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LA GUERRA VISTA DA UNA SUORA

Dopo l’eccidio di Sant’Anna di Stazzema del 12 agosto 1944 a San Niccolò di Prato trovarono rifugio molti perseguitati dai nazisti.

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Quella mattina del 12 agosto di settantotto anni fa a Sant’Anna, una piccola frazione del comune di Stazzema nei pressi di Lucca, sembrava un giorno come tutti gli altri e nulla lasciava presagire quanto stava per accadere. Alle prime luci dell’alba, infatti, quattro compagnie di SS, dopo aver circondato la vallata dove si erano rifugiate centinaia di persone sfollate da tutta la Versilia, si scagliarono, con proditoria premeditazione, contro la popolazione inerme.

Mentre Evelina Berretti stava per dare alla luce il suo bambino, all’improvviso, gli uomini del II° Battaglione della 16a SS-Panzergrenadier-Division “Reichsführer-SS”, agli ordini del capitano austriaco Anton Galler, fecero irruzione nella sua abitazione e, senza alcuna pietà, affondarono nel ventre della giovane puerpera le loro baionette, strappandole il feto che portava in grembo.

Monumento a Sant’Anna di Stazzema

In poco più di tre ore furono barbaramente trucidate ben 560 persone innocenti, in gran parte anziani, donne e bambini, tra cui anche la piccola Anna Pardini, che aveva appena venti giorni. Questi loschi individui non ebbero compassione neanche di Maria Bonuccelli che, singhiozzando, in preda all’angoscia, non smetteva di implorare i suoi aguzzini di risparmiare almeno il figlioletto Claudio di quattro mesi: «abbiate pietà di mio figlio, è leucemico, sta per morire».

Anna Pardini

Ma, come se nulla fosse, quel militare con la benda sul volto – che secondo la testimonianza di Cesira Pardini era addirittura un versiliese – estrasse il suo revolver dal fodero ed esplose due colpi alla testa prima della donna e poi del bambino. Alle perdite umane e materiali si sommavano anche i danni perpetrati dai tedeschi che, fiutando la débâcle ormai alle porte, facevano terra bruciata intorno a sé, macchiandosi dei crimini più efferati tanto che, per arginare queste violente rappresaglie anche a Prato varie bande partigiane ingaggiarono furibondi combattimenti con le truppe tedesche, soprattutto dopo l’ordine d’insurrezione generale impartito l’11 agosto dal C.L.N. toscano.

Mons. Eugenio Fantaccini

Verso la fine di giugno, si presentò da suor Maria Cecilia anche un membro del comitato di liberazione, il democristiano Pietro Gini, chiedendo ospitalità per i rappresentanti del Comitato di Liberazione. Dopo aver  ricevuto l’assenso del vicario, Mons. Eugenio Fantaccini, che «con ampio gesto paterno, consigliò la madre ad offrire tale ospitalità e non solo, ma ad accettare tutti quelli che avrebbero chiesto rifugio, sicurezza e protezione in quei tristi giorni», li accolse nei locali dell’infermeria.

Monastero “San Niccolò” di Prato

Di conseguenza suor Maria Cecilia Vannucchi, in quei giorni funesti così scriveva:

Suor Cecilia Maria Vannucchi (1901 – 1990)

«ai primi di gennaio del 1944, la persecuzione anti-semitica, si manifestò minacciosa anche nella città di Firenze. La nostra comunità conosceva diverse famiglie imparentate con una nostra cara suora (Sr. Albertina Cardoso Ljnes), le quali, sicure per un legame affettuoso e fraterno con la stessa suora, venivano spesso a trovarla ed erano per questo, conosciute da tutte le suore del convento. Verso la fine di gennaio, quasi si fossero dati convegno in accordo, in brevi giorni, le vedemmo arrivare e fu offerto loro ospitalità ed accoglienza. Avemmo l’impressione che presso di noi si sentissero sicuri, anzi, sollevati da un incubo, quasi che le nostre mura trecentesche fossero protettive per loro innocentemente perseguitati e costretti a nascondersi. A primavera inoltrata – continua la religiosa – le notizie che venivano da Firenze non erano buone; i tedeschi erano entrati anche nei conventi e senza nessun riguardo verso l’età e le condizioni di salute, avevano costretto gli ospiti ad uscire, questi venivano portati via ed allontanati. Queste notizie dovemmo comunicarle anche ai nostri ospiti i quali andarono via, un gruppo di essi uscì silenziosamente verso un luogo per loro altrettanto sicuro. Altri trovarono ospitalità nella casa di una nostra suora in luogo di campagna e vi si trattennero fino a che, un’altra nostra suora, consigliò loro di aspettare a Lucca il passaggio del fronte».

Per poter comunicare con gli altri gruppi partigiani, i rappresentanti del C.L.N. toscano escogitarono un sottile stratagemma. Un bel giorno, avendo adocchiato tra i rifugiati un ragazzino dall’aria vispa, tale Saverio Picchi, gli fecero ingessare un braccio da un infermiere e lo inviarono, in sella ad una una vecchia bicicletta da donna con i copertoni rattoppati, attraverso Poggio a Caiano fino a Ponte a Tigliano, che scavalcava l’Ombrone pistoiese fra la frazione di Tavola e il Poggetto sulla provinciale Firenze-Pistoia. Nei pressi del ponte, lo attendevano due uomini che, dopo averlo portato nella loro casa e rifocillato, gli tolsero il gesso per recuperare la busta di tela all’interno della quale c’era il messaggio dei membri del C.L.N. Nel frattempo le richieste d’aiuto cominciavano a diventare davvero numerose, al punto che le suore dovettero lasciare le loro celle e sistemarsi nei locali del capitolo.

«La cosa più bella – scrive ancora suor Maria Cecilia – fu l’unione fraterna tra tutti gli ospiti nonostante la diversità di condizione, di cultura, di ambienti da cui provenivano. Si aiutavano tutti, anche per la macinazione del grano e per altre necessità. I bambini erano seguiti sia negli studi che nei giochi, da una nostra suora. Ad ogni allarme gli uomini trovavano rifugio nelle soffitte e nei sottosuoli, le donne convenivano in chiesa dove, in generale veniva cantata la preghiera perché, si diceva, che i tedeschi avevano una certa suggestione timorosa della coralità della preghiera. Infatti, tutte le volte che si erano avvicinati per entrare, si allontanarono. […] Gli inquilini della piazza erano riusciti a comunicare [abbattendo i muri di divisione] penetrando fin dentro al convento e venivano premurosamente ogni volta che dovevano darci un utile avviso».

Quando, poi, nel mese di settembre i tedeschi si ritirarono verso le colline di Vernio, cominciò l’esodo degli ospiti e l’insediamento delle truppe alleate. Il Convitto Nazionale Cicognini fu così trasformato in albergo e i sette-otto bambini meridionali che erano ospitati furono affidati alle amorevoli cure materne e premurose di Sr. Colomba, che li ospitò presso il convento di San Niccolò, dove giunsero accompagnati da un istitutore “sparuti e mal vestiti”.

«Nonostante il periodo doloroso e apprensivo – conclude, con malcelato compiacimento, suor Maria Cecilia –, non possiamo dimenticare l’arcana forza che ci venne da Dio e dal nostro desiderio di aiutare tutti coloro che avevano bussato alla nostra porta. Fu ospitalità cristiana, spontanea, senza pretese, ricambiata con affettuosa fiducia da tutti coloro che furono all’ombra del nostro campanile e che hanno mantenuto il ricordo di una permanente serenità, nonostante l’ora crudele che portò allo sterminio tanti popoli e colpiva specialmente gli innocenti e gli indifesi».

© Giovanni Preziosi, 2023

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Comments

  1. Franco Grilli

    Reply
    Agosto 14, 2022

    “… dopo l’ordine d’insurrezione generale impartito l’11 agosto dal C.L.N. toscano.”
    Conoscendo la spietata e odiosa ferocia dei nazisti (vedi altre stragi già perpetrate, per rappresaglia o no) e sapendo che il fronte alleato stava già arrivando a Lucca, non si doveva mai e poi mai dare quell’ordine, percepito sicuramente dai nazisti in tempo reale.
    Quale peso questo stupido errore ha avuto sulle stragi che seguirono, da Stazzema fino a Marzabotto? Banalmente, ecco cosa succede quando si da fiato alla bocca senza avere acceso il cervello…

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