Un secolo fa con la marcia su Roma organizzata dal Partito Nazionale Fascista, spianò la strada a Mussolini ed ai suoi gregari per impossessarsi del potere sancendo così il de profundis dello Stato liberale.
Un secolo fa con la marcia su Roma organizzata dal Partito Nazionale Fascista, spianò la strada a Mussolini ed ai suoi gregari per impossessarsi del potere sancendo così il de profundis dello Stato liberale.
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In seguito alla caduta dell’ennesimo governo Giolitti, l’incarico di formare un nuovo ministero fu affidato nelle mani di Ivanoe Bonomi, il quale subito tentò di far uscire il paese da un’ignominiosa guerra civile, interponendo i suoi buoni uffici, nell’agosto del 1921, per giungere ad una tregua d’armi tra socialisti e fascisti, perfezionata mediante la stipulazione di un vero e proprio patto di pacificazione. Tuttavia, come gli eventi successivi si incaricheranno di dimostrare, questo compromesso si rivelò ben presto una vittoria di Pirro, poiché fu osteggiato da quella frangia di fascisti intransigenti che, si riconoscevano negli ideali propugnati dai ras dello squadrismo agrario. Così, Mussolini per guadagnarsi il sostegno di questo gruppo, si vide costretto a sconfessare il patto concluso poco prima con i socialisti.
Da quel momento in poi ebbe inizio la trasformazione del movimento fascista in un autentico partito, che assunse i crismi dell’ufficialità, presentandosi sulla scena politica nazionale con la denominazione di Partito Nazionale Fascista. A quel punto Bonomi, considerate le circostanze sfavorevoli, non poteva far altro che rassegnare le dimissioni. Alla guida del nuovo governo fu chiamato Luigi Facta, una personalità alquanto incolore, dotata di poca energia e scarsa autorità. Era, ormai, il preludio del crepuscolo dello Stato liberale che si avviava verso una grave crisi, tanto più che i fascisti avendo intuito che i tempi erano diventati maturi per un ulteriore passo in avanti verso la conquista del potere, non esitarono ad utilizzare qualsiasi mezzo per conseguire questo obiettivo. A compromettere ulteriormente la situazione, già di per sé estremamente precaria, contribuì il rifiuto opposto dai socialisti riformisti ad accettare un’eventuale alleanza con gli esponenti della borghesia liberale che, al momento, costituiva l’unica alternativa ancora praticabile per salvaguardare il fragile istituto democratico.
Ad ogni modo, quando i socialisti si decisero a collaborare con le forze governative, ormai era già troppo tardi, in quanto la situazione nel Paese si era, nel frattempo, seriamente compromessa. Lo scenario politico italiano che si delineò in questo periodo, aprì la strada all’avvento del fascismo che, facendo leva sull’insipienza del governo Facta e assicurandosi il controllo delle piazze, dopo aver sgominato il movimento operaio, ruppe ogni indugio e nel corso del congresso che si svolse a Napoli nell’ottobre del 1922, il quadrumvirato composto da Bianchi, De Bono, Balbo e De Vecchi si assunse il compito di organizzare un colpo di mano contro il governo. Il 22 ottobre, circa 40.000 squadristi, accolsero l’esortazione di Mussolini di marciare su Roma per impadronirsi del potere, consapevoli della facilità dell’impresa per il sostanziale permissivismo delle autorità statali.
In seguito a questa palese violazione costituzionale, Facta tentò di resistere alle squadre fasciste che, tutto sommato, erano esigue, poco disciplinate e scarsamente armate; ma, quando propose al Sovrano di dichiarare lo stato d’assedio, questi si rifiutò, nell’intento di scongiurare una sanguinosa guerra civile e, probabilmente, timoroso che un simile ordine non fosse stato eseguito dall’esercito che, del resto già aveva fatto trapelare qualche simpatia verso il fascismo. In realtà, un piano del genere non avrebbe avuto alcuna possibilità di successo se avesse incontrato una ferma opposizione da parte delle autorità statali; ma, tuttavia, questa venne meno e spianò la strada a Mussolini ed ai suoi gregari, che in tal modo sancirono il de profundis dello Stato liberale. Così, giunto da Milano il 29 ottobre, ricevette formalmente dalle mani del Re l’incarico di formare un nuovo governo, nell’intento di utilizzare il fascismo per arginare l’ondata dei partiti di sinistra che costituivano, secondo Vittorio Emanuele III, una minaccia più seria in quel momento.
Proprio per questo motivo perfino gran parte della gerarchia ecclesiastica vedeva di buon occhio l’avvento al potere del fascismo come scrivevano i monaci dell’abbazia di Montevergine:
Pertanto, considerando gli ultimi avvenimenti, a primo acchito ne conseguiva un giudizio tutto sommato abbastanza lusinghiero di questa nuova forza che si era affermata prepotentemente sulla scena politica nazionale, alla quale si attribuiva il merito di aver fatto cessare gli scioperi che da alcuni anni funestavano il Paese, procurando danni ingenti agli interessi privati e paralizzando il regolare esercizio della pubblica amministrazione.
Del resto era stato proprio il fascismo ad infliggere un colpo micidiale al socialcomunismo, mettendo a tacere ogni loro velleitaria aspirazione; proponendosi, allo stesso tempo, di annichilire finanche l’empia setta della massoneria, che a quel tempo suscitava non pochi timori negli ambienti vaticani per il dilagare della sua dottrina giudicata fuorviante e dannosa.
Senonché, poco dopo, anche il cronista benedettino osservava con un velo di scetticismo, che anche questo nuovo partito, sebbene perseguiva nei suoi propositi uno scopo salutare, non aveva esitato a far ricorso agli stessi metodi violenti che riprovava nei suoi avversari
Pertanto, secondo alcuni religiosi, si rivelò davvero provvidenziale l’intervento del Re che, rifiutandosi di firmare il decreto di stato d’assedio, risparmiò all’Italia una sanguinosa guerra civile.
In tali affermazioni si possono, dunque, rintracciare almeno tre aspetti di particolare rilievo. Innanzitutto, è interessante notare la crescente convergenza delle posizioni della gerarchia ecclesiastica con quelle del nascente regime, soprattutto nell’arginare le lotte furibonde innescate nel Paese, che rischiavano di compromettere seriamente il buon funzionamento dell’apparato burocratico–amministrativo statale, nonché i cospicui interessi privati. La colpa di tutti questi disordini, naturalmente, veniva attribuita ai due partiti di sinistra: il Partito Socialista e, in particolar modo, quello Comunista, ritenuti responsabili di esportare in Italia il modello sovietico, mediante l’espropriazione di banche, opifici industriali ed i maggiori enti amministrativi locali. Per questi motivi, quindi, veniva ulteriormente elogiato il Sovrano per non essersi prestato a questo gioco al massacro, firmando lo stato d’assedio.
Del resto, almeno inizialmente, il fascismo – soprattutto in una piccola provincia dell’entroterra meridionale come era quella irpina – non presentava connotazioni politico–ideologiche tali da costituire una seria minaccia per il cattolicesimo, in modo tale da indurre il clero locale ad una decisa presa di posizione. In realtà, eccetto le sterili ed effimere polemiche inscenate ad arte dal regime, proprio con l’avvento del fascismo vennero completamente dissipate le tradizioni anticlericali, retaggio dello stato risorgimentale. Difatti, appena assurto al rango di forza egemone di governo, diede inizio ad una profonda ristrutturazione dei suoi quadri soprattutto nel meridione. L’arduo compito fu affidato nelle mani dei prefetti e di quei gruppi politici locali a più spiccata vocazione trasformistica.
Si delineò, pertanto, un fascismo meridionale caratterizzato prevalentemente da una componente prefettizia e notabilare. In questa veste certo non poteva incutere alcun timore all’episcopato irpino che, anzi, considerava il nascente regime come il restauratore dell’ordine sociale e il paladino delle prerogative ecclesiastiche, continuamente prese di mira dalla massoneria e dai numerosi gruppi sovversivi. Naturalmente, da questa disamina iniziale – a dir poco approssimativa – da parte della gerarchia cattolica, alla quale sfuggivano gli aspetti irrazionalistici, totalitari e sostanzialmente pagani che si riscontravano nell’ideologia fascista; al punto tale che l’ottuagenario vescovo di Avellino, Mons. Padula, affermò nel 1926, che il Duce additava al popolo italiano il modello di vita francescano![1]
Tuttavia, quasi a smentire queste aspettative fiduciose, poco dopo si verificò un episodio deplorevole, al punto che si constatava che la
In pratica, nel capoluogo irpino, era accaduto che un manipolo di masnadieri aveva intimato a tre deputati avellinesi, fra cui spiccava l’on. Alberto Di Marzo, di lasciare la città entro dodici ore. A quel punto, non volendo sottostare alle loro becere intimidazioni e nel timore di incorrere in qualche violenta ritorsione, l’on. Di Marzo decise di chiedere ospitalità al convento verginiano, in modo da rifugiarsi tra le mura sicure del palazzo badiale di Loreto, almeno fin quando gli animi esacerbati di quella compagnia di guitti non fossero stati indotti a più miti consigli. L’abate Marcone, naturalmente, non oppose alcun diniego, anzi, spalancò generosamente le porte dell’abbazia per ospitare il deputato avellinese che, tuttavia, dopo appena due giorni, appena la situazione sembrò volgere al meglio, poté tornare indisturbato alla propria dimora.
In effetti, Mussolini una volta giunto al potere si era ben presto reso conto dell’importanza che avrebbe rivestito un accordo con la Chiesa per consolidare ulteriormente le basi di massa del regime. Pertanto, sfruttando il miglioramento dei rapporti che, nel frattempo i governi precedenti avevano realizzato, nonché la sostanziale compiacenza con la quale veniva visto da una frangia consistente della gerarchia ecclesiastica, colse la palla al balzo promettendo di impegnarsi a sanare, in via definitiva, il dissidio tra Stato e Chiesa che si protraeva ormai da ben sessant’anni.
In realtà, Mussolini coltivava questa idea già a partire dal gennaio del 1923, allorquando, nel più stretto riserbo, aveva incontrato il Segretario di Stato della S. Sede, Card. Gasparri, per rassicurarlo del suo interessamento circa il salvataggio dell’istituto di credito cattolico, Banco di Roma, che proprio in quel periodo versava in gravi difficoltà finanziarie; mostrando, in tal modo, di voler instaurare nuovi e più proficui rapporti con il Vaticano.
Ad ogni modo, la strategia messa in atto da Mussolini fu ispirata a due obiettivi fondamentali: mentre da un lato arringava le masse, fomentando le vessazioni delle squadre fasciste ai danni del partito e del sindacato cattolico, dall’altro faceva intendere – in modo abbastanza eloquente – al Vaticano che si sarebbe raggiunto un accordo soltanto togliendo di mezzo Don
luigi Sturzo, il quale aveva mostrato in più di un’occasione, la sua ostilità verso il regime. Cosa che effettivamente si verificherà poco dopo.
Del resto, la S. Sede si era persuasa che la creazione di un piccolo Stato pontificio, non solo garantiva una maggiore disinvoltura nei rapporti diplomatici, ma soprattutto si poteva confidare nell’aiuto dello Stato italiano per la risoluzione di eventuali problemi, in virtù del suo efficace braccio secolare costituito dal Partito Popolare, della cui collaborazione le forze liberali italiane non potevano fare a meno. Così, dopo lunghe ed estenuanti trattative, l’11 febbraio 1929, finalmente, si giunse alla stipulazione dei Patti Lateranensi, sottoscritti da Mussolini, per lo Stato italiano, e dal Cardinal Segretario di Stato Gasparri, a nome di Pio XI.
Si poneva, così, fine alla questione romana che si era aperta il 20 settembre 1870, all’indomani della breccia di Porta Pia. L’accordo raggiunto, in realtà, nascondeva da ambo i lati, l’aspirazione ad esercitare il controllo sull’organizzazione delle masse in modo tale da allargare la base sociale. Pertanto, Mussolini comprese che in una società non ancora secolarizzata, questo compito poteva assolverlo solo la Chiesa Cattolica, esortando i fedeli ad accettare la dittatura fascista. Del resto, fin dall’inizio, all’interno di alcune frange della gerarchia ecclesiastica, la firma del Concordato apparve come il preludio all’avvento di uno Stato confessionale vagheggiato da tempo.
A tal proposito, come non ricordare il ruolo determinante di mediazione tra il governo fascista e la S. Sede che svolse efficacemente un esponente di spicco del regime proveniente dalla frangia nazionalista, Luigi Federzoni, proprio in occasione del processo di Conciliazione e di ratifica del Concordato. Difatti, l’11 gennaio 1927, così scriveva tra le pagine del suo diario commentando la visita di mons. Luigi Haver, della Congregazione di Propaganda Fide, a cui comunicò la posizione ufficiale del governo:
Del resto i rapporti tra la gerarchia cattolica e Federzoni erano sempre stati improntati ad una stima reciproca, tanto è vero che nelle fasi preliminari delle trattative per la Conciliazione si pensò subito di ricorrere al suo aiuto, contando sul fatto che aveva sempre svolto egregiamente fino ad allora il ruolo di interlocutore privilegiato del Vaticano con il governo guidato da Mussolini[2]. Quanto andiamo dicendo è suffragato ulteriormente da un altro episodio che si verificò tra marzo e luglio dell’anno precedente allorché Federzoni prese parte ai colloqui, organizzati in Vaticano per l’appunto da mons. Haver, con l’avvocato Pacelli e con il cardinal De Lai che si rivelarono in seguito proficui per l’incontro che si ebbe l’8 agosto 1926 tra il consigliere Domenico Barone e Pacelli, per l’avvio delle trattative per la Conciliazione[3].
Dal canto suo Mussolini, poteva cantare vittoria perché, come gli eventi successivi si incaricheranno di dimostrare, la sua strategia aveva colto nel segno, riuscendo laddove perfino lo Stato liberale aveva fallito, ovvero ad estendere la sua diretta influenza verso tutti quei settori popolari della società italiana rimasti, fino a quel momento, ancora ai margini della mobilitazione fascista.
Del resto, i frutti di questo tentativo di penetrazione capillare, si raccolsero in occasione della tornata elettorale del 24 marzo 1929, allorquando il listone fascista riscosse un vero e proprio plebiscito, che vide il clero in prima fila nel propiziare il consenso delle masse cattoliche, nonostante l’astensione proclamata dalla concentrazione antifascista e la propaganda ostile condotta strenuamente dai comunisti.
Come ha osservato lucidamente in proposito Pietro Scoppola, i cattolici diedero un considerevole apporto; in quella circostanza, infatti, numerosi vescovi italiani nelle loro esortazioni a parroci e a fedeli, misero da parte le tradizionali riserve di apoliticità. Pertanto, il 13 marzo 1929 la Giunta centrale dell’Azione Cattolica richiamò i suoi iscritti e tutti i cattolici al dovere di concorrere con il loro voto alla formazione della nuova assemblea che sarebbe stata chiamata a ratificare le convenzioni del Laterano rendendo possibile il perfetto adempimento di esse. Persino il Padre Enrico De Rosa, non esitò a sottolineare, dalle colonne dell’Avvenire d’Italia, che il voto dei cattolici costituiva un atto più che politico morale e religioso, destinato perciò a restare al di fuori e al di sopra di tutti i partiti.
Attraverso la stipulazione del Concordato, dunque, cominciava a prendere piede una tendenza di riconquista clericale della società che mirava ad incidere profondamente sulla mentalità e sul costume degli italiani. Il timore, mai sopito, di un’incombente offensiva bolscevica in effetti faceva apparire il fascismo, se non proprio un alleato, almeno un nemico più tollerabile, con l’auspicio di poterlo indurre a più miti pretese.
Non bisogna dimenticare, infatti, che la Conciliazione fu avviata e portata a termine proprio da due pontefici che, in qualità di Nunzio e Visitatore Apostolico – rispettivamente Achille Ratti a Varsavia nel 1920 ed Eugenio Pacelli a Monaco nel 1919 – avevano avuto l’opportunità di vedere da vicino gli sviluppi della rivoluzione proletaria, che aveva suscitato nel loro animo un sincero senso di ripulsa tramutato, in seguito, in manifesta diffidenza.
Evidentemente, in quel momento, la Chiesa sembrava non riuscire a percepire nitidamente gli sviluppi in senso totalitario ed espansionistico del fascismo e le scelte catastrofiche per l’intero Paese che sarebbero scaturite, di lì a poco, in virtù di quella politica tanto dissennata del suo capo supremo. Tuttavia, bisogna rilevare che anche in virtù della decisa presa di posizione della gerarchia ecclesiastica, il regime non riuscì ad esercitare sulla gioventù la sua influenza deleteria, assoggettandola nella sua propria sfera d’influenza.
Del resto, il pomo della discordia con la S. Sede si sviluppò proprio su questo terreno; per cui, di fronte allo scioglimento delle varie associazioni giovanili cattoliche, decretato dal governo fascista nel corso della primavera del 1931, il pontefice Pio XI non trovò di meglio che vietare le processioni ecclesiastiche sul territorio italiano, in segno di protesta, facendo pubblicare su l’Osservatore Romano, numerosi telegrammi di solidarietà provenienti da ogni parte del mondo. Questa reazione da parte della gerarchia cattolica culminò con l’enciclica intitolata Non abbiamo bisogno, recapitata dai nunzi alle cancellerie e pubblicata da l’Osservatore Romano il 5 luglio, nella quale Pio XI stigmatizzava l’ideologia fascista, giungendo persino ad apostrofarla col termine di statolatria pagana. La controversia si protrasse, in modo molto aspro, per alcuni mesi anche perché fu scatenata dal regime un’abbietta campagna anticlericale di inaudita ferocia, non soltanto verbale.
In questo periodo si affermò all’interno del P.N.F. la tendenza che non ammetteva più alcun margine di trattativa con il Vaticano; come risultava chiaro dalla seguente affermazione di Bruno Ricci, rivolta nei confronti del Papa:
Come ha rilevato giustamente in merito Pietro Scoppola,
Tuttavia, la goccia che fece traboccare il vaso fu un discorso pronunziato da Mussolini alla Camera subito dopo il Plebiscito del 24 marzo 1929, che suscitò la legittima indignazione del Vaticano, in quanto dava al Concordato un’interpretazione decisamente riduttiva, che la Chiesa certo non poteva accettare soprattutto laddove asseriva che
L’ipotesi paventata da alcuni cattolici moderati e fatta filtrare dagli ambienti vaticani, di accettazione dei valori gerarchici e nazionalistici della dittatura allo scopo di realizzare attraverso il fascismo un nuovo Stato cattolico, insospettì il capo della polizia Arturo Bocchini che, senza battere ciglio, corse ai ripari intensificando, a partire dal 1930, la sorveglianza poliziesca nei confronti del clero e delle varie organizzazioni cattoliche. Allo stesso tempo, sguinzagliò alcuni informatori con il compito di infiltrarsi all’interno dei circoli, nelle associazioni e finanche nel Consiglio Superiore della FUCI, al fine di far pervenire informazioni circa i sobillatori ostili al regime.
Non erano trascorsi neanche due anni dall’entrata in vigore dei Patti Lateranensi, allorché i fascisti scatenarono una poderosa offensiva – accompagnata spesso anche da deplorevoli episodi di efferata violenza – ai danni dell’Azione Cattolica, ritenuta responsabile di attuare un inquadramento dei lavoratori contrapposto a quello dei sindacati fascisti e di riciclare ai vertici del movimento i vecchi esponenti del Partito Popolare, che erano sempre rimasti ostili al regime.
In effetti, bisogna rilevare che proprio in quel periodo si era creato un pesante clima di tensione tra la S. Sede ed il regime, indotto, dapprima, dagli ideali propugnati dalla dottrina fascista, e poi per la lotta serrata intrapresa contro le associazioni di Azione Cattolica.
La crisi precipitò ulteriormente quando Mussolini decise di ordinare ai prefetti di decretare lo scioglimento coatto dei circoli cattolici della gioventù e delle federazioni universitarie, perseguendo finanche le loro sedi. Da quel momento in poi le squadre di fascisti diedero libero sfogo ai propri istinti beceri, saccheggiando e mandando letteralmente in fumo numerosi locali che ospitavano tali associazioni.
Anche le diocesi irpine non furono risparmiate da questi turpi episodi di cinica violenza, al punto che in una frazione del capoluogo irpino, si consumò un orrendo misfatto ai danni di un circolo cattolico. Ad Avellino, invece, la notte del 30 maggio, una settantina di studenti ed elementi fascisti dopo aver inscenato una protesta contro la S. Sede per le vie del centro, mentre si accingevano a compiere atti di violenza contro sedi cattoliche ed istituti religiosi, furono prontamente fermati dall’intervento della polizia.
Le intimidazioni, tuttavia, non accennavano a diminuire, al punto che il cronista col pretesto di custodire la comunità benedettina di Montevergine dalle intemperanze di qualche sovversivo, fu ordinato a due Carabinieri di presidiare l’Abbazia. Dopo una decina di giorni questa sorta di guardia d’onore fu addirittura raddoppiata, tanto che, svolgendosi in quei giorni presso il palazzo badiale di Loreto la conferenza annuale dei vescovi della regione beneventana, si colse subito l’occasione per inviare una lettera di solidarietà al Pontefice e un’altra «di dignitosa e forte protesta» al Duce, sottoscritte da tutti i vescovi presenti.
Ad ogni modo questi atti intimidatori ebbero l’effetto immediato di provocare una forte indignazione nel mondo cattolico, a cui seguì una vibrante protesta da parte della S. Sede. L’intervento del Pontefice, difatti, non si fece attendere e il 29 giugno del 1931, promulgò l’enciclica Non abbiamo bisogno che, tuttavia, contribuì a rendere il clima se possibile ancora più arroventato, rinfocolando le polemiche che non accennavano a diminuire. Nell’enciclica, infatti, si denunciavano senza mezzi termini le numerose vessazioni e i
In effetti, in polemica con la propaganda fascista, l’enciclica negava risolutamente il carattere politico dell’Azione Cattolica, confutando sia l’affermazione secondo la quale i suoi dirigenti provenissero dall’ex Partito Popolare, sia quella per cui l’attività delle stesse associazioni giovanili ed universitarie si esplicava in campi diversi da quello religioso e caritativo. Appariva chiaro che nessuno dei due contendenti intendeva recedere dalle sue posizioni. Fu a quel punto che si riuscì, provvidenzialmente, a trovare un escamotage che consentì di appianare ogni divergenza. L’intesa fu raggiunta in merito all’applicazione dell’articolo 43 del Concordato riguardante proprio l’Azione Cattolica, la quale, almeno formalmente, promise di dedicarsi esclusivamente a svolgere l’opera di apostolato religioso, ed a sostenere in campo politico, l’azione del governo fascista, al punto da impedire l’iscrizione tra le sue fila di coloro che avevano militato nel Partito Popolare allo scopo di annichilire la compagine sturziana ed allontanarla progressivamente dal Vaticano.
[1] Cfr. G. Padula, S. Francesco, Dante ed il Primo Ministro d’Italia, Avellino 1926. Il Vescovo Padula riteneva che la ricorrenza del 7° centenario della morte del Santo riceveva maggiore solennità «dall’amore del Primo Ministro d’Italia per il poverello d’Assisi», amore che, secondo il prelato avellinese, doveva essere così inteso: «Vuole il Duce menare la Nazione ad un alto grado di perfezione, ma non potendosi ottenere senza la grandezza individuale, sociale e religiosa dei soci (sic), ha scelto il santo per mostrarlo causa efficiente ed esemplare della triplice grandezza» (cfr, op. cit., cap. 4).
[2] Cfr. ARCHIVIO STORICO DELL’ISTITUTO DELLA ENCICLOPEDIA ITALIANA, Fondo “Luigi Federzoni, 1903 – 1987”, fasc. 59, L’archivio privato di Luigi Federzoni è stato donato, il 16 luglio 1996, dalla famiglia dell’ex gerarca fascista all’Istituto della Enciclopedia Italiana ed è conservato presso l’Archivio storico. La consistenza di questo fondo è di ben 116 fascicoli raccolti in 20 buste.
[3] Cfr. la lettera di Haver a Mussolini del 10 giugno 1929, in C.A. Biggini, Storia inedita della Conciliazione, Milano, Garzanti, 1942, pp. 78-79; F. Margiotta Broglio, Italia e Santa Sede dalla grande guerra alla Conciliazione. Aspetti politici e giuridici, Bari, Laterza, 1966, p. 135.
© Giovanni Preziosi, 2022
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