I bambini ebrei salvati dalle Suore del Redentore a Firenze e dalle Orsoline di S. Carlo e dall’Opera “San Raffaele” guidata da padre Anton Weber per conto di Pio XII. “Ricordo che appena accolti si dava loro un altro nome per conservare l’anonimato raccomandandoci di stare molto attente. Mi è rimasto nella memoria, in modo particolare, un maschietto di circa 4 o 5 anni, al quale si diede il nome di Giuseppe Dalmasso (…) accompagnato dalla mamma e dalla nonna alle quali furono fatti subito indossare i vestiti delle suore. Una notte, irruppe una pattuglia alla ricerca di ebrei nascosti. Rapidamente tutti i bambini furono radunati nella chiesa e la Madre con gentilezza, ma energicamente, convinse i tedeschi che i bambini presenti erano tutti orfani di famiglie cattoliche fiorentine”.
Il 27 gennaio del 1945 è una data destinata a restare scolpita nella memoria dell’umanità perché, proprio in quel giorno, le truppe sovietiche della Prima Armata del Fronte Ucraino agli ordini del maresciallo Ivàn Konev, mentre si accingevano a raggiungere Berlino, attraversando la Polonia, scoprirono le orribili nefandezze perpetrate dai nazisti nel lager di Auschwitz dove, nei forni crematori, trovarono la morte migliaia di ebrei rastrellati nei vari paesi d’Europa, in ossequio a quello scellerato piano criminale, varato il 20 gennaio 1942 nel corso della conferenza di Wannsee, che decretò la “soluzione finale del problema ebraico”.
Per impedire che l’incedere del tempo possa sbiadire i ricordi di questi avvenimenti e relegarli inesorabilmente nell’oblio, vari paesi, tra cui anche l’Italia, hanno deciso di rendere il doveroso omaggio a questa importante ricorrenza, istituendo il 27 gennaio “Giorno della Memoria”, in commemorazione delle vittime del nazionalsocialismo e del fascismo, della Shoah e in onore di tanti uomini e donne, laici e religiosi che, in spregio della loro vita, si prodigarono senza riserve per trarre in salvo migliaia di vite umane, ingiustamente perseguitate, vittime innocenti di un invasato assetato di sangue quale era Adolf Hitler.
Sono davvero tanti gli episodi struggenti che meritano di essere annoverati tra le pagine più importanti della nostra storia, come quelli che stiamo per raccontarvi attraverso i suggestivi ricordi dei protagonisti, dai quali traspare l’intenso pathos vissuto in quegli anni. All’indomani della dissoluzione del regime fascista, infatti, considerate le pressanti richieste che provenivano da ogni parte, le porte dei conventi e degli istituti religiosi furono letteralmente spalancate per accogliere quel folto stuolo di ebrei alla disperata ricerca di un rifugio sicuro per sfuggire alle ignobili retate dei nazisti.
Quanto andiamo dicendo trova puntuale conferma nei ricordi ancora vivi delle Suore di Gesù Redentore – meglio note allora col nome di “Suore del Patrocinio di San Giuseppe” – le quali accolsero nei loro istituti di Firenze e di Roma un gran numero di bambini e perfino alcuni adulti ebrei braccati dalla Gestapo. All’interno della casa fiorentina di via del Guarlone, infatti, gestita all’epoca dall’audace superiora Madre Rosaide Olando, la comunità accolse più di 130 bambini i quali, come riferisce l’ex Economa Generale suor M. Fernanda D’Eustachio, per maggiore precauzione perché
Per garantire la loro incolumità e non esporli al pericolo di essere scoperti, per precauzione la madre superiora aveva ritenuto opportuno non rivelare i loro nomi neanche alle altre consorelle, le quali riuscirono ad apprendere la vera identità dei loro ospiti soltanto qualche anno dopo, in occasione di una visita che il bambino con sua madre fecero alle suore in segno di gratitudine. Si trattava dell’attuale presidente uscente della Comunità ebraica di Firenze Guidobaldo Passigli che, con la madre Albana Mondolfi e la nonna materna Daria Modena, erano stati affidati alle amorevoli cure delle Suore del Patrocinio di San Giuseppe, dal Priore di Grassina don Dino Vezzosi, su precise disposizioni ricevute in precedenza dal cardinale Elia Dalla Costa.
Probabilmente la scelta cadde su questo istituto perché il priore conosceva una suora della comunità fiorentina che, in quel tempo, svolgeva una missione a Grassina. Seguendo scrupolosamente le indicazioni ricevute, il piccolo Guidobaldo con i suoi familiari, raggiunsero Rovezzano, un quartiere periferico di Firenze dove si trovava l’istituto religioso, a bordo dell’auto di un loro caro amico di famiglia, il prof. Plinio Guglielmetti, che si offrì di accompagnarli esponendosi anch’egli a seri rischi. Suor Marie-Thérèse Dupont, inoltre, riferisce che:
In tal modo, nell’intento di adempiere le direttive pontificie, secondo le quali tutti coloro che erano in pericolo dovevano essere presi sotto le ali protettive della Chiesa, indipendentemente dalla loro fede o dal loro colore politico, tanti religiosi e religiose, a rischio della propria vita, si adoperarono per sottrarre gli ebrei dalla deportazione nei lager nazisti nascondendoli all’interno dei propri monasteri, come del resto si evince chiaramente anche dalle cronache della comunità di Grottaferrata delle Figlie del Sacro Cuore di Gesù, in cui si riporta un particolare molto interessante. Il 5 febbraio del 1944, il Cappellano militare a Roma della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale, don Giancarlo Centioni, al termine della celebrazione Eucaristica che aveva appena presieduto, mentre spiegava il significato
Difatti, come egli stesso dichiarerà negli anni successivi, svolgendo questa funzione, divenne ben presto uno dei membri più attivi della rete clandestina allestita da Pio XII per salvare la vita agli ebrei perseguitati dai nazisti, avvalendosi della valida collaborazione dell’Opera “San Raffaele” – sorta in Germania come società di patronato degli emigranti tedeschi e poi estesa agli ebrei – di cui era referente padre Anton Weber che, a partire dal 1940, guidava il segretariato di Roma dagli uffici della Curia Generalizia dei Pallottini in via dei Pettinari 57. Fin dal 1940, infatti, su richiesta della Segreteria di Stato vaticana e del Vescovo di Osnabrück Hermann Wilhelm Berning – che dal 1931 era stato nominato anche Assistente al Soglio Pontificio – all’interno della Casa Generalizia dei pallottini era stata allestita, con grandi rischi soprattutto a partire dall’occupazione nazista di Roma, una filiale dell’Associazione di S. Raffaele dedita all’assistenza dei profughi, e diretta egregiamente da don Anton Weber (†1998) coadiuvato dal confratello di origini polacche don Stanisław Suwala (†1992). Lo scopo di questa associazione era quello di aiutare, a repentaglio della propria vita, i rifugiati di varie nazionalità, indipendentemente dalla lingua, dalla razza o dalla religione, e soprattutto ebrei e polacchi.
In questo meticoloso lavoro per agevolare l’espatrio degli ebrei, era coadiuvato dal rev. Gottfried Melcher – che si occupava di allacciare i contatti con i vari uffici e consolati per procurarsi i documenti necessari – e, saltuariamente, da altri due confratelli. Grazie al denaro ed ai passaporti che la Segretaria di Stato di Sua Santità, per nome e per conto di Pio XII, mise a sua disposizione, riuscì a far emigrare ben 1.500 ebrei di nazionalità tedesca, polacca, austriaca e jugoslava.
Quanto andiamo dicendo è suffragato da una circostanziata lettera inviata al pontefice, il 2 settembre 1944, proprio da padre Weber, nella quale si legge:
Dell’aiuto di questa eccellente rete assistenziale si avvalse anche il vescovo di Campagna, mons. Giuseppe Maria Palatucci, zio del celebre reggente della questura di Fiume Giovanni Palatucci che, proprio in quel periodo, si trovò a lavorare gomito a gomito con l’Opera “San Raffaele”(Raphaelsverein), come emerge in modo incontrovertibile da alcune lettere contenute nel suo archivio personale. Il 4 febbraio 1941, infatti, il presule francescano si rivolse al solerte sacerdote pallottino per intercedere a beneficio di alcuni internati di origine ebraica nel campo di Campagna:
Emblematico in tal senso appare il caso di Sigismondo Hirsch che, attraverso i buoni uffici del rettore del seminario regionale di Salerno, mons. Domenico Raimondi, al quale era stato segnalato dai monsignori della diocesi genovese Costa e Giacomo Moglia, il 14 settembre del 1940, mediante una circostanziata missiva si presentò a mons. Palatucci spiegando che in passato aveva avuto modo di allacciare «un legame compatto con il grande Padre Semeria» e
Nel frattempo, però, Sigismondo Hirsch era riuscito a racimolare la somma necessaria di cui aveva bisogno dagli ebrei di New York ragion per cui, il 10 ottobre, si affrettò ad informare le persone precedentemente coinvolte, scrivendo finanche una lettera all’arcivescovo di Genova Pietro Boetto, nella quale, facendo appello alla sua generosità, spiegava che a quel punto era sorto però un altro problema: per ottenere il visto d’imbarco il Banco Central do Ecuador aveva, infatti, richiesto il deposito di una cauzione che ammontava alla ragguardevole cifra di 400 dollari.
È a questo punto che, per sbrogliare questa intricata vicenda, entra in scena padre Anton Weber, al quale pensò di rivolgersi mons. Palatucci ben sapendo quanto determinante si stava rivelando l’Opera “San Raffaele” per agevolare l’espatrio degli ebrei.
La risposta di padre Weber non si fece attendere, tant’è che il 29 ottobre successivo, si affrettò a rassicurare mons. Palatucci facendogli pervenire una missiva nella quale dichiarava che:
Come si può constatare non si trattò affatto di casi sporadici o circoscritti a particolari zone geografiche ma, in realtà, quest’opera di autentica carità finì per essere adottata anche da tanti altri religiosi e religiose, tra le quali conviene annoverare anche le Orsoline di S. Carlo, le quali si adoperarono con tanta abnegazione per trarre in salvo gli ebrei ospitati nei loro collegi di Como e di Porlezza che, trovandosi proprio in prossimità del confine svizzero, si rivelavano congeniali per agevolare la fuga in caso di pericolo.
Non va dimenticato, infatti, che per dissuadere il Vaticano ed i vari istituti religiosi ad accogliere fra le loro mura queste persone, il capo della Gestapo, Herbert Kappler, non aveva esitato a ricorrere alle minacce più spregevoli emanando un apposito decreto che prevedeva addirittura la pena di morte per coloro i quali avessero nascosto gli ebrei. Pertanto, considerati i frequenti controlli da parte dei nazi-fascisti, anche negli istituti delle Orsoline, di tutti questi episodi non si trova traccia tra le pagine delle cronache, perché a quel punto proprio per salvaguardare l’incolumità dei loro “ospiti”, le suore ritennero opportuno mantenere il più stretto riserbo, tant’è che di quest’opera di assistenza clandestina ne erano a conoscenza soltanto la Madre Superiora e poche altre consorelle.
Dai racconti davvero molto suggestivi delle suore apprendiamo, infatti, che furono ospitate, sotto mentite spoglie, nei loro collegi di Como e di Porlezza alcune persone ingiustamente perseguitate per ragioni razziali, le quali poi furono aiutate perfino ad espatriare, come nel caso di Maria, una giovane ebrea probabilmente di origine rumena, accolta nel 1944 presso il collegio di Como. Tuttavia, poiché in quel luogo erano ospitate anche le figlie di alcuni gerarchi, il controllo era diventato talmente asfissiante che, alla fine, indusse le suore a trovare alla giovane ebrea un rifugio più sicuro, aiutandola a fuggire in Svizzera attraverso gli impervi sentieri montuosi.
Inoltre, dai ricordi di suor M. Cesarina Volpato, a quel tempo probanda, si apprende che, prima a Porlezza e poi a San Mamete, sul lago di Lugano, la Preside, Madre Chiarina Braito, sprezzante del pericolo a cui andava incontro, accolse un’altra giovane ebrea milanese, tale Nella L., che dal 1940 al 1944 frequentò con buon profitto il 1° e il 2° Liceo Artistico privato delle Orsoline di via Lanzone 53, dopo essere stata espulsa dalle scuole statali in seguito all’emanazione delle vituperanti leggi razziali.
Tuttavia, in seguito ai danni cagionati dai bombardamenti, il 24 ottobre 1942, la scuola da Milano fu costretta a trasferirsi dapprima a Porlezza, dove fu ospitata – dal 1942 al 1943 – nei locali dell’albergo Rezzo e successivamente, tra il 1943 e il 1945, a S. Mamete presso l’albergo Stella d’Italia, sempre sulle rive del Lago di Lugano. Nella, però, non seguì subito le sue compagne perché allora gli spostamenti si rivelano molto pericolosi a causa della feroce caccia agli ebrei sferrata dai nazisti.
Nel frattempo la situazione per gli ebrei a Milano si era ulteriormente aggravata e i genitori di Nella, ben conosciuti in città, nel timore di essere acciuffati dai tedeschi, con mezzi di fortuna, in una rigida notte d’inverno, decisero di raggiugere la figlia a S. Mamete Valsolda, dove rimasero in incognito per alcuni giorni in una camera dell’albergo che Madre Chiarina Braito aveva fatto preparare per loro.
Difatti, il paese era sotto stretta sorveglianza, proprio perché zona di confine con la Svizzera, per cui la faccenda cominciava a diventare davvero rischiosa al punto che, verso il Natale del ’44, Madre Chiarina Braito, insieme alle altre consorelle, predispose un ardimentoso piano di fuga. La fase operativa di questa delicata missione fu affidata a sr. M. Ermenegilda Croce, che aveva avuto modo di allacciare buoni rapporti con la popolazione locale perché faceva lezione ai piccoli di S. Mamete la quale, con l’ausilio di alcune persone fidate, organizzò il passaggio della frontiera elvetica, che avvenne in una notte prima di Natale, con l’ausilio degli “spalloni”, inerpicandosi attraverso i sentieri montuosi circostanti.
Questo audace piano, per fortuna, alla fine andò in porto tant’è che, dopo alcuni giorni, giunsero buone notizie e le suore poterono, finalmente, tirare un lungo sospiro di sollievo apprendendo che erano ormai al sicuro in una località elvetica.
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