione della dissonanza tra vita locale e vita statale»[76].
La riproposizione in questa veste dell’elemento più tradizionale delle élites locali, sembra assumere, relativamente all’evoluzione dell’ordinamento amministrativo, una funzione strategicamente rilevante. Cosicché, mediante questo personale poco identificato politicamente, legato alle vecchie impostazioni notabiliari, con uno spiccato senso di riconoscenza nei confronti del nuovo regime, verso il quale mostrava fedeltà e spirito di abnegazione, si poteva procedere speditamente alla fase di smantellamento dell’autonomia degli enti locali, dopo aver assistito ad un periodo di protagonismo municipale.
La cooptazione nella sfera amministrativa del ceto notabiliare, portatore di principi economicisti – che scaturivano proprio dalla loro concezione patrimoniale privatistica – contribuiva a fornire un’ulteriore garanzia contro eventuali dissidi con le autorità centrali, in merito a questioni scabrose relative all’attività amministrativa, soprattutto riguardanti l’aspetto finanziario. Del resto, proprio il problema della finanza locale, durante gli anni del regime, non troverà un’adeguata soluzione e nonostante una frenetica produzione normativa, si riprodurrà la stessa discrasia del sistema fiscale ereditata dallo Stato liberale, caratterizzato da un’ingente disparità tra risorse finanziarie destinate agli enti locali ed il carico delle loro attribuzioni.
Proprio sul finire degli anni trenta – il 14 agosto del 1939 – si verificò un ulteriore cambio della guardia al vertice della Prefettura. All’uscente Tullio Tamburini – trasferito ad Ancona – subentrò Nicola Trifuoggi, uno dei funzionari più in auge del regime. La sua carriera politica, infatti, incominciò il 1° giugno 1908 e «sin dall’inizio (espletò) molte delicate mansioni, riscuotendo sempre i più alti encomi dal Governo. A Napoli, dove egli gode(va) larga stima, fu Consigliere, Vice Prefetto Ispettore e Vice Prefetto Vicario. Nel 1937 fu nominato Prefetto e destinato a Ragusa, (dove seppe) risolvere con intelligenza e pronta intuizione ardui problemi»[78].
Inoltre, bisogna rilevare che ai meriti di combattente – egli, infatti, partecipò alla Guerra Libica e al primo conflitto mondiale – «assomma(va) una profonda conoscenza dei problemi economici, amministrativi e sindacali (…). Si distinse oltre che in varie sedi provinciali, nella reggenza della Direzione degli Affari Civili di Zuara (Libia)»[79]. Nel frattempo, non poteva passare inosservato il frenetico avvicendamento che, riprese il sopravvento a partire dalla fine degli anni trenta, anche ai massimi vertici della federazione irpina del PNF. Difatti, dopo cinque anni di intenso lavoro, Vittorio Campanile, venne sostituito – alla guida del partito – da Carlo Balestra di Mottola, il quale proveniva dalle fila degli universitari fascisti della capitale: era infatti laureato in scienze politiche. Partecipò attivamente alle guerre d’Africa e di Spagna, al termine delle quali fu decorato con due medaglie di bronzo e una croce di guerra al valore.
In seguito esercitò le mansioni di funzionario, principalmente nell’Organizzazione degli Agricoltori; inoltre, fu anche «Commissario della Federazione dei Consorzi di miglioramento fondiario in varie Province d’Italia e Delegato confederale per la reggenza dell’Unione Agricoltori di Perugia. (In seguito fu) membro effettivo della Corporazione dell’Abbigliamento e Segretario della Commissione legislativa degli Esteri. (Infine fu nominato) Seniore della Milizia»[80].
Ad ogni modo, Carlo Balestra restò in carica per soli due anni, fino al 12 gennaio 1942, allorché fu nominato dal Duce in persona, capo della delegazione del PNF presso il Partito Ustascia. Così, a reggere le sorti della federazione irpina, fu chiamato l’ex squadrista Franco Bogazzi, il quale aveva partecipato
La sua permanenza nel capoluogo irpino, tuttavia, durò soltanto pochi mesi in quanto, successivamente, gli furono affidati altri incarichi più prestigiosi, prima al vertice della prefettura di Ravenna e poi di Verona. Così, il 12 gennaio 1942, giunse ad Avellino il nuovo segretario federale, il giornalista Francesco Grossi, di origine milanese che, tra l’altro, vantava nel suo curriculum una laurea in scienze coloniali e l’iscrizione al fascismo fin dai suoi albori. Comunque, non ebbe molto tempo per mettersi in luce in quanto, come è noto, il 25 luglio del 1943 la fiamma dell’utopia fascista si spense definitivamente mettendo «allo scoperto l’anomalia di un sistema totalitario privo di giustificazione ideologica»[82]. Come rileva acutamente Paolo Varvaro «il confronto segretario-podestà ristabili(va) l’incidenza del requisito patrimoniale all’interno di un intreccio di interesse e di opzioni sociali che si salda(vano) nella figura del candidato prescelto. Lo status socio-professionale – aggiunge Varvaro – delinea cioè i contorni di un sistema di egemonia non transitorio ma stabilmente radicato nel tessuto sociale; che attinge a una matrice ottimatizia, ma presenta al suo interno un’articolazione complessa. Di qui la tenuta del ceto agrario, la consistenza dell’elemento militare, l’incoraggiante ascesa del ceto medio. I rapporti sociali – conclude Varvaro – regola(vano) la gerarchia dei poteri locali, collocando il podestà un gradino al di sopra del segretario politico, a sua volta afferente a un grado sociale superiore rispetto ai fiduciari sindacali»[83].
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[1] Cfr. E. Ragionieri, La costruzione dello Stato fascista, Storia d’Italia dall’Unità ad oggi, Torino, Einaudi, 1976, p. 2167.
[2] Per un profilo biografico di Aurelio Padovani si rimanda all’opera di G. Picardo, Aurelio Padovani. Il fascista intransigente, Controcorrente, 2003.
[3] P. Varvaro, Politica ed elites nel periodo fascista, in “Le Regioni nella Storia d’Italia: La Campania”, Torino, Einaudi, 1976, pp. 948-956.
[4] Si veda in merito il saggio di P. Varvaro, Politica ed élites nel periodo fascista, in “Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità ad oggi. La Campania”, Torino 1990, p. 941.
[6] Cfr. F. Barra, Chiesa e società in Irpinia dall’Unità al Fascismo, La Goliardica editrice, Roma 1977, p. 209.
[7] Cfr. A.C.S., Min. Int., Dir. Gen. P.S., 1925, b. 96-A. Rapporti del prefetto del 15 e 28 aprile, 4 e 18 maggio, 29 e 31 luglio, 10 novembre e 31 dicembre 1921. Cfr. anche il lavoro di M. Bernabei, Fascismo e nazionalismo in Campania, pp. 290-295.
[8] G. Dorso, Le lotte trasformismi, in “Corriere dell’Irpinia”, n. 8 del 21 febbraio 1924.
[9]Dopo l’inchiesta dell’on. Mazzolini, in “Irpinia Fascista”, n. 23 del 2 agosto 1924.
[10]L’istituto del podestà in Italia, Roma 1926, pp. 13-14.
[11]I podestà in tutti i comuni, in “Don Basilio”, 15, 1926. Preceduta da vari interventi che miravano a intensificare i controlli sulle amministrazioni ed a migliorare la legge comunale e provinciale del 1915, l’istituzione dei podestà entra in vigore nel 1925 per comuni fino a 5.000 abitanti. Successivamente, il Consiglio dei Ministri, a partire dall’agosto del 1926, estese l’istituto podestarile a tutti i comuni del Regno. Cfr. R. Vuoli, Il Podestà e la Consulta Municipale nell’ordinamento giuridico del Comune, Milano, 1928.
[12] Cfr. G. Sole, Lettere anonime e lotte tra fazioni nel Cosentino (1926-1943), in “Rivista di Storia Contemporanea”, 4, 1986.
[13] P. Varvaro, Politica ed élites nel periodo fascista, in “Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità ad oggi. La Campania”, Torino 1990, p. 972.
[14] C. Cappelli, Il ceto politico locale tra le due guerre: nuove fonti d’archivio, in “Il Passato e il Presente”, set.-dic. 1986, p. 173. Riflessioni interessanti si riscontrano anche in: F. De Felice, Fascismo e Mezzogiorno, in Annali dell’Istituto “A. Cervi”, I, 1972; I. Granata, Il regime fascista nella storiografia locale: prospettive della ricerca e primi bilanci, in Annali della Fondazione “L. Micheletti”, Brescia, I, 1985.
[15] V. Cappellli, Il ceto politico locale tra le due guerre: nuove fonti d’archivio, in «Il Passato e il Presente», pag. 173, set.-dic. 1986
Riflessioni interessanti si riscontrano anche in: R. De Felice, Fascismo e Mezzogiorno, in Annali dell’Istituto «A. Cervi», I,1972; I. Granata, Il regime fascista nella storiografia locale: prospettive della rierca e primi bilanci, in Annali della Fondazione «L. Micheletti», Brescia, I, 1985.
[16] cfr. F. Barra, La classe dirigente fascista: Alfredo De Marsico: il liberale del fascismo, in Il regime fascista, Enciclopedia Illustrata dell’Irpinia, Avellino 1986, pp. 150-151.
[17] Cfr. A.C.S., Min. Int., Direzione Gen. Amm. Civile, Div. AA.GG. e RR., Rettorati Provinciali, b. 7; A.C.S., Segreteria Particolare del Duce, Carteggio Riservato, b. 83, fasc. Alfredo De Marsico; M. Bernabei, Fascismo e nazionalismo in Campania, Roma 1975., pag. 320.
[18] G. Dorso, Le lotte ai trasformismi, in «Corriere dell’Irpinia», 8 del 21 febbraio 1924.
[19]Dopo l’inchiesta dell’on. Mazzolini, in «Irpinia Fascista», 23 del 2 agosto 1924.
[21] I lavori sul sindacalismo fascista sono rari e generalmente si riferiscono a grandi realtà produttive successive all’avvento del regime. Cfr. M. Ilardi, Ristrutturazione aziendale e classe operaia sotto il fascismo: la società Terni(1928–32), in «Il Movimento di Liberazione in Italia», 112, 1973; G. Sapelli, Fascismo, grande industria e sindacato. Il caso di Torino 1929-1935, Milano, 1975. Entrambi sottolineano la capacità dei sindacati di assorbire la protesta operaia attraverso un’azione di rivendicazione battagliera. In una prospettiva di lungo periodo A. De Benedetti, Napoli tra le due guerre: sistema produttivo, proletariato industriale e regime fascista, in «La classe operaia durante il fascismo», pag. 830; ha inventariato la sostanziale debolezza del sindacato fascista costretto a muoversi tra un’opera di corto respiro e di radicate spinte rivendicative; e un’azione più esplicitamente repressiva. Più recentemente, si è fatta strada la consapevolezza di volgere lo sguardo a settori diversi da quelli del proletariato industriale. Cfr. S. Sanguanini, I “mezzadri urbani”. Il sindacato fascista degli artigiani, in «Italia Contemporanea», 165, 1986. Corriere dell’Irpinia, nn. 6 – 17, 1923; Per il sindacato dei professori medi, in «Corriere dell’Irpinia», 47, 1925; Sindacato studenti fascisti, in «La Disperata», 7, 1925; Vita di partito. Sindacato medici fascisti, in «La Disperata», 4, 1925.
[22] Nel 1940, la federazione irpina si attesterà all’81° posto nella graduatoria provinciale del tesseramento al PNF. Cfr. Federazione Fasci dell’Irpinia, Notiziario federale, n. 50, Avellino 17 aprile 1940.
[23]L’Assemblea del Fascio, in «Irpinia Fascista», 23, 1923.
Tuttavia, se si prende in considerazione la graduatoria provinciale come parametro di riferimento, la situazione si capovolge. Difatti, nel 1924, si registrano 15.000 tesserati al PNF e 8.000 ai Sindacati.
Cfr. Situazione del partito, in «Irpinia Fascista», 7 agosto 1924.
[24] A.C.S., Min. Int., Dir. Gen. P.S., Oberdan Cotone, 1924, cat. G – I, b. 88, fs. Avellino.
[25] Per il commissario di Avellino dopo la sostituzione di Corradi, in «Irpinia Fascista», 13, 1923.
[26] cfr. F. Barra, Chiesa e società in Irpinia dall’Unità al Fascismo, Roma 19 , cit. pp. 84 e sgg.
[28] G. Acocella, Notabili, Istituzioni e Partiti in Irpinia. Quarant’anni di vita democratica,
Napoli 1989, cit. pag. 27.
[29]L’istituto del podestà in Italia, Roma, 1926, pp. 13 – 14.
[30]I podestà in tutti i comuni, in «Don Basilio», 15, 1926.
Preceduta da vari interventi che miravano a intensificare i controlli sulle amministrazioni ed a migliorare la legge comunale e provinciale del 1915, l’istituzione dei podestà entra in vigore nel 1925 per comuni fino a 5.000 abitanti. Successivamente, il Consiglio dei Ministri, a partire dall’agosto del 1926, estese l’istituto podestarile a tutti i comuni del Regno.
Cfr. R. Vuoli, Il podestà e la Consulta Municipale nell’ordinamento giuridico del Comune, Milano, 1928.
Note della R. Prefettura per la nomina di De Conciliis Giuseppe a Podestà, 15 set. 1942.
[39] Proclama agli avellinesi del podestà Giuseppe De Conciliis, 26 luglio 1935.
[40]Il nuovo segretario federale, in «Corriere dell’Irpinia» n. 380, 12 aprile 1930.
[41]Il discorso del Commissario Federale Gigi Maino al rapporto dei Segretari Politici dell’Irpinia, in «Corriere dell’Irpinia», n. 42 8, 16 marzo 1931.
Nota della R. Prefettura per la nomina di E. Grella a Podestà, 4 maggio 1938.
[73] A.C.S., Min. Int., Podestà Avellino, Lettera del podestà al Prefetto. 16 maggio 1942.
[74] A.C.S., Min. Int., Podestà Avellino, Lettera del podestà G. de Conciliis al Prefetto. 13 gennaio 1938.
[75] Le funzioni più rilevanti dei podestà riguardavano l’iscrizione dei poveri negli appositi elenchi, la nomina del medico e del farmacista condotto, la compilazione dei ruoli d’imposta, la determinazione dei fitti e delle terre demaniali. In virtù di tali prerogative appariva inevitabile che, nei piccoli centri «Il podestà altro non (era) che un tirannello locale ».
Cfr. A. Carapelle, Il discorso e l’opera dell’on. Federzoni in riguardo all’ordinamento degli Enti locali,
in «Rinnovamento Amministrativo», 1926, pp. 278 – 279.
[76] Il provvedimento fu emanato con il R.D.L. 17 agosto 1928 n. 1953.
In merito a tame argomento si confrontino le riflessioni di A. Carapelle, I segretari comunali, impiegati dello Stato, in «Rinnovamento Amministrativo», 1928, pp. 171 e sgg.
[77] Questa è la tesi sostenuta dall’on. Meravaglia, presidente della Confederazione nazionale degli enti autarchici, al primo convegno dei podestà dei capoluoghi di provincia, che si svolse a Milano nel 1928 (cit. E. Rotelli, op. cit., pag. 93).
[78] Cfr. in particolare: A.C.S., Min. Int., Dir. Gen. P.S., Div. AA. GG. e RR., b. 48, fs. Avellino,
R. Questura di Avellino. Relazione sulla situazione politico-economica della provincia di Avellino dal I giugno al 15 settembre 1938,
[79]Il saluto dell’Irpinia a S.E. Nicola Trifuoggi, in «Corriere dell’Irpinia», n. 33, 19 agosto 1939 .
[80]Il cambio della Guardia alla Federazione dei Fasci di Combattimento dell’Irpinia,
in «Corriere dell’Irpinia», n.2, 13 gennaio 1940.
[81]Franco Bogazzi alle Camice Nere dell’Irpinia, in «Corriere dell’Irpinia», n. 3, 17 gennaio 1942.