Nel libro dell’archivista del Vaticano Johan Ickx è rivelato il ruolo di Papa Pacelli durante la seconda guerra mondiale, che “non era all’oscuro ma al vertice di rete di aiuti” a beneficio degli ebrei, come emerge dalla testimonianza fornita qualche anno fa da don Giancarlo Centioni e nel carteggio del vescovo di Campagna mons. Giuseppe Maria Palatucci.
Da quest’oggi è in libreria il volume dal titolo “Pio XII e gli ebrei” scritto da Johan Ickx, che da più di due decenni lavora negli archivi della Santa Sede, e oggi dirige l’Archivio Storico della Sezione per i rapporti con gli Stati della Segreteria di Stato. Affidandosi alle sole testimonianze documentali, ricostruisce, con dovizia di particolari, le principali vicende che videro protagonisti Pacelli e i suoi più stretti collaboratori del celebre Bureau, smontando lo stereotipo secondo il quale Pio XII fosse all’oscuro, o nella peggiore delle ipotesi addirittura omertoso rispetto all’orrore dei campi di concentramento e complice dei nazisti, mentre a quanto secondo quanto emerge dai documenti – al contrario – sarebbe stato al vertice di una complessa e ramificata rete di aiuti a beneficio degli ebrei e di altri rifugiati.
Come scrive Matteo Luigi Napolitano nella sua recensione apparsa nell’edizione di ieri del quotidiano della S. Sede “L’Osservatore Romano”:
“Questo volume apre una nuova stagione di studi sul pontificato di Pio XII, con uno spaccato di quello che Ickx chiama Le Bureau (titolo dell’edizione francese del libro), ossia la prima Sezione della Segreteria di Stato responsabile non solo dei rapporti internazionali ma anche, in via sempre più densa e drammatica, delle vicende dei moltissimi ebrei che nel corso della seconda guerra mondiale si rivolsero al Vaticano per ottenere aiuto, sostegno, consiglio e protezione”.
Dunque, la triste – e per certi aspetti perfino invereconda – stagione del j’accuse che, più o meno ciclicamente, emerge qua e là intorno alla figura di Papa Pacelli, sembra ormai volgere al termine, anche perché queste carte cercano di fare finalmente chiarezza sul ruolo che effettivamente svolse in quegli anni convulsi, contribuendo a suffragare del resto quanto emerso negli anni scorsi in altri studi specifici.
Difatti, come si evince dai documenti compulsati da Ickx in questo volume, molti particolari sembrano collimare perfettamente anche con quanto scrivevamo in un dettagliato articolo pubblicato su “Vatican Insider-La Stampa” il 19 giugno 2015 che, auspicando di fare cosa gradita ai nostri lettori, riportiamo integralmente qui di seguito.
Nel settembre del 2008 il sacerdote pallottino don Giancarlo Centioni scrisse un interessante memoriale, ripreso anche in un’intervista televisiva, nel quale rivelò tutti i particolari della rete di assistenza clandestina a beneficio degli ebrei, denominata St. Raphaels-Verein (Opera S. Raffaele) – un’organizzazione cattolica sorta in Germania nel lontano 1871 come società di patronato dei migranti e dei rifugiati tedeschi e poi estesa anche agli ebrei – di cui era referente a Roma p. Anton Weber che, dal suo quartier generale di via Pettinari 57, si muoveva in perfetta sinergia con la Segreteria di Stato di Sua Santità, nell’intento di adempiere le direttive pontificie, secondo le quali tutti coloro che erano in pericolo dovevano essere presi sotto le ali protettive della Chiesa, indipendentemente dal loro colore politico e dalla loro fede religiosa. Difatti, come sottolinea il segretario di Stato Maglione in una lettera inviata il 6 febbraio 1941 all’arcivescovo di Vienna mons. Innitzer, appena
«iniziò, in alcune Nazioni, la politica “razzista” (…) per cercare di lenire sempre più siffatte sofferenze, la Santa Sede caldamente raccomandò e favorì la costituzione, sia in Europa sia nelle Americhe, di Comitati nazionali cattolici di soccorso (…). Sua Santità, (…) per favorire detta emigrazione, ha benevolmente messo a disposizione della direzione del menzionato “Raphaelsverein” dollari trentamila. Inoltre, allo stesso fine, sono state fatte le necessarie pratiche affinché dai Governi Spagnuolo e Portoghese non si facciano difficoltà per l’eventuale passaggio dei profughi diretti al Brasile».
Pertanto, in ossequio a questa direttiva, diversi religiosi e religiose in quel periodo, mettendo a repentaglio la propria vita, si adoperarono per sottrarre gli ebrei al loro triste destino, nascondendoli all’interno dei propri monasteri, come del resto si evince chiaramente anche dalle cronache della comunità di Grottaferrata delle Figlie del Sacro Cuore di Gesù, guidata all’epoca da sr. Salesia Galamini, in cui si riporta un’interessante riflessione sulla pregevole attività di questa rete segreta proprio di don Giancarlo Centioni che, dal settembre ’43 al marzo ’44, fu richiamato a Roma dall’Ordinario Militare mons. Angelo Bartolomasi, per ricoprire l’incarico di Cappellano della G.N.R. presso la Caserma «Mussolini» in via Baiamonti e presso quella “Pastrengo” dei Carabinieri dopodiché, fino alla liberazione della capitale, fu trasferito presso la caserma dell’81° Reggimento Fanteria in viale Giulio Cesare, dove venivano raccolti gli ebrei e le altre persone rastrellate, i primi per essere deportati in Germania, e gli altri per essere avviati nelle retrovie del fronte per la costruzione delle fortificazioni. Il 5 febbraio del 1944, infatti, al termine della celebrazione Eucaristica, che aveva appena presieduto nella cappellina delle suore, mentre spiegava il significato
«del martirio di Sant’Agata, vedendo dei signori ed altre persone ospitate (dalle religiose) encomiò l’opera di carità che compiono in questi giorni le Suore e i Monaci, che aprono le porte della clausura per accogliere coloro che hanno bisogno di rifugio».
In realtà, come egli stesso dichiarerà negli anni successivi, alloggiando nello stabile attiguo alla Casa Generalizia dei Pallottini in via dei Pettinari 57, ebbe l’occasione di allacciare i primi contatti con il referente romano dell’Opera San Raffaele e con i sacerdoti della Società del Verbo Divino di Roma, divenendo in tal modo uno dei membri più attivi di questa rete clandestina di cui, a partire dal 1940, era responsabile il tedesco P. Anton Weber coadiuvato dal rev. Gottfried Melcher – a cui era affidato il compito di allacciare i contatti con i vari uffici e consolati per procurarsi i documenti necessari – e da altri due confratelli. Oltre che a Roma i punti nevralgici di questa rete segreta che, grazie anche al provvidenziale aiuto del responsabile dell’ufficio politico della questura capitolina Romeo Ferrara agevolava l’espatrio degli ebrei, si trovavano ad Amburgo ed a Lisbona dove operavano, rispettivamente, il segretario generale P. Alexander Menningen e il polacco P. Woicjech Turowski. Una delle principali attività svolte in quel periodo consisteva nel procurare passaporti e denaro alle famiglie ebree braccate dai nazistifascisti per agevolarne la fuga negli Stati Uniti e nei Paesi dell’America del Sud attraverso la Penisola Iberica. Difatti P. Weber aveva spesso contatti diretti persino con lo stesso pontefice e la Segreteria di Stato di Sua Santità che gli forniva il denaro e i passaporti di cui aveva bisogno per consegnarli agli ebrei che desideravano espatriare proprio attraverso don Giancarlo Centioni che, in virtù delle funzioni che svolgeva allora, godeva di una certa libertà di movimento. Come ricorda egli stesso in quel periodo ricevette «numerosi incarichi di portare denaro in nome e per conto della Santa Sede, della Croce Rossa Internazionale e, attraverso il P. Weber, a tante famiglie ebraiche in Roma e dintorni. (…) Il denaro ed i passaporti venivano dati a queste famiglie ebree da padre Weber che li otteneva direttamente dalla Segreteria di Stato di Sua Santità in nome e per conto di Pio XII». Tra le famiglie ebree che beneficiarono di questi aiuti, don Centioni ne ricorda alcune: Andrea Maroni e Zoe Imavein, il prof. Melchiorre Gioia, il prof. Aroldo Di Tivoli, la famiglia del violinista Tagliacozzo con la moglie Cohen, il sig. Ghiron e il dott. Vincenzo De Ficchy, che riuscirono a sfuggire ai loro aguzzini raggiungendo gli Stati Uniti proprio grazie ai passaporti forniti dal Vaticano. Altri, come il prof. Van der Reis, direttore dell’Ospedale di Danzica, ed il celebre maestro di musica Erwin Frimm Kozac, furono nascosti da don Centioni proprio presso la Casa Generalizia dei Pallottini e nel complesso edilizio di via Giuseppe Ferrari. Questa audace opera, in effetti, fu agevolata anche dalle provvidenziali reti informative di cui gli ineffabili sacerdoti pallottini si avvalevano in quel periodo grazie ai contatti allacciati con alcuni funzionari della Questura di Roma che, appena fiutavano il pericolo di arresti imminenti disposti ai danni degli ebrei, immediatamente mettevano al corrente i religiosi segnalando il grave rischio che incombeva su di loro, in modo che gli interessati potessero essere preventivamente avvertiti e mettersi rapidamente in salvo. «ln particolare – ricorda nel suo memoriale don Centioni – si prodigarono, in tal senso, il vice Questore di Roma, il dr. Romeo Ferrara, il dott. Pennetta, il dott. Barletta, il dr. Fiori ecc. Grazie al primo, poterono sfuggire alla cattura i componenti della famiglia Bettoja. Di notte, sulla base delle indicazioni proprio del dott. Ferrara, raggiunsi la loro abitazione nei pressi di Piazza Ungheria; li avvertii dell’imminente pericolo e rilasciai ad essi un salvacondotto, mediante il quale poterono allontanarsi da Roma. (Una delle loro figlie, Franca, divenne poi la moglie di Ugo Tognazzi). Grazie, invece, al dott. Fiori, riuscii ad impedire la cattura del già nominato Maestro Frimm Kozac».
La rete clandestina di aiuto agli ebrei di Pio XII svelata da uno dei membri di questa rete quando era ancora in vita: si tratta del sacerdote italiano Giancarlo Centioni.
Inoltre, in un memoriale scritto di suo pugno il 18 aprile 2010 don Centioni aggiunge: «ricordo che nell’anno 1943 la nostra Comunità di Via dei Pettinari (…) ha accolto e nascosto, tra gli altri, per almeno due mesi, la famiglia ebrea Pavoncello, composta allora dal padre sig. Angelo, dalla moglie sig.ra Tagliacozzo Speranza e dai figli Settimio, Margherita, Pacifico, Alberto, Peppino e Fiorella. Successivamente sono stati separati e sono stati nascosti singolarmente in altri luoghi. Dichiaro, inoltre, che il sig. Pacifico, allora ragazzo, arrestato in piazza Fiume e portato prima a Via Tasso, poi nel carcere di Regina Coeli e infine nella Caserma dell’81a Fanteria, e stato lì salvato dal mio confratello P. StanisIao Suwala», consultore generale dei pallottini che in incognito faceva di tutto per aiutare gli ebrei a sfuggire ai loro aguzzini.
Grazie ai passaporti ed al denaro – 3.000 dollari, 1.895.000 escudos e 3.100.000 lire – che la Segretaria di Stato di Sua Santità, per nome e per conto di Pio XII, mise a sua disposizione, tra il 1940 e il 1944 P. Weber delle 25.000 persone assistite riuscì a far emigrare ben 1.500 ebrei di nazionalità tedesca, polacca, austriaca e jugoslava. Quanto andiamo dicendo è suffragato da una missiva inviata al pontefice, il 2 settembre 1944, proprio dal direttore di questa organizzazione nella quale si legge: «questa opera fu possibile soltanto grazie alla protezione e al valido aiuto della Santa Sede (…) e prima di ogni altro alla persona di Sua Santità, che con cuore paterno è venuta in aiuto della opera nostra. (…) Subito dopo rivolgiamo il nostro pensiero all’Istituto “Opere di Religione” senza la cui efficace, pronta, e generosa assistenza il problema finanziario della assistenza ai profughi non si sarebbe mai potuto risolvere».
Dell’aiuto di questa eccellente rete assistenziale si avvalse, tra gli altri, anche il vescovo di Campagna, mons. Giuseppe Maria Palatucci, zio del celebre reggente della questura di Fiume Giovanni Palatucci che, proprio in quel periodo, si trovò a lavorare gomito a gomito con l’Opera San Raffaele, come del resto emerge da alcune lettere contenute nel suo archivio personale. Il 4 febbraio 1941, infatti, il presule francescano si rivolse a padre Weber per intercedere a beneficio di alcuni internati di origine ebraica che si trovavano nel campo di Campagna:
«Prendo occasione – scriveva mons. Palatucci – di un mio sacerdote che viene a Roma, il Rev.mo Can. Gibboni, e Vi mando l’elenco di alcuni internati che desiderano che Voi vediate se può farsi qualche cosa per le loro pratiche di immigrazione».
Emblematico in tal senso appare il caso di Sigismondo Hirsch che, attraverso i buoni uffici del rettore del seminario regionale di Salerno, mons. Domenico Raimondi, al quale era stato segnalato dai monsignori della diocesi genovese Costa e Giacomo Moglia, il 14 settembre del 1940, mediante una circostanziata missiva si presentò a mons. Palatucci spiegando che in passato aveva avuto modo di allacciare «un legame compatto con il grande Padre Semeria» e «l’onore di poter accompagnare il defunto ecc.mo Rabbino Dr. (Alessandro) Da Fano di Milano presso Sua Santità Pio XI», che lo ricevette in udienza privata in più di una circostanza, in virtù della sincera amicizia che li legava fin dai tempi in cui l’allora prefetto Achille Ratti, insegnava ebraico presso il seminario ambrosiano. Fu così che in seguito, per la precisione il 15 settembre successivo, Sigismondo Hirsch – con la moglie, internata a l’Aquila, ed i figli Bernardo e Giulio – grazie all’intervento del vescovo di Campagna presso il Ministero dell’Interno, nonché del Questore di Salerno comm. Palma e del commissario De Paoli, riuscì ad ottenere il nulla osta ed i passaporti per l’espatrio in Ecuador.
Di conseguenza, il 24 settembre di quello stesso anno, mons. Palatucci decise di rivolgersi alla Segretaria di Stato della S. Sede per procurarsi il denaro necessario per questo viaggio, assicurando che si trattava «di un ebreo retto e di coscienza e dà affidamento della sua parola». Nel frattempo, però, Sigismondo Hirsch era riuscito a racimolare la somma necessaria di cui aveva bisogno dagli ebrei di New York ragion per cui, il 10 ottobre 1940, dal campo d’internamento di Campagna scrisse una nuova lettera all’arcivescovo di Genova Pietro Boetto, facendo appello alla sua generosità allo scopo di essere aiutato per il deposito della cauzione di 400 dollari presso il Banco Central do Ecuador «necessario per ottenere il visto».
È a questo punto che entra in gioco padre Weber, allorché per procurarsi questa somma di denaro mons. Palatucci decise di rivolgersi proprio a lui ben sapendo quando stava facendo per altri bisognosi.
«Il sig. Sigismondo Hirsch – scriveva, infatti, il 15 ottobre 1940 il vescovo di Campagna – mi ha detto che ha scritto una lettera a Voi e un’altra anche al Card. Boetto per ottenere che gli sia concesso un prestito di 400 dollari per ottenere il passaporto per l’Equatore, poiché dagli ebrei di America ha ottenuto il denaro per i biglietti di viaggio. Da parte mia già avevo raccomandato la cosa alla Segreteria di Stato di S.S., ma finora non ho ricevuto risposta in proposito. Ecco perché ben volentieri vi raccomando la preghiera del sig. Hirsch, che mi pare dia grande affidamento di serietà».
La risposta di padre Weber non si fece attendere, tant’è che il 29 ottobre successivo, si affrettò a rassicurare mons. Palatucci facendogli pervenire una missiva nella quale dichiarava che «anche per il Sig. Hirsch siamo occupati di fare tutto il possibile. Lui è venuto proprio oggi dal Campo di Concentramento a Roma».
Questo, in realtà, non fu l’unico caso che mons. Palatucci segnalò all’Opera San Raffaele. Il 21 ottobre 1940, infatti, si era rivolto al sacerdote pallottino per caldeggiare anche la pratica della signora Gertrud Neumann e di suo marito Vittorio Wolffsohn, internato a Campagna, che avevano intenzione di emigrare in Brasile. In seguito, il 21 agosto 1942, mons. Palatucci scriveva ancora una volta a P. Weber per perorare la causa del commerciante ebreo di origini polacche Abraham Gleitmann allo scopo di «facilitargli l’emigrazione nel senso che egli ha spiegato. Certo, è una grande opera di carità, e se potete farla, fatela quanto meglio e quanto più presto è possibile, poiché mi pare che sia un uomo degno di essere accontentato».
La risposta non si fece attendere, tant’è che il 29 agosto successivo, confermando di aver ricevuto la lettera del sig. Gleitmann, il sacerdote pallottino, replicava assicurando
«faremo tutto il possibile di fargli avere il visto per la Spagna. Vi preghiamo V. Eccellenza Rev.ma umilmente di fare arrivare la lettera acclusa al sig. Gleitmann, che lo informa di tutti i passi, i quali bisogna fare per avere il visto spagnuolo».
Poi fu la volta dell’ing. Walter Graetzer, un altro ebreo internato a Campagna desideroso di emigrare in Venezuela che, il 15 maggio del 1941 – su consiglio del Nunzio Apostolico in Italia Francesco Borgongini Duca e in virtù di una raccomandazione di mons. Palatucci – si rivolse al referente romano dell’Opera S. Raffaele per procurare alla «moglie Margarethe Bogner attualmente a Vienna (…) un posto presso una buona famiglia a Roma», in modo da ritrovarsi insieme al momento del loro trasferimento in Venezuela o in Cile visto che, proprio in quel periodo, stavano favorendo l’immigrazione di ingegneri e tecnici. Di questo se ne occupò ancora una volta il solerte presule francescano il quale, subito dopo aver appreso che il R. Consolato Italiano a Vienna le aveva rilasciato il visto d’ingresso, il 14 marzo 1942 si affrettò a scriverle per rassicurarla che
«durante il vostro (…) soggiorno in Italia troverete alloggio e vitto qui a Campagna nel convento di queste Suore, in modo che non avete bisogno di provvedervi di divisa estera».
Inoltre, tra le centinaia di documenti custoditi nell’archivio di mons. Palatucci, risalta anche il carteggio con P. Anton Weber per ottenere dei visti per un Paese del Sud-America, come nel caso del profugo di guerra di origini polacche Antonio Iwanicki – che era stato separato dalla moglie e dai figli deportati, rispettivamente, in Siberia ed ai lavori forzati nelle miniere del Kazakistan – del tedesco Hans Heimann con la madre Helene Weiss che avevano espresso il desiderio di trasferirsi in Brasile, dell’ingegner Wilhelm Feith, Enrico Kniebel, Alessandro Gottlieb, Walter Graetzer e Giorgio Pionkowski che aveva «ottenuto la promessa certissima dal Consolato di Genova che gli daranno un “visto” per l’Ecuador a lui e alla madre di lui attualmente internata a Lagonegro (Potenza)».
Sussidio di £ 5.000 elargite da Pio XII a beneficio degli ebrei internati a Campagna.
Altro sussidio di £ 3.000 concesso a mons. Palatucci da Pio XII per gli ebrei di Campagna.
Come si evince chiaramente da quanto vi abbiamo fin qui raccontato, l’impegno in prima linea della S. Sede e di tanti religiosi e religiose in questa catena di solidarietà, non fu nel modo più assoluto qualcosa di sporadico e localizzato in zone particolari, ma rappresentò, al contrario, un atteggiamento diffuso e ben ramificato che si estendeva in tutto il territorio nazionale collegando tra loro anche varie diocesi.