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LA FUGA DI KAPPLER DALL’OSPEDALE MILITARE DEL CELIO

Nella notte tra il 14 ed il 15 agosto 1977, l’ex ufficiale nazista tagliò la corda dall’ospedale militare del Celio, dove era stato ricoverato il 12 marzo del 1976 con un apposito decreto emanato dall’allora ministro della difesa Arnaldo Forlani, grazie al provvidenziale aiuto fornitogli dalla moglie frau Annelise Wengler.

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Tribunale militare: Kappler davanti alla giustizia – La settimana Incom 00151 del 05/05/1948 (Archivio Luce Cinecittà)

Kappler era nato a Stoccarda il 23 settembre 1907 in una famiglia della classe media. Durante la sua infanzia fu testimone della prima guerra mondiale e divenne maggiorenne nella Repubblica di Weimar negli anni ’20. In seguito frequentò per quattro anni la scuola elementare e poi per altri quattro le superiori. Dopo i suoi studi ginnasiali si iscrisse alla facoltà di ingegneria che tuttavia abbandonò in seguito perché attratto dalla carriera nella Polizia scientifica. Successivamente frequentò l’Università Tecnica di Stoccarda ove trascorse sette semestri a studiare ingegneria elettrica. Nel 1929 era un elettricista certificato, che viveva ancora a Stoccarda ed iniziò a lavorare in aziende più o meno grandi dell’industria meccanica ed elettrica del Württemberg.

La carriera nella Schutzstaffel (SS)

Herbert Kappler e Leonore Janns

Il 29 settembre del 1934 sposò la ventisettenne Leonore Wilhelmine “Minna” Janns, nativa di Heilbronn, dattilografa nell’ufficio del partito nazista a Stoccarda. e andarono a vivere in un appartamento in Kurzestrasse 15 a Tübingern prima di trasferirsi a Stoccarda in Reutlingerstrasse 98. Basso di statura, faccia ossuta, occhi penetranti color del piombo, poco amato dai suoi colleghi ma con due doti essenziali – intelligenza rapida e memoria eccezionale – Kappler aveva una vita privata poco felice: la moglie, infatti, lo tradiva e non intendeva avere figli. Il loro matrimonio, infatti, ben presto si rivelò estremamente freddo e privo d’amore al punto che finiva per essere compromessa perfino la carriera di Kappler nelle SS se fosse rimasto senza figli. Per questo motivo decisero di adottare Wolfgang, un fanciullo iscritto presso la Lebensborn, uno dei diversi programmi avviati dal gerarca nazista Heinrich Himmler per realizzare le teorie eugenetiche del Terzo Reich sulla razza ariana dove bimbi “sperimentali” venivano procreati da tedeschi di puro sangue ariano. Kappler disprezzava sua moglie e cercò di divorziare da lei.

Il ruolo della sua “amante” e assistente Helene Lousie Ten Cate Brouwer

La sua amante, Helene Brouwer, una donna olandese, era stata addestrata allo spionaggio presso la scuola SD nei Paesi Bassi. Arrivò a Roma con Kappler apparentemente per servire come sua assistente personale presentandola nelle vesti della sua governante. Ma chi era in realtà questa donna?

Helene Lousie Ten Cate Brouwer

Helene Lousie Ten Cate Brouwer era nata il 27 ottobre 1914 ad Alphen aan de Rijn una città dell’Olanda Meridionale. Veniva da una famiglia protestante di spicco. Suo padre, Dirk ten Cate Brouwer, era il direttore di “Het Tegelhuis”, una società commerciale nel campo delle piastrelle da rivestimento e da pavimento. Era un gentiluomo molto apprezzato. Dopo l’invasione tedesca Helene Louise si unì alla resistenza ma, il 25 settembre 1941, fu arrestata e condotta all’Oranjehotel di Scheveningen per essere interrogata da Lahr. In un primo momento, si rifiutò di parlare e fu messa in isolamento (Einzelhaft). Il 2 novembre 1941 dovette essere processata dal tribunale penale di Amsterdam. Lì, fu condannata a morte per spionaggio. Tuttavia, nel gennaio 1942 scrisse una lettera al tribunale penale in cui dichiarava che, riguardo agli sviluppi del fronte orientale, le sue idee politiche avevano preso una svolta e che da quel momento in poi avrebbe voluto offrire i suoi servizi all’intelligence tedesca.

Di conseguenza, divenne una V-Frau, una spia e un’informatrice. A causa di ragioni poco chiare, per quattro mesi fu sotto la supervisione del Kriminalrat Schreider e del suo capo il Befehlshaber der Sicherheitspolizei und des SD Wilhelm Harster. Nell’agosto del 1943, sei mesi dopo il suo ritorno nei Paesi Bassi, fu accettata nel programma di addestramento per spie e agenti segreti al servizio della Germania presso la cosiddetta Agenten Schule West, che si chiamava Seehof a L’Aia, dove imparò a sparare, segnalare, sabotare e cavalcare un cavallo. Si imbatté in un volto familiare di Alphen aan de Rijn, Jan Jacobus Bate Sprey, che si rivelò essere l’ufficiale comandante del programma. Helene Louise fu addestrata a Seehof come telegrafista.

Il 3 agosto 1943 la Brouwer ricevette un passaporto di copertura con il nome di Anneke van Tuyll. Poi, il 14 settembre ricevette un visto per la Germania e il 23 settembre dello stesso anno ne ricevette uno per l’Italia, dal console a Vienna. Avrebbe operato sotto almeno tre pseudonimi: De Bruyn, Anneke van Tuyll o Gerda Hoffmann. Nel suo lasciapassare firmato da Befehlshaber der Sicherheitspolizei und des SD Herbert Kappler a Roma affermava: “Frl. Anneke van Tuyl è impiegata dalla Sicherheitspolizei e dalla SD”.

Helene Louise lasciò i Paesi Bassi il 23 ottobre 1943. Rimase a Berlino per tre o quattro giorni, all’Hotel Kaiser, sotto il suo pseudonimo De Bruyn. Conosceva già Kappler, che era lì a prepararsi per il suo viaggio in Italia. Helene Louise era già accompagnata dall’aiutante di Kappler, Bohm. E così andò a prenderla al centro telegrafista Havelinstituut di Wannsee, dove fu ulteriormente addestrata come telegrafista.

Il 2 o 3 novembre 1943, Helene Louise arrivò a Verona in treno, insieme a Bohm e trovarono alloggio insieme in una locanda chiamata Albergo Colombo d’Oro che fu requisita dal personale delle SS locali. Rimase a Verona per tre settimane. Nella sede della SD era ospitato anche l’ufficio del Befehlshaber der Sicherheitspolizei und des SD per tutta l’Italia Wilhelm Harster.

Helene Louise e Bohm partirono da Verona per Roma, dove Helene lavorò come segretaria di Herbert Kappler nel suo ufficio. Scriveva i messaggi che arrivavano dal telex e dalle macchine per i codici. Non trascorse molto tempo che divenne l’amante di Kappler e rimase profondamente colpita dalla superiorità della Gestapo, dalla macchina da guerra tedesca, dal potere e dalla ricchezza, al punto che conduceva una vita lussuosa ed era molto stimata dai suoi colleghi.

Con gli alleati che avanzavano, Kappler abbandonò Roma lasciando la giovane assistente come agente di supporto dietro le linee nemiche col compito di inviare informazioni di natura militare e politica ai suoi superiori. Tuttavia, dopo la liberazione della capitale, Helene Louise si consegnò volontariamente agli alleati il 6 giugno 1944. Ma era solo una copertura. Fu lasciata indietro come parte dell’Informations-Netz, una rete di telegrafisti che inviavano messaggi all’esercito tedesco da dietro le linee nemiche. In primo luogo, doveva guadagnarsi la fiducia del controspionaggio alleato. Una volta ottenuto ciò, avrebbe offerto i suoi servizi come agente doppiogiochista per sconfiggere i nazisti. Poi, avrebbe inviato messaggi riguardanti i movimenti delle truppe alleate all’intelligence militare tedesca attraverso un canale nascosto.

Helene Luisa avrebbe riattivato il suo canale verso la fine di agosto o l’inizio di settembre del 1944. Ricevette istruzioni dagli inglesi per mantenere intatto il traffico di messaggi tra lei e i suoi ex superiori dell’SD. La giovane spia, tuttavia, commise degli errori, al punto che i servizi segreti britannici da quel momento in poi la considerarono inaffidabile per il servizio di controspionaggio.

La vertiginosa ascesa del pupillo di Heydrich

L’ambasciatore Rahn una volta lo definì «un poliziotto crudele» e Albrecht von Kessel lo riteneva «una bestia feroce». L’amore di Kappler per i vasi etruschi, le rose, la fotografia e i cani era in netto contrasto con la sua personalità glaciale, calcolatrice e spietata. Considerava il suo lavoro come la protezione della sicurezza del regime, e a tal fine era pronto ad adempiere tutti gli ordini dei suoi superiori fino all’«ultima virgola senza discutere». Insomma, nella capitale il terrore nazista aveva il volto di Kappler.

Verso la metà del 1935, aveva chiesto il trasferimento a tempo pieno nelle SS e poi presentò una domanda per aderire alla Sicherheitspolizei, ovvero la Polizia di sicurezza o SiPo. Svolse il servizio di addestramento attivo in tre periodi separati dal giugno 1935 al settembre 1936, giungendo al grado di Feldwebel der Reserve.

Nel gennaio 1936 fu promosso al grado di SS-Scharfführer e assegnato al servizio presso la sede principale della Gestapo di Stoccarda. Durante l’anno successivo, Kappler iniziò ad essere notato dai suoi superiori e fu presentato al capo della Gestapo, Reinhard Heydrich, anche se alcune fonti sostengono che  Kappler conoscesse Heydrich già da tempo. Nel 1938 aveva seguito Hitler nella sua visita in Italia, e a quel tempo era già stato notato dal duce per il suo duro lavoro e la sua dedizione al servizio. Tuttavia, Kappler suscitò particolare scalpore a causa della sua crudeltà; si dice, infatti, che una volta torturò due ufficiali britannici catturati così brutalmente che persino il capo del servizio di sicurezza, Heydrich, ne rimase “impressionato”. Da quel momento in poi Kappler divenne il suo allievo preferito.

Il 9 novembre 1938 fu promosso SS-Untersturmführer e posto al servizio dell’Ufficio Centrale di Berlino (SD-Hauptamt). Il 20 marzo 1939 il Reichsführer SS Himmler annunciò al Ministero degli Esteri che avrebbe inviato l’SS-Mann e Kriminalkommissar Kappler come ufficiale di collegamento e consigliere per la sicurezza della polizia italiana al posto di un precedente funzionario dell’ambasciata tedesca di Villa Wolkonsky a Roma come attaché1. La sua nomina in Italia fu il risultato della sua esperienza di polizia di sicurezza, con importanti collegamenti con la leadership delle SS, nonché grazie alla sua conoscenza fluente della lingua italiana.

Allo scoppio della seconda guerra mondiale, nel settembre del 1939, gli fu conferito il grado di SS-Hauptsturmführer, al di fuori dalla sede principale della Gestapo di Stoccarda. Dal 1939 al 1940, fu brevemente inviato in Polonia e partecipò a varie azioni dell’Einsatzgruppen prima di svolgere una ulteriore missione nella Gestapo in Belgio, dove fu inviato col compito preciso si sopprimere la resistenza. Nel 1942, dopo la pianificazione della “Soluzione finale”, in seguito alle direttive risultanti dalla Conferenza di Wannsee, con Reinard Heydrich, Adolf Eichmann, Erich Neumann e il giurista nazista, Roland Freisler, il 21 febbraio 1942, Kappler cominciò a coordinare le retate degli ebrei e le successive deportazioni nei campi di sterminio nell’Europa orientale.

Quindi, nel 1942 assunse l’incarico di addetto di polizia con il compito di spiare la polizia italiana2. Una lettera firmata da Heydrich e datata 22 luglio 1940 dimostra che il leader delle SS Kappler era effettivamente riuscito a suscitare l’interesse dell’alleato italiano alla creazione dei campi di concentramento tedeschi. Heydrich fece tesoro di questo messaggio e accettò di esaudire il desiderio e di informare l’allora capo della polizia fascista Bocchini dell’istituzione dei campi di concentramento. Heydrich fece poi consegnare le linee guida a Kappler e indicò così la creazione di tali campi di concentramento in Italia. La corrispondenza avvenne proprio nel periodo in cui gli emigranti ebrei di nazionalità tedesca e di altre nazionalità venivano internati in Italia e trasferiti nei campi di concentramento. Il 3 luglio 1943 , infatti, fece pervenire ai propri superiori anche un dettagliato rapporto sull’esistenza di un “centro di spionaggio ebraico” in un convento.

Si rivelò ben presto la propria terribile efficienza: seppe con anticipo del colpo di Stato del 25 luglio 1943, sequestrò le 120 tonnellate d’oro delle riserve della Banca d’Italia, fece catturare Ciano mentre tentava di riparare in Spagna, arrestò come ostaggio Mafalda di Savoia, figlia di Vittorio Emanuele III, che poi morirà nel campo di concentramento di Buchenwald.

Capo della Gestapo nei nove mesi di occupazione di Roma

In seguito alla proclamazione dell’armistizio tra l’Italia e gli Alleati, il 10 settembre, le truppe della Wehrmacht occuparono Roma e a Kappler fu affidato il compito di Capo della Polizia di Sicurezza e del Servizio di Sicurezza per tutte le SS e le unità di polizia dispiegate a Roma. Stabilì la sua dimora in un appartamento che sorgeva al civico 318 di Via Salaria. Pochi giorni dopo, per la precisione il 12 settembre, fu persino promosso SS-Obersturmbannführer e la sua prima operazione fu quella di aiutare a pianificare il salvataggio di Benito Mussolini da parte delle forze speciali delle SS, un’impresa che fu portata a termine con successo dall’Obersturmbannführer delle SS Otto Skorzeny.

Il 12 settembre fu promosso col grado di SS-Obersturmbannführer e allo stesso tempo, Kappler divenne comandante della polizia di sicurezza (KdS) di Roma e dell’Italia centrale, che in pratica rappresentava la Gestapo. La prima azione a capo delle forze di sicurezza tedesche a Roma fu di aiutare a pianificare il salvataggio di Benito Mussolini da parte delle forze speciali delle SS.

Quando gli eserciti alleati invasero l’Italia e iniziarono a muoversi a nord verso Roma, Kappler fu coinvolto in modo significativo nella caccia ai sospetti agenti alleati e ai prigionieri di guerra alleati che erano fuggiti dai campi di prigionia italiani dopo la capitolazione dell’esercito italiano. In queste misure, Kappler entrò in conflitto diretto con il Vaticano, che era fortemente sospettato di ospitare fuggiaschi alleati e prigionieri fuggitivi. Un avversario particolare di Kappler a questo riguardo fu monsignor Hugh O’Flaherty, le cui attività per aiutare i fuggitivi ebrei e i prigionieri alleati a fuggire da Roma portarono Kappler a prenderlo di mira.

Nell’immeditato dopoguerra, nel corso del suo processo Kappler affermò che la sera del 12 settembre – quando Wolff incontrò il Führer – si trovava nel suo ufficio presso l’ambasciata tedesca quando, d’un tratto, ricevette una telefonata dal quartier generale di Himmler nella Prussia orientale. Evidentemente si aspettava di ricevere le congratulazioni per il ruolo svolto nel salvataggio del Duce e persino una promozione. Secondo la sua versione dei fatti, l’ufficiale senza nome all’altro capo del telefono informò Kappler che in effetti era stato promosso tenente colonnello (Obersturmbannführer) e capo della Gestapo a Roma. Allo stesso tempo, stava per essere insignito della Croce di Ferro3.

Voleva che Kappler procedesse con i preparativi per il rastrellamento e la deportazione degli ebrei romani. Gli fu anche detto che l’operazione avrebbe avuto luogo presto e che sarebbero seguite ulteriori istruzioni. In sostanza, si trattava di un ordine perentorio. In realtà, l’ordine di deportazione degli ebrei romani giunse dopo il 12 settembre. Durante il periodo che precedette il 12 settembre, Himmler era completamente assorbito dal salvataggio di Mussolini e ordinò che tutte le SS e le forze di polizia disponibili fossero impiegate in questa operazione. “Tutte le altre attività dovevano essere rinviate”. I registri telefonici di Himmler non rivelano, infatti, alcuna telefonata a Kappler il 12 settembre. Ci sono ulteriori ragioni per dubitare della versione degli eventi fornita da Kappler. In quel periodo i tedeschi non avevano ancora il pieno controllo di Roma ragion per cui Kappler non era in grado di attuare o addirittura di prepararsi completamente per la deportazione.

Questo sarebbe accaduto in seguito, quando ebbe a sua disposizione del personale aggiuntivo. Il capo della Gestapo in quel momento era concentrato su altre azioni per le quali aveva la capacità di portarle a termine con successo. Il 15 settembre, il generale delle SS Karl Wolff si incontrò due volte con Himmler, e devono aver discusso dell’ordine di rapimento del Führer e dell'”imminente rastrellamento degli ebrei a Roma”. Fu in questo incontro che Wolff raccomandò la promozione di Kappler. Non fu Himmler, ma Wolff a portare la buona notizia della sua promozione a Kappler al suo arrivo a Roma il 18 settembre. L’RSHA non seppe nemmeno della promozione di Kappler fino al febbraio 1944. Himmler fece retrodatare i documenti per la promozione al 12 settembre in modo che “coincidesse coincidono con il giorno del salvataggio di Mussolini”4. Il 18 settembre Wolff, mentre si trovava a Roma, consegnò le decorazioni della Croce al Merito ad almeno due ufficiali tedeschi5.

Il 12 settembre, l’SS-Obersturmbannführer Herbert Kappler portò la direzione della Polizia di Sicurezza (Sipo) nei pressi del Palazzo Lateranense in un grande edificio in via Tasso e il generale Rainer Stahel prese il controllo effettivo della città. Tra il 18 e il 19 settembre, l’ufficio di Himmler trasmise via radio con un marconigramma un preciso ordine di preparazione direttamente a Kappler:

I recenti avvenimenti italiani impongono una soluzione definitiva della questione ebraica nei territori recentemente occupati dalle forze armate del Reich. Il Reichsführer (Himmler) chiede quindi all’Obersturnmbannführer Kappler di attuare senza indugio tutte le misure preliminari necessarie (contro gli ebrei) al fine di assicurare la precipitosità e la segretezza delle operazioni da svolgersi nel territorio della città di Roma. Seguiranno ulteriori ordini immediati6.

Il 24 settembre successivo, Himmler fu ancora più esplicito; in un telegramma segreto e strettamente riservato per il colonnello Kappler disponeva che

tutti gli ebrei, senza distinzione di nazionalità, età, sesso e condizione, dovranno essere trasferiti in Germania ed ivi liquidati. Il successo dell’impresa dovrà essere assicurato mediante azione di sorpresa.

Wolff sapeva che la deportazione degli ebrei era imminente. Fece una cosa che avrebbe aiutato il successo dell’imminente rastrellamento: ordinò immediatamente il trasferimento di un centinaio di poliziotti da un battaglione di polizia tedesco nel nord Italia a Roma, dando a Kappler il nucleo di forza propria. Wolff utilizzò anche le unità delle Waffen-SS per riorganizzare la milizia fascista. Tutte queste forze sarebbero state importanti durante il mese successivo. Kappler riconobbe che non poteva dipendere dalla polizia italiana per cooperare con la Judenaktion.

Quindi si diede da fare convocando dapprima, il 26 settembre 1943, presso il proprio ufficio a Villa Wolkonsky il Presidente della Comunità Ebraica di Roma, Ugo Foà, e quello dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, Dante Almansi, per intimare la consegna, entro trentasei ore, di almeno 50 chilogrammi d’oro minacciando, in caso contrario, la deportazione di 200 membri della Comunità e, poco dopo, alle prime luci dell’alba del 16 ottobre, rimangiandosi quanto promesso predisponendo, insieme ai commissari di pubblica sicurezza Raffaele Aniello e Gennaro Cappa, l’operazione di rastrellamento di 1.259 ebrei che furono caricati su camion e trasportati provvisoriamente presso il Collegio Militare di Palazzo Salviati per selezionare i 1.007 che il giorno successivo sarebbero stati deportati nel campo di sterminio di Auschwitz dei quali riusciranno a sopravvivere soltanto 16. Quando nel marzo del 1944 i partigiani effettuarono un attentato contro una compagnia di passaggio del reggimento delle SS-Polizeiregiment „Bozen“ in via Rasella, in cui morirono 33 poliziotti altoatesini, egli condusse un’azione di rappresaglia per l’attentato agli ordini della direzione militare che, com’è tristemente noto, costò la vita a ben 335 ostaggi italiani, tra cui molti ebrei, che furono barbaramente trucidati nelle Fosse Ardeatine. Kappler e altri ufficiali delle SS uccisero i primi ostaggi mediante colpi di arma da fuoco a bruciapelo inferti all’altezza del collo.

Prima di venire trasferito a Roma in qualità di addetto di Polizia presso l’Ambasciata Germanica – dichiarerà Kappler il 21 maggio 1971 nel corso dell’interrogatorio dinanzi al pretore di Gaeta –, ero, come funzionario di Polizia e dopo la mia nomina a Commissario di P.S. negli Uffici di Stoccarda e di Insbruk, ove le mie incombenze di servizio erano di carattere informativo nel senso del COMINCAM e del controspionaggio. Dal settembre 1943, restando io a Roma fui nominato capo del distaccamento di Polizia dipendente dal generale Harster. Nello stesso tempo ero sottoposto al Comandante di Piazza e cioè generale Stahel, prima e del generale Maeltzer dopo. Dal 21 gennaio 1944 il feldmaresciallo Kesselring mi mise sotto la sua personale dipendenza, facendomi responsabile lui e con “la mia testa” per la sicurezza dei soldati tedeschi nella città e nei dintorni di Roma e delle retrovie del fronte di Anzio-Nettuno. Mentre già prima le mie dipendenze da Verona, sebbene disciplinarmente sempre dipendente da Harster, erano in doppio o triplice carattere dal gennaio 1944 non avrei più potuto eseguire ordine alcuno proveniente da Harster se non perfettamente corrispondente con le direttive generali e particolari di Kesselring in persona.
Dopo la ritirata da Roma fui inquadrato nella Polizia di Sicurezza italiana e cioè della RSI, prima come una specie di ufficiale di collegamento ma subito dopo nominato formalmente da Mussolini il suo Ispettore di Polizia7.

Dal 1938 visse nel Collegio Germanico di Campo Santo Teutonico in Vaticano e lavorò nella Congregazione per la Dottrina della Fede. Aiutò tante persone, tra cui molti ebrei, a sfuggire alle persecuzioni naziste.

All’inizio del 1944, Kappler era il più alto rappresentante dell’Ufficio Centrale della Sicurezza del Reich a Roma e rispondeva direttamente sia al governatorato militare, sotto il generale della Luftwaffe Kurt Mälzer, nonché al Capo delle SS e della Polizia tedesca in Italia, l’SS-Obergruppenführer Karl Wolff.

Kappler entrò in conflitto diretto con il Vaticano perché riteneva correttamente che ospitasse prigionieri di guerra alleati fuggiaschi, membri della Resistenza italiana ed ebrei. Un avversario particolarmente detestato di Kappler fu proprio il monsignore irlandese Hugh O’Flaherty della Sacra Congregazione De Propaganda Fide. Le attività del monsignore che assisteva segretamente gli ebrei e altri fuggiaschi portarono sia Kappler che il suo collega italiano Pietro Koch a complottare, invano, il rapimento, la tortura e l’eliminazione fisica di O’Flaherty.

Nel frattempo, tra le talpe di Kappler all’interno del Vaticano c’era un cittadino estone ed ex seminarista di rito bizantino del Russicum di nome Alexander Kurtna, che lavorò dal 1940 al 1944 come traduttore per la Congregazione vaticana per le Chiese orientali. Durante la guerra egli visse da laico, né pretese di essere uno studente ecclesiastico, benché fosse visitatore assiduo dell’Archivio Segreto Vaticano e della Biblioteca Vaticana. Kurtna era stato reclutato anche da Herbert Kappler. Dopo il settembre 1943 Kappler lo liberò dal carcere e durante i nove mesi dell’occupazione tedesca di Roma Kurtna lavorò per lui, naturalmente sui rapporti tra Russia e Vaticano. Nato a Colonia nel 1901, suo padre lavorava presso la Presidenza della Repubblica Estone in Italia dal 1924 come corrispondente di un giornale di Dresda, poi addetto stampa dell’ambasciata tedesca fino al 1931. Poi, nel 1935 convolò a nozze con una nobildonna di Sorrento e fu privato della nazionalità, ma dal ’36 divenne un informatore dell’Ovra insieme allo scrittore futurista Italo Tavolato, di cui diventò finanche amante. Grazie al suo lavoro la polizia politica riuscì a sgominare le reti dell’intelligence tedesca che indagava nella capitale su vari gerarchi fascisti, espellendo il corrispondente del Bergwerks Zeitung di Düsseldorf, Hans Joachim Boettcher e, successivamente, l’agente Horst Weyhmann. Quindi, il 30 maggio 1942, grazie alle intercettazioni ed ai pedinamenti del Sim,riesce a scoprire che l’addetto culturale dell’ambasciata del Reich, Kurt Sauer, insieme ad altre due spie, passavano le informazioni trafugate da Sauer in ambasciata ai servizi segreti sovietici e britannici grazie alla complicità di un diplomatico svizzero. Appena ne fu informato Kappler montò su tutte le furie e, dopo aver spiccato la condanna per spionaggio,ordinerà la sua fucilazione che sarà eseguita all’alba del 2 giugno 1943 nel cortile di Forte Bravetta.

Kurtna, che fu sempre fedele all’URSS, iniziò a spiare anche per la Germania nazista solo nel 1943 perché Kappler, minacciò ripetutamente di inviare lui e la moglie in un campo di concentramento. Kurtna, tuttavia, appena si presentò l’occasione durante il marasma che aleggiava sulla capitale dopo la Liberazione, riuscì a trafugare i codici top-secret della Sicherheitsdienst custoditi nell’ufficio di Kappler e poi li fece pervenire ai sovietici attraverso monsignor Mario Brini della Segreteria di Stato vaticana.

Una delle azioni più note intraprese da Kappler mentre era a Roma fu l’organizzazione del massacro delle Ardeatine, dove oltre trecento civili italiani furono uccisi il 24 marzo 1944 come ritorsione per un attacco dei combattenti della resistenza contro una formazione delle SS a Roma. «Un vero carnefice» come fu definito da Eugen Dollmann, mentre quella triste sera, dopo aver portato a termine la strage, riferiva a Wolff che «l’ordine di procedere a rappresaglie è stato eseguito oggi alle 13 dai miei uomini sopprimendo con armi da fuoco 335 persone». 

Ufficiale di collegamento con la Polizia Repubblicana

Quando Roma cadde nelle mani delle forze alleate, Kappler cercò senza successo di rifugiarsi in Vaticano, fece immediatamente perdere le proprie tracce e poco dopo, a partire dal 14 giugno 1944, lo ritroveremo a Brescia nelle vesti di ufficiale di collegamento con lo Stato Maggiore della Guardia nazionale repubblicana fascista e poi con la Polizia Repubblicana. All’epoca dimorava nella villa Belvedere a Barbarano, affacciata sul lago di Garda. S’insediò dapprima in una stanza proprio di fronte a quella del nuovo capo della Polizia e, poco dopo, si stabilì a Vobarno perché «eseguiva uno spietato controllo sull’operato della polizia (repubblicana) e al quale non sarebbe certamente sfuggita l’inattività e la sistematica opera ostruzionistica della polizia effettiva […] impartita da Leto di “russare”, fiaccando ogni iniziativa che provenisse da Maderno e Vobarno»8.

Il dopoguerra: l’arresto, la detenzione a Gaeta.

Nel 1945 fu arrestato dalle autorità britanniche e successivamente affidato al governo italiano nel 1947. Il carnefice delle Ardeatine, fu consegnato all’Italia perché l’atto costitutivo del Tribunale militare internazionale di Norimberga stabiliva che i nazisti criminali di guerra, una volta catturati, dovevano essere giudicati nei Paesi dove avevano commesso i delitti.

Trascrizione interrogatorio di Herbert Kappler avvenuto tra il 14 ed il 16 agosto 1947 durante il processo celebrato dal Tribunale militare di Roma. 

Tra il 14 ed il 16 agosto 1947, Kappler fu processato dal tribunale militare di Roma, per una triste ironia della sorte, in quello stesso Collegio Militare dove cinque anni prima aveva concentrato gli ebrei dopo la Judenaktion e condannato all’ergastolo da scontare nel carcere militare di Gaeta. L’imputato si difese strenuamente sostenendo di aver ubbidito, da soldato, agli ordini ricevuti ma il tribunale militare lo condannò all’ergastolo più 15 anni di reclusione per l’estorsione dell’oro alla comunità ebraica di Roma. Kappler ricorse in Cassazione ma l’appello venne respinto. Dopo trentaquattro giorni di processo, il 28 luglio 1948, per la sua ferocia nel portare a temine gli incarichi che gli erano stati affidati dai propri superiori, nel luglio del 1948 gli fu inflitta la condanna all’ergastolo da parte del Tribunale Militare di Roma con l’imputazione del delitto previsto dagli art. 185, 2ª comma, e 211 c.p.m.g., e rinchiuso nel carcere militare di Gaeta, dove vi sarebbe rimasto per circa 30 anni.

Kappler fu dichiarato colpevole come principale responsabile della morte di 335 ostaggi italiani in questi termini:

Assoluzione per l’uccisione di 320 ostaggi italiani; Secondo il Tribunale Militare questo atto non era contrario al diritto internazionale, mentre Kappler è stato ritenuto pienamente responsabile dell’uccisione di altri 10 italiani perché, secondo la sentenza, aveva ordinato di propria iniziativa le fucilazioni. Il tribunale ha riconosciuto questo atto come omicidio continuato e lo ha condannato all’ergastolo. La fucilazione di altri 5 italiani oltre quella ordinata9.

Nel luglio del 1955 il Ministero degli Esteri di Bonn fece il primo passo presentando al ministro degli Esteri italiano un promemoria su Kappler. Al promemoria seguirono ulteriori dichiarazioni diplomatiche. Tre anni dopo il governo federale inviò una richiesta ufficiale al primo ministro italiano per ottenere la grazia di Kappler. Nel 1959 chiese al presidente della Repubblica di poter «compiere un pellegrinaggio di penitenza al sacrario delle Ardeatine e di rimanervi il tempo necessario per rendere omaggio alle vittime». Ma, per ovvi motivi che è facile immaginare, la richiesta non fu accolta.

Nel giugno 1961 Kappler fu interrogato nel carcere militare di Gaeta come testimone al processo Eichmann che si stava svolgendo a Gerusalemme. Lo scopo era chiarire se Kappler avesse ricevuto da Eichmann l’ordine di deportare gli ebrei residenti a Roma. Nel Natale del 1968 il presidente della Chiesa Dott. Stempel rilasciò un’intervista all’agenzia di stampa tedesca Deutsche Presse-Agentur (DPA) rivolgendo un appello all’opinione pubblica affinché all’ex gerarca nazista detenuto nelle carceri italiane «dopo un periodo di prigionia così eccessivamente lungo fosse finalmente concessa la grazia della liberazione e che questo capitolo della guerra e del dopoguerra fosse chiuso»10.

Nel frattempo, l’8 dicembre di quello stesso anno, aveva fatto pervenire una lettera al Cancelliere Federale ed al Ministro degli Affari Esteri sul caso Kappler allo scopo di sollecitare un intervento ufficiale del governo tedesco presso le autorità italiane. Di conseguenza, il 13 giugno 1969, il segretario parlamentare del ministro socialdemocratico degli affari esteri Gerhard Jahn annunciò al Bundestag durante il question time che il governo federale aveva contattato gli avvocati italiani per la liberazione di Kappler. Avrebbero dovuto verificare se la condanna all’ergastolo poteva essere convertita in una pena detentiva temporanea. L’incarico fu affidato all’avvocato romano Franco Cuttica. Tuttavia, dopo aver constatato la piega che stava prendendo questa vicenda, in quello stesso mese, il vicepresidente dell’Unione delle comunità israelitiche italiane, Renzo Levi, a nome dei suoi correligionari, espresse la sua ferma contrarietà alla liberazione di Kappler, precisando che questa presa di posizione non era dettata da un sentimento di vendetta, ma dal desiderio di giustizia per i morti per lasciare un monito alle giovani generazioni affinché tali crimini non abbiano a ripetersi in futuro.

A quel punto anche il ministro dell’Interno tedesco Walter Krause, a nome del governo regionale del Baden-Württemberg, in risposta ad una mozione del gruppo parlamentare NPD nell’ottobre del 1969, dichiarò di non voler intraprendere ulteriori passi per liberare Kappler, anche perché lo stava già facendo il governo federale.

Nel novembre 1970, durante la sua visita a Roma, il cancelliere federale Willy Brandt discusse con i suoi ospiti una possibile grazia per Kappler. Il motivo di questa grazia sarebbe la visita del primo ministro Emilio Colombo e del ministro degli Esteri Aldo Moro a Bonn.

Nel frattempo Kappler e la sua prima moglie divorziarono proprio mentre stava scontando la sua pena. Tuttavia, in quel periodo conobbe la figlia di un suo vecchio compagno d’armi, Anneliese Wenger, un’omeopata ex moglie divorziata del capitano della Wehrmacht Karl Walther, con la quale aveva intrattenuto una lunga corrispondenza epistolare. Fu proprio allora che l’ex gerarca nazista si convertì al cattolicesimo, in parte a causa dell’influenza del suo avversario in tempo di guerra, il diplomatico vaticano Hugh O’Flaherty, che spesso veniva a fargli visita in prigione discutendo con lui di letteratura e religione.

Nel frattempo, sorse in Germania una “Associazione amici di Herbert Kappler” che giunse rapidamente a contare oltre 6.500 iscritti. Nel marzo del 1971 l’Associazione nazionale famiglie italiane martiri (ANFIM) si pronuncia contro l’indulto. Il presidente dell’associazione, Leonardo Azzarita, ricorda che, su richiesta della Farnesina, l’ANFIM ha espresso all’unanimità la propria contrarietà ad un atto di misericordia.

Leonardo Azzarita

Il matrimonio con Anneliese Wenger e la fuga dal Celio

Dopo diverse visite presso il penitenziario di Gaeta, la quarantasettenne Anneliese Walther-Wenger, il 19 aprile 1972, sposò Kappler che era ancora detenuto alla presenza del sindaco di Gaeta Damiano Uttaro e dei suoi difensori gli avvocati Celebrano e Cuttica. L’altro testimone delle nozze fu il criminale di guerra prigioniero della fortezza di Gaeta, l’ex maggiore delle SS Walter Reder. Intanto, il presidente federale Heinemann confermò che durante la sua visita in Italia, nel marzo 1973 aveva discusso anche del caso Kappler con il primo ministro italiano Andreotti. Heinemann spiegò che, nell’interesse della questione, sarebbe stato meglio non mantenere il più stretto riserbo sul contenuto di questa conversazione.

Si tentò più volte di ottenere un atto di clemenza da parte del presidente italiano, soprattutto quando Kappler apparve come testimone in un processo che avrebbe dovuto fare chiarezza sull’atteggiamento tenuto da Pio XII nella fucilazione degli ostaggi alle Fosse Ardeatine. Nel 1975, all’età di sessantotto anni, a Kappler fu diagnosticato un cancro terminale. Gli appelli sia di sua moglie che del governo della Germania Ovest per il rilascio compassionevole furono respinti dalle autorità italiane, ma gli valsero il trasferimento in ospedale nel 1976.

Se non che, il 12 marzo del 1976, un apposito decreto emanato dall’allora ministro della difesa Arnaldo Forlani, gli permise il ricovero presso l’ospedale militare del Celio perché gravemente ammalato di tumore al colon, ordinando a tre carabinieri di sorvegliarlo costantemente.

Il 10 novembre 1976, a causa delle sue precarie condizioni di salute accertate dai medici militari, mediante un’Ordinanza dibattimentale del Tribunale Militare di Roma riunito in camera di consiglio presieduto dal Dott. Giuseppe Merletti, decreta l’immediata scarcerazione del condannato Herbert Kappler e la sottoposizione alla libertà vigilata. Ecco il testo integrale dell’Ordinanza:

Il Tribunale Militare Terrritoriale di Roma composto dai Signori:

Dott. Giuseppe Merletti Presidente
Gen.B. Aldo Testaverde Giudice relatore
Colonnello f. Francesco Loiacono Giudice relatore
Colonnello f. Francesco Rizzo Giudice relatore
Colonnello f. Antonino Gurreri Giudice relatore

riunito in camera di consiglio, ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

nel procedimento incidentale relativo all’istanza di liberazione condizionale diretta in data 4.4.1974 al Ministro della Difesa, a sensi degli articoli 176 c.p. 71 c.p.m.p. 33 segg. R.P. 9.9.1941 n.1023, (contenente disposizioni di coordinamento transitorie e di attuazione dei codici penali militari), da Herbert Kappler, nato il 23.9.1907 a Stoccarda (Rep.ca Federale di Germania) ten.colonnello, prigioniero di guerra, condannato con sentenza 20.7.1948 di questo Tribunale militare territoriale, divenuto irrevocabile il 25.10.1952, alla pena dell’ergastolo, per il reato militare di omicidio continuato commesso da militare nemico in danno di cittadini italiani (artt. 13 – 185 primo e secondo comma c.p.m.g. 575 – 577 n. 4 in relazione art. 61 n.4 e n.5, 8 c.p., 47 n.2 e 58 c.p.m.p.), ed alla pena di anni 15 di reclusione per il reato militare di requisizione arbitraria (art. 224 primo e secondo comma e 13 c.p.m.g.); in cumulo ergastolo con isolamento diurno per anni 4. Detenuto in espiazione di pena fino all’11.2.1976 presso il reclusorio militare di Gaeta e successivamente, fino al 14.3.1976 presso l’Ospedale militare di Roma, ivi restando ricoverato dalla stessa data quale ammesso, con decreto del Ministro della difesa, alla sospensione dell’esecuzione della pena per grave infermità fisica.

PREMESSO

la suddetta domanda, con unanime parere favorevole dell’apposita commissione degli stabilimenti militari di pena veniva trasmessa per il prescritto parere sull’ammissione della domanda stessa, e l’eventuale trasmissione al Ministro della difesa, competente a concedere la liberazione condizionale a sensi degli articoli 34 e 35 R.D. 9 settembre 1941 n.1023, al giudice militare di sorveglianza presso il Tribunale supremo militare, che sollevava questione di legittimità costituzionale dei suddetti articoli 34 e 35, in riferimento agli articoli 13, 24 secondo comma e 111 primo e secondo comma della Costituzione, sostenendo che, in conformità di quanto la Corte aveva già ritenuto in tema di liberazione condizionale di condannati per reati comuni, rispetto alla quale aveva dichiarato illegittimo il potere decisorio del Ministro di grazia e giustizia (sentenza 204 del 1974), anche per la liberazione condizionale dei condannati per reati militari doveva ritenersi illegittimo quello che le norme impugnate conferivano al “Ministro da cui dipendeva il militare condannato, al momento del commesso reato” e che nel caso era il Ministro della Difesa; e ciò per il motivo che anche qui vi era violazione degli articoli 13, 24 e 111 della Costituzione, perché la procedura amministrativa non consentiva, nonostante si vertesse in tema di libertà personale, né il contraddittorio, né l’impugnazione del provvedimento di rigetto dell’istanza. La Corte Costituzionale, con sentenza 192 del 14.7.1976 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale degli articoli 34 e 35 del r.d. 9 settembre 1941 n.1023, nella parte in cui attribuiscono la decisione sulla domanda di liberazione condizionale al Ministro da cui dipendeva il militare condannato al momento del commesso reato, anziché ad un organo giurisdizionale di adeguato livello. Ha affermato la Corte in particolare: – che la norma dell’articolo 176 del c.p., nel testo modificato della legge 25.11.1962 n.1634, che nel terzo comma ha esteso la concessione della liberazione condizionale al condannato all’ergastolo che, avendo tenuto, durante l’espiazione, un comportamento tale da far ritenere sicuro il suo ravvedimento, ed avendo risarcito, se possibile il danno, abbia effettivamente scontato almeno ventotto anni di pena, è applicabile anche al condannato all’ergastolo da parte di tribunali militari, in quanto l’articolo 22 secondo comma del codice penale militare di pace, classifica detta pena tra quelle “comuni”, e cioè disciplinate dalle leggi penali ordinarie, anche quando applicate da Tribunali militari, e l’articolo 71, secondo comma, stesso codice, stabilisce che la concessione, gli effetti e la revoca della liberazione condizionale sono regolati dalla legge penale comune; – che, avendo la liberazione condizionale, nel quadro della normativa costituzionale del settore fondata sull’art. 27, (Sent.204/74), assunto un peso e un valore più incisivo, in quanto l’istituto rappresenta ora in peculiare aspetto del trattamento penale, e il suo ambito di applicazione presuppone un obbligo tassativo del legislatore di tenere non solo presenti le finalità rieducative della pena, ma anche di predisporre tutti i mezzi idonei a realizzarle, e le forme atte a garantirle, il condannato ha diritto a che, verificandosi le condizioni poste dalla norma sostanziale, venga riesaminata la sua situazione, in ordine alla prosecuzione della esecuzione della pena, al fine di accertare se quella già scontata abbia o no assolto il suo fine rieducativo, e, quindi, se il suo ulteriore protrarsi sia o no giustificabile;- che, un simile riesame, implicando una disamina dei presupposti, con conseguenze potenzialmente ablative degli effetti di un giudicato non può essere deferito a nessun organo dell’esecutivo, ma va affidato a un organo giurisdizionale che sia di adeguato livello, (organo che per i condannati per reati comuni è ora, in base alla legge 12.2.1975 n.6, la Corte di appello); – che la componente relativa alle esigenze di tutela e di disciplina delle forze armate, allorché si inserisce nel quadro valutativo di un interesse che ha tutte le caratteristiche di un diritto soggettivo, potrà implicare che la decisione debba essere devoluta a un organo della giurisdizione militare, (una delle ragioni con le quali si giustifica l’esistenza stessa dei Tribunale militari è, invero, la peculiare idoneità di essi per l’apprezzamento dei valori specifici dell’ordinamento militare, tra i quali il coraggio, l’onore, lo spirito di coesione, la disciplina), anziché di quella ordinaria, ma non mai che possa essere commessa alla discrezionalità di un organo del potere esecutivo. A seguito della richiamata sentenza 192/76 della Corte Costituzionale il giudice militare di sorveglianza, con ordinanza 30.8.1976, ha dichiarato la propria incompetenza in ordine alla domanda di liberazione condizionale in questione, e trasmesso gli atti a questo Tribunale militare territoriale. Il Collegio ritiene che, in attesa di una legge che attui il comando della sentenza della Corte Costituzionale, (che, peraltro, ha chiaramente indicato come sia opportuno affidare la decisione a un organo della giurisdizione militare, -quindi non la Corte di appello -, di adeguato livello -quindi non il giudice militare di sorveglianza -), la competenza a provvedere sull’istanza di liberazione condizionale del Kappler, non può che appartenere a questo giudice dell’esecuzione.

Del resto, al giudice dell’esecuzione la legge riserva, in linea di massima, il potere di emanare i provvedimenti che incidono con efficacia costitutiva sul rapporto punitivo; e nella specie la sostanziale sostituzione della libertà vigilata alla pena detentiva residua o alla pena perpetua, con conseguente estinzione di quest’ultima, al termine del periodo di legge, utilmente decorso, attiene essenzialmente, al rapporto di esecuzione, anche perché presenta carattere afflittivo e di emenda, sia pure affievolito, e non già finalità tipiche di prevenzione o di vigilanza sull’esecuzione della pena principale detentiva che reclamerebbero, per converso la competenza del giudice di sorveglianza. L’istituto della liberazione condizionale disciplinato dall’articolo 176 c.p. – nel testo modificato dall’art. 2 della legge 25.11.1962 n.1634 – che la Corte Costituzionale ha ricordato – come non era dubbio – essere applicabile anche al condannato all’ergastolo da parte di Tribunali militari, e che consente l’effettivo reinserimento anche dell’ergastolano nel consorzio civile, ha, di recente, avuto nel nostro ordinamento, in aderenza alla normativa della Costituzione repubblicana, una netta evoluzione, con la giurisdizionalizzazione del provvedimento, (che, pertanto, sarà concesso non più in relazione a scelte discrezionali del potere politico, ma in base ad una decisione dell’autorità giudiziaria, con le garanzie proprie del procedimento giurisdizionale), ed il riconoscimento che l’interesse del condannato – verificandosi le condizioni poste dalla norma sostanziale – il riesame della sua situazione, in ordine alla prosecuzione della esecuzione della pena, al fine i accertare se quella già scontata abbia o no assolto il suo fine rieducativo, e quindi, se il suo ulteriore protrarsi sia o no giustificabile, “ha tutte le caratteristiche di un diritto soggettivo”. Consegue che, rispetto al condannato l’istituto della liberazione condizionale non ha più carattere di “beneficio”, (cioè d’interesse riconosciuto e tutelato dalla legge ma non costituente diritto soggettivo), che ne rendeva la concessione, sempre ed esclusivamente facoltativa, ancorché, nel caso concreto concorressero tutte le condizioni che si esigevano per la sua concedibilità. Le condizioni, che devono tutte sussistere, per il condannato all’ergastolo, ai sensi dell’articolo 176 (modif.L.25.11.1962 n.1634) c.p., per essere ammesso al beneficio della liberazione condizionale sono: a) l’avere effettivamente scontato almeno 28 anni di pena; b) l’avere adempiuto le obbligazioni civili derivanti dal reato, sempreché abbia la possibilità di provvedervi, chè, altrimenti, potrà dimostrare di trovarsi nella impossibilità di adempierle, senza subire alcun pregiudizio; c) l’avere, durante il tempo di esecuzione della pena, tenuto un comportamento tale da far ritenere sicuro il suo ravvedimento. Nella fattispecie la sussistenza della prima condizione è fuori discussione, avendo il Kappler, la cui detenzione, all’effetto della espiazione della pena, decorre, come stabilito da questo Tribunale militare, con ordinanza 31.1.1974, dal 4 aprile 1946, scontato, alla data del 12.3.1976, allorché il Ministro della Difesa ha disposto la sospensione dell’esecuzione della pena si sensi dell’articolo 147 prima parte n.2. c.p., per le condizioni di grave infermità fisica del condannato, poco meno di 30 anni di pena. La natura della seconda condizione ha riflessi oggettivi e soggettivi. Nel primo senso essa mira a rimuovere la condizione di antigiuridicità costituita dall’inadempimento, nel secondo si collega strettamente a quella del ravvedimento, “nel senso che…il mancato adempimento delle obbligazioni civili dimostra l’inconsistenza del ravvedimento”, valutazione negativa che però viene meno quando il condannato si trova nell’impossibilità di adempiere; al riguardo si ritiene che “per aversi impossibilità non occorra uno stato di miseria assoluto, ma basta che l’interessato non disponga di mezzi patrimoniali, che gli consentono, di eseguire il risarcimento, senza sensibile sacrificio per sé e per la propria famiglia” (Peyron-liberazione condizionale in Enc.Dir. Milano 1974 p.227, in linea con Cass. 12.5.1965, in Cass.Pen.Mass. annotato anno 1964, 75). Essendo i danni cagionati dal Kappler di entità tale da trascendere le capacità finanziarie di qualsiasi soggetto privato, egli che, oltretutto, secondo quanto risulta dalla certificazione in atti è personalmente in condizione di “nullatenenza”, non avrebbe potuto certo risarcirli. Del resto nessuna azione risulta intentata dalle parti lese a tal fine, ex art. 2043 c. civ.. C’è, comunque da osservare che, essendosi la condotta in discussione realizzata in tempo e nell’ambito della guerra, i Paesi coinvolti hanno preso atto delle conseguenze che ne sono derivate, cercando di ovviarle nel modo più razionale possibile. In particolare, tra l’Italia e la Repubblica Federale di Germania, è intervenuto un Accordo 2.6.1961, reso esecutivo con D.P.R. 14.4.1962 n.1263 (G.U. n.214 del 25.8.1962), il cui articoli 2 è così formulato “il Governo italiano dichiara che sono definite tutte le rivendicazioni e richieste della Rep.ca Italiana, o di persone fisiche o giuridiche italiane, ancora pendenti nei confronti della Rep.ca Federale di Germania o nei confronti di persone fisiche o giuridiche tedesche, purché derivanti da diritti o ragioni sorti nel periodo tra il 1.9.1939 e l’8.5.1945. In base a tale accordo potrebbe anche, al limite, sostenersi che l’obbligazione civile di esame si sia trasferito dal condannato alla Rep.ca Federale di Germania, che ne ha assunto la responsabilità patrimoniale, facendosi fronte. Rimane ora da esaminare se sussista anche il terzo e, fondamentale, requisito, ossia il “sicuro ravvedimento”. Oggetto del giudizio, in relazione a tale indagine deve essere, secondo la lettera della legge, ed il concorde insegnamento giurisprudenziale, – il comportamento tenuto dal condannato durante il tempo di esecuzione della pena, nelle sue varie manifestazioni concrete – accertate dagli Uffici cui è demandata l’attività di custodia e osservazione, o anche, se necessario, attraverso una attività informativa diretta dell’organo giudicante. Il Supremo Collegio ha anche, autorevolmente chiarito: – che “specifiche indicazioni possono trarsi al riguardo dai rapporti del detenuto con i propri familiari, con il personale carcerario, con i compagni di prigionia, e particolarmente significativi debbono ritenersi la volontà di reinserimento nella società, manifestata con l’attività di lavoro e di studio, l’interesse dimostrato per i valori spirituali e religiosi, le manifestazioni di altruismo e solidarietà sociale, l’interessamento nei confronti delle vittime dei reati commessi, il fattivo intendimento di ripararne le conseguenze dannose (Cass. Pen. Sez. I^ 20.12.1975 – Vecellatore); e – che “la gravità ed efferatezza del reato commesso, non essendo affatto incompatibili con la possibilità di redenzione del colpevole, (che anzi il nostro ordinamento costituzionale esalta il potenziale ed effettivo valore rieducativo della pena), non è di ostacolo alla concessione della liberazione condizionale” (Cass. Pen. Sez. I^ 20.1.1976 ric. P.M. in proc. c. Casula). Risulta da tutta la documentazione acquisita agli atti, e segnatamente dai rapporti informativi delle competenti Autorità del Reclusorio militare di Gaeta e dalle notizie fornite dall’ufficio del giudice militare di sorveglianza, per osservazione diretta, costante e periodica, che per oltre 30 anni la condotta del Kappler è stata esemplare per disciplina, impiego del tempo libero, rapporti col personale di custodia e col mondo esterno. Dopo un iniziale travaglio interiore, che lo ha portato a comprendere le aberrazioni degli ideali nazisti, di cui era stato tenace assertore e propugnatore, ad avere orrore dei nefandi delitti commessi in nome di tali ideali, e ad accettare come profondamente giusta e proporzionata alle sue colpe la pena perpetua dell’ergastolo inflittagli, ha improntato la sua condotta al desiderio di riscattarsi con una cosciente espiazione e farsi, se possibile, un lontano giorno, perdonare.

Si è convertito alla religione cattolica, divenendo fervente praticante. Ha continuato, nei limiti del consentito, gli studi scientifici nei quali è versato, essendo laureato in scienze naturali, ed intrapreso studi umanistici. Fin dall’anno 1960 ha iniziato ad occuparsi dei problemi dei bambini spastici, per i quali ha creato apparecchiature atte ad alleviarne le sofferenze ed agevolarne i movimenti, ricevendone attestazioni di gratitudine. Non si è mai interessato di politica. Nei limiti delle sue scarne risorse economiche ha compiuto ripetutamente gesti di solidarietà verso giovani militari detenuti nel reclusorio militare. Era legato da affetto intenso alla madre ed alla sorella, poi decedute, e, contratto matrimonio, impronta il rapporto con la moglie ad elevata spiritualità. Colpito di recente da un male che non perdona, – (vi è agli atti una relazione sanitaria, redatta il 16.9.1976, da una commissione (composta dal prof. dr. Giorgio Nava, dal prof. dr. Gianfranco Fegiz e dal ten. generale medico Salvatore Polistena), che ha diagnosticato “adenocarcinoma della giunzione retto-sigmoidea, in fase di estensione pelvica…”, con prognosi “infausta a breve termine”, e precisamente “quoad vitam, in assenza di intervento chirurgico, rifiutato dal paziente, valutata in qualche mese”) – il Kappler ha continuato a mantenersi sereno, sopportando il dolore con dignità, senza recriminazioni o atti di disperazione, fino a riaffermare allorché è stato ascoltato, in merito alla sua domanda di liberazione condizionale il 2.8.1976, dal giudice militare di sorveglianza presso l’Ospedale militare “Celio” di Roma, ove si trovava ricoverato, come attestato nel verbale, “in grave stato di prostrazione fisica”; “ho accettato il verdetto e, quindi, la pena, perché mi offriva e mi offre la possibilità di espiare coscientemente dato quel senso di colpa morale e religiosa che è profondamente radicato su me…mi rendevo perfettamente conto dell’orrore della rappresaglia per le vittime e per le loro famiglie, ma vorrei essere creduto, tale orrore invadeva anche me…in quel momento pensavo di non potermi esimere dagli ordini ricevuti, e desidero, comunque, aggiungere che su detta convinzione agiva, indubbiamente, in me la certezza che un mio rifiuto, a parte le conseguenze su di me, che non consideravo, avrebbe potuto provocare una rappresaglia ancora peggiore… Oggi posso dire, dopo tanti anni di pentimento sincero e profondo, che nella mia situazione, e pur nella situazione generale di guerra che invadeva l’Europa, quell’ordine non doveva essere eseguito da me, anche a costo della mia vita..Una volta uno psicologo che, evidentemente, aveva capito ciò che io soffrivo intimamente, ebbe a consigliarmi di cercare di dimenticare; ma io non voglio dimenticare, perché è proprio il dolore del ricordo, che alimenta il mio riscatto”. Ed il Kappler fu certamente ed in misura notevole condizionato, come assume, nel suo comportamento criminoso dall’appartenenza, quale funzionario di polizia, alla spietata organizzazione nazista delle SS, la cui disciplina rigidissima, ed i cui barbari metodi aveva profondamente assimilati, tanto vero che la sentenza di merito, come è chiaramente espresso nella sua parte motiva, non ha potuto escludere il dubbio che nell’eseguire la spietata repressione abbia agito, in relazione al numero di 320 vittime, con la coscienza e la volontà di obbedire ad un ordine legittimo, limitandone la penale responsabilità alle restanti 15 vittime, anche se poi nel dispositivo ha affermato la responsabilità in ordine a tutte le 335 vittime, e tale dispositivo è stato confermato dal Tribunale Supremo Militare (sent. 25.10.1952) che, in merito, ha affermato: “la parte della motivazione che riguarda il dubbio, che il P.M., in questa sede, ha severamente criticato, sostenendo l’oggettiva evidenza della criminosità dell’ordine, non ha riflesso alcuno sul dispositivo di condanna”. Chi si pente è giudice e punitore di sé; ma non si può giudicare e punire sé stesso, senza avere in orrore il reato commesso. E la lealtà e la incapacità di mentire e dissimulare acquisite dal Kappler nel corso della detenzione, sono state evidenziate da tutti coloro, (ufficiali del personale di custodia, cappellani militari, e giudice militare di sorveglianza), che lo hanno, per ragioni del loro ufficio, frequentato. Alla stregua delle esposte risultanze, reputa il Tribunale, che, nella fattispecie, il lungo periodo di detenzione scontato nel reclusorio militare, tanto più pesante perché in terra straniera, abbia finito, (avendo la pena assolto il suo fine rieducativo), col ridestare nel Kappler quello spiritodi umanità e socialità che le diverse condizioni precedenti avevano ottenebrato, provocandone quel pentimento e quel riscatto che consentono di ritenerne, condividendo il positivo parere espresso, in merito, dal giudice militare di sorveglianza, ormai “sicuro il ravvedimento”. Il Pubblico Ministero, pur non contestando la sussistenza delle tre, dette, condizioni richieste dall’articolo 176 c.p. per la concessione della liberazione condizionale, ha concluso per il rigetto dell’istanza del Kappler. Sostiene, in sostanza, il Pubblico Ministero: – che, avendo il provvedimento in questione carattere discrezionale (evidenziato dal “può” contenuto nell’art. 176 c.p.), l’interessato, pur nella sussistenza di tutti i presupposti di legge non può vantare un diritto soggettivo alla concessione del beneficio, ma ha solo il diritto ad ottenere che la sua domanda venga esaminata e che l’organo competente eserciti il relativo potere discrezionale, in senso concessivo o negativo, con provvedimento motivato; – che, pertanto, il giudice deve ricercare altri valori, (all’infuori di quelli indicati dall’articolo 176 c.p.), che dovranno determinarlo nell’uso di tale potere; nel caso di specie, trattandosi di reati militari di guerra, quelli propri dell’organizzazione militare, (ossia il coraggio, l’onore, lo spirito di coesione, la disciplina, espressamente ricordati dalla stessa Corte Costituzionale); – che, per le modalità di preparazione ed esecuzione della strage delle Cave Ardeatine, si è verificata, nei confronti del Kappler, una compromissione tale dell’onore militare, da imporre la negazione del beneficio; (anche se poi, altri elementi vengono indicati, quali l’obbedienza agli ordini dei superiori militari, la disciplina particolarmente rigida vigente nei reparti SS, il senso di cameratismo e solidarietà per i commilitoni nell’attentato di via Rasella, di cui la strage costituì immediata reazione che, in uno con la grave ed incurabile malattia, potrebbero essere, invece, al condannato favorevoli).

Tale tesi del P.M. non può essere condivisa. Si è già, innanzi, chiarito come l’istituto della liberazione condizionale, dopo gli adeguamenti costituzionali, non è più di applicazione facoltativa, talché se si accerta l’esistenza di tutti i requisiti voluti dalla legge, “deve” la norma essere applicata, esplicandosi la discrezionalità del giudizio, alla stregua dei principi vigenti nel nostro ordinamento, soltanto nel libero apprezzamento degli elementi costitutivi della fattispecie. Non esiste, inoltre, una norma particolare che regoli la liberazione condizionale nei riguardi dei militari, disponendo l’articolo 71 c.p.m.p. che “la concessione, gli effetti e la revoca della liberazione condizionale sono regolati dalla legge penale comune” e dovendosi, pertanto, applicare, come ricordato dalla Corte Costituzionale l’articolo 176 c.p., nel testo modificato dalla legge 25.11.1962 n.1634, anche al condannato all’ergastolo da parte dei Tribunali militari. I requisiti che il detto articolo richiede, per l’ammissione alla liberazione condizionale, sono esclusivamente quelli innanzi indicati, talché altri e diversi requisiti, per i militari (che creerebbero, oltre tutto, una ingiustificata disparità di trattamento tra militare e civili), non potrebbe che essere arbitraria. I valori specifici dell’ordinamento militare, – che i Tribunali militari come, molto opportunamente ha ricordato la Corte Costituzionale nella sentenza 192/76, hanno la peculiare idoneità ad apprezzare – devono, certamente, essere tenuti in considerazione, ma non già con riferimento all’entità della lesione di tali valori, insita nei fatti sanzionati nella condanna, (che porterebbe, come corollario, ad ammettere, contrariamente al principio, pacificamente acquisito nel mondo giuridico, l’esistenza di crimini che non consentono, in nessun caso, l’emenda e il recupero sociale), bensì nell’ambito dell’accertamento del requisito del ravvedimento, desumibile, per il militare, anche da un comportamento, durante il tempo di esecuzione della pena, conforme ai valori tutti dell’ordinamento militare. Ed il comportamento del Kappler, nel periodo di esecuzione della pena, si è, innanzi, chiarito, è stato informato al rispetto ed al recupero di quei valori, a suo tempo, tanto gravemente infranti, che hanno poi finito col prevalere sull’originaria capacità a delinquere. Il compito del giudice è quello di applicare la legge, al di là ed al di sopra di contingenti valutazioni di carattere politico, e senza avere riguardo a sollecitazioni extraprocessuali, né a personali sentimenti, in rapporto alla decisione di un caso che, come quello presente, – col ricordo di una “strage” senza eguali, per la disumana crudeltà di attuazione, quale fu quella delle “Cave Ardeatine”, che determinò la condanna – suscita ancora, a distanza di oltre trentadue anni, profondo raccapriccio, esecrazione per gli autori, e commossa pietà per le vittime innocenti. Reputa il Tribunale che essendosi verificate, come innanzi dimostrato, tutte le condizioni poste dalla norma sostanziale, e non essendo, pertanto, giustificabile nei confronti del Kappler, (peraltro giunto, ormai, per il male inesorabile da cui è affetto quasi al limite della vita terrena), l’ulteriore protrarsi della pena, avendo quella già scontata assolto il suo fine rieducativo, deve lo stesso, in accoglimento della domanda presentata, essere ammesso alla liberazione condizionale.

Consegue la scarcerazione, ed a sensi dell’articolo 230 comma 2° c.p., la misura di sicurezza personale non detentiva della libertà vigilata.

P.Q.M.

Visti gli articoli 176 c.p. modificato dalla legge 25.11.1962 n.1634, 71 c.p.m.p. 628 e segg. c.p.p. 230 comma 2° c.p. e citati; sulle difformi conclusioni del P.M.

ORDINA

l’ammissione del condannato Herbert Kappler alla liberazione condizionale;

ORDINA

la scarcerazione del detto Herbert Kappler e la di lui sottoposizione alla libertà vigilata.

Tuttavia, il 9 dicembre successivo,  in seguito ad insistenti pressioni della pubblica opinione e politiche, questo provvedimento fu annullato per cui Kappler fu costretto ad essere di nuovo ricoverato al terzo piano del Celio in un padiglione che ospitava il reparto chirurgia riservato agli ufficiali, sotto stretta sorveglianza dei carabinieri.

Qui di seguito il testo integrale del Decreto emesso dal Magistrato di Sorveglianza in data 9 dicembre 1976:

Tribunale Supremo Militare
Ufficio del Giudice Militare di sorveglianza

Il Giudice Militare di sorveglianza con il presente

DECRETO

nel procedimento di sicurezza relativo a
KAPPLER Herbert, nato il 23/9/1907 a Stoccarda, prigioniero di guerra, ammesso alla liberazione condizionale, in atto presso l’Ospedale militare principale “Celio” in Roma, osservato

IN FATTO E IN DIRITTO

Con ordinanza 10/11/1976, depositata il 13/11/1976, il Tribunale militare territoriale di Roma ha ammesso il nominato in oggetto alla liberazione condizionale. L’Ufficio del pubblico ministero militare trasmetteva il provvedimento a questo Giudice militare di sorveglianza “per quanto di competenza”, essendo stata disposta nei confronti del prigioniero di guerra la libertà vigilata; e, a richiesta, precisava con foglio del 19/11/1976 di aver interposto ricorso per annullamento davanti al Tribunale Supremo Militare avverso l’ordinanza e di aver inviato copia del provvedimento “ai sensi degli artt. 648 e segg. c.p.p.”, attinenti alla libertà vigilata.

Come da richiesta in via breve di questo Ufficio, il Comando degli Stabilimenti militari di pena di Gaeta con missiva 20/11/1976 trasmetteva fotocopia di ordine di scarcerazione del KAPPLER emesso il 13/3/1976 dalla Procura militare della Repubblica di Roma, essendo stata disposta a quel momento con decreto ministeriale la sospensione dell’esecuzione della pena a mente dell’art. 147, p.p., n. 2, c.p. per grave infermità fisica del condannato; nonché di ordine di scarcerazione in data 13/11/1976 del medesimo Ufficio, contestuale e conseguente al provvedimento relativo alla liberazione condizionale.

Questo Ufficio è altresì in possesso del fonogramma, a suo tempo ricevuto per conoscenza, col quale il Comando Posto Fisso Carabinieri presso l’Ospedale militare in epigrafe indicato assicurava, in data 14/3/1976, di aver dato esecuzione al primo dei due indicati ordini di scarcerazione.

Con la predetta missiva 20/11/1976 il Comando in Gaeta chiariva anche di non aver dato corso al secondo ordine di scarcerazione, per aver perduto di forza già da tempo il KAPPLER.

Sia il primo che il secondo dei menzionati ordini di scarcerazione sono atti dovuti, in quanto, ciascuno, esecuzione di provvedimenti autonomi e distinti e quindi regolarizzazione formale della

posizione del KAPPLER quale detenuto in espiazione di pena, ancorché l’efficacia liberatoria del secondo rivesta esclusivamente carattere giuridico.

Con nota del 2/12/1976 il citato Posto Fisso Carabinieri rispondendo a richiesta scritta di questo Ufficio, precisava ancora che nei confronti del KAPPLER, scarcerato alle ore 0,30 del 14/3/1976, dallo stesso momento veniva esercitata “vigilanza in quanto prigioniero di guerra”; e che dal 28/7/1976 la relativa disciplina veniva puntualizzata in apposito atto, di cui si inviava fotocopia e qui peraltro già acquisito per trasmissione diretta fattane dall’autorità amministrativa.

Nella presente fase processuale, equivalente, in pendenza di ricorso, a quella del giudizio, questo Giudice militare di sorveglianza, tenuto ad applicare, in materia di misure di sicurezza, a norma dell’art. 414 codice penale militare di pace, orme del codice di procedura penale, ha competenza – esclusa quella prevista dall’art. 635 c.p.p. per l’adozione, fuori del giudizio, dei provvedimenti di applicazione, modificazione, sostituzione o revoca delle misure di sicurezza – riferita all’esecuzione di alcune di esse in particolare, fra cui la libertà vigilata, quando la relativa applicazione sia stata disposta dall’organo giudicante.

Pur se la terminologia sia a volte imprecisa, tanto che le dizioni vengono talvolta confuse, in materia di misure di sicurezza il momento dell’applicazione va distinto da quello dell’esecuzione. In effetti, l’applicazione avviene con la sentenza di condanna, ovvero di proscioglimento nei casi previsti, ovvero con decreto in via provvisoria del giudice istruttore; e, fuori dei detti casi, quando il giudice di cognizione ometta di provvedere, con decreto del giudice di sorveglianza. Mentre l’esecuzione, e cioè la materiale sottoposizione del soggetto al provvedimento, è condizionata all’avveramento della situazione di fatto o giuridica che lo renda attuabile. Ed invero, le misure di sicurezza, quali che esse siano, e quindi detentive e non detentive e quelle patrimoniali, vengono normalmente eseguite in un momento diverso da quello in cui sono applicate, come nel caso, ad esempio, in cui debba previamente essere scontata una pena detentiva, ovvero in quello di irreperibilità del soggetto, e salva, invece, l’ipotesi di provvisoria esecuzione, per disposizione espressa del giudice.

L’applicazione della misura di sicurezza corrisponde quindi al momento dispositivo; l’esecuzione alla fase dell’attuazione concreta.

Nel caso di specie, l’applicazione della libertà vigilata è stata disposta nella fase del giudizio con l’ordinanza 10/11/1976 del Tribunale militare territoriale di Roma, a mente dell’art. 230, p.p., n. 2, codice penale, ricorrendo l’ipotesi di ammissione del condannato alla liberazione condizionale; e se ne chiede l’esecuzione a questo Ufficio, in forza dell’art. 648 codice di procedura penale.

Occorre esaminare, pertanto, se, ferma la disposizione – ed a parte i diversi riflessi che possa presentare eventualmente la questione in rapporto all’evoluzione processuale della fattispecie – essa sia concretamente attuabile, nell’ovvio rispetto della legalità.

Ritiene questo Giudice militare di sorveglianza che l’evenienza non sussista.

Per l’art. 76 codice penale militare di pace – con il che, tra l’altro, si conferma la distinzione prima enunciata – “durante il servizio alle armi, è sospesa la esecuzione delle misure di sicurezza ordinate in applicazione della legge penale comune o della legge penale militare”. La norma – la cui ratio consiste, palesemente, nell’impossibilità e nell’inopportunità di sovrapporre vincolo a vincolo, sia pure l’uno diverso dall’altro e ciascuno operante in una autonoma sfera di interessi – appare applicabile al KAPPLER , in quanto prigioniero di guerra.

Tale condizione del soggetto è indiscussa e non è mai stata revocata in dubbio. La condanna, irrogata con sentenza 20/7/1948 del Tribunale militare territoriale di Roma e confermata il 25/10/1952 dal Tribunale Supremo Militare, ha come presupposto, per quanto attiene alla competenza dell’autorità giudiziaria militare, nell’ambito dell’art. 103 della Costituzione, il riferimento alla convenzione di Ginevra 27/7/1929, ratificata e resa esecutiva in Italia con R.D. 23/10/1930, n.1615, all’epoca vigente, relativa ai prigionieri di guerra; “il riconoscimento internazionale di cui godono le forze armate nemiche” che “non poteva non portare a lasciare alla competenza dei tribunali militari in tempo di pace i reati commessi da militari stranieri in tempo di guerra; quel principio di diritto internazionale per cui gli appartenenti alle forze armate siano posti, per i reati commessi quando avevano tale qualità, in una situazione di parità”, si intende, con i militari italiani. D’altronde, l’esatta posizione del KAPPLER, nel passaggio da prigioniero di guerra degli Alleati a far tempo dal 10 maggio 1945, ancora non inquisito per crimini di guerra, a quella di prigioniero di guerra penalmente perseguito dall’autorità giudiziaria militare italiana con decorrenza dal 4 aprile 1946, è analiticamente ricostruita ed argomentata nell’ordinanza 31/1/1974 dello stesso Tribunale militare quale giudice dell’esecuzione e deve pertanto essere recepita, ad avviso di questo Giudice militare di sorveglianza, ad ogni effetto, ivi compresa la materia in esame.

Alla condizione giuridica predetta fa riscontro il trattamento usato al condannato in ogni tempo in armonia con la convenzione di Ginevra 8/12/49 relativa ai prigionieri di guerra, resa esecutiva in Italia con L. 27/10/51, n. 1739, della quale occorre qui richiamare l’art. 82 che li considera “sottoposti alle leggi, regolamenti e disposizioni generali vigenti nelle forze armate della Potenza detentrice”.

Da ultimo, ammesso alla liberazione condizionale, il KAPPLER, originariamente militare e tale rimasto in connessione alla prigionia di guerra e cioè in una condizione che non può essere obliterata né può venire eliminata se non a mente della citata convenzione, in effetti ha continuato, ancorché sollevato dall’espiazione penale, ad essere sottoposto alle relative prescrizioni, il cui contenuto consiste, essenzialmente, nella restrizione dell’esercizio della libertà personale.

Non sembra che sussista conflitto tra norme interne e norme internazionali e ciò indipendentemente dalla questione inerente all’adeguamento, automatico o meno, dell’un diritto all’altro, posto che la situazione che si verifica è quella stessa che si potrebbe ipotizzare per il militare italiano, nei cui confronti la esecuzione della misura di sicurezza fosse rinviata al momento in cui egli venisse a cessare dal relativo servizio. La differenza è piuttosto da ricercare nei modi, ovviamente, attuabili per la cessazione dello stato di prigioniero bellico rispetto a quelli per la conclusione del servizio militare da parte del cittadino italiano: ma è, tale questione, un riflesso della posizione del KAPPLER che non interessa la presente fase processuale, e che certamente sarebbe suscettibile, d’altronde, di soluzione nell’ambito della normativa interna ed internazionale vigente, in proposito tenuto conto della vasta gamma di strumenti esistenti ai fini dell’assistenza giuridica, della protezione legale e giudiziaria, della collaborazione giudiziaria e via dicendo tra i vari paesi.

Quanto alla sfera di competenza di questo Ufficio, la limitazione derivante al riguardo dalla pendenza del giudizio concerne, come si diceva, i provvedimenti dispositivi, ma non quelli esecutivi, che sono all’organo riservati in via esclusiva.

Pertanto, la misura di sicurezza applicata non può, allo stato, avere esecuzione. Ciò considerato,

letti gli artt. 639, 648 c.p.p., 414, 76 c.p.m.p.,

SOSPENDE

l’esecuzione della misura di sicurezza della libertà vigilata, applicata con ordinanza 10-13/11/1976 del Tribunale militare territoriale di Roma, nei confronti di Herbert KAPPLER, in quanto militare prigioniero di guerra.

Dopo che già i presidenti federali Heuss e Heinemann nonché i cancellieri federali Adenauer e Willy Brandt avevano chiesto la grazia per Kappler, nel giugno 1976 lo fecero in modo trasversale anche 232 deputati del Bundestag di tutti i partiti. In un appello al presidente della Repubblica Leone, chiesero la grazia per Kappler. Anche il cancelliere Schmidt fu uno dei sostenitori. Il quotidiano torinese La Stampa commentava in questi termini la vicenda:

Il Cancelliere dovrà capire che anche gli italiani fedeli alla Germania difficilmente potranno dimenticare le 335 fucilate alle Fosse Ardeatine e i 1.041 ebrei deportati da Roma.

Pertanto, anche i tentativi di richiedere la grazia al Presidente della Repubblica italiana fu negata in più di una circostanza, per la precisione nel 1963 e nel 1970: invano intervennero il presidente tedesco Heinemann nel 1973 e il Cancelliere Schmidt nel 1974 dapprima con il presidente del consiglio Rumor, poi nel 1976 con il suo successore Forlani ed infine nel 1977 con Andreotti. A quel punto perse ogni speranza di riacquistare la libertà e, rinchiuso nelle prigioni militari di Forte Boccea e del Forte Angioino di Gaeta, trascorse il suo tempo suonando il violino, allevando pesci ornamentali, partecipando a un ente tedesco che soccorreva i bimbi spastici e riscuotendo la pensione assegnatagli dal governo di Bonn.

E mentre migliaia di italiani a Roma, guidati dal nuovo sindaco professor Giulio Carlo Argan, manifestano contro la scarcerazione di Kappler in una marcia silenziosa davanti al Parlamento italiano, centinaia si recano in pellegrinaggio alle Fosse Ardeatine per commemorare le vittime naziste. Kappler, al Celio, occupava una stanza al terzo piano, nel reparto chirurgia ufficiali, accanto all’ascensore: di qui, grazie alla moglie, a qualche negligenza o complicità, alla famosa valigia e alla 132 che attendeva in cortile, poté evadere e abbandonare l’Italia. Per lui fu chiesta, invano, l’estradizione La notizia della fuga orchestrata anche con la compiacenza e la copertura della Repubblica Federale Tedesca suscitò una profonda indignazione perfino dell’Associazione degli Avvocati della DDR che condivideva

la crescente preoccupazione che ha attanagliato l’opinione pubblica italiana e tutte le forze democratiche in Europa per la pericolosa crescita del neonazismo e del revanscismo nella Repubblica Federale Tedesca. La fuga del criminale di guerra Kappler dal carcere italiano, organizzata con l’aiuto delle forze ufficiali della Repubblica Federale Tedesca, e la sua accoglienza protettiva nella Repubblica Federale Tedesca sono allarmanti: i fatti testimoniano la portata delle attività di i neonazisti, l’avvelenamento dell’atmosfera politica e delle cariche governative dimostrano chiaramente la tolleranza legale e legale e la promozione dello spirito maligno nazista nella Repubblica Federale Tedesca.

Privare Herbert Kappler della giustizia è un insulto alle vittime del fascismo. Proteggerlo e corteggiarlo significa banalizzare e giustificare i suoi crimini e quelli del fascismo di Hitler in generale e ignorare palesemente gli obblighi giuridici internazionali da parte della Repubblica Federale di Germania.

Gli ambienti dirigenti della Repubblica federale di Germania, facendo riferimento all’articolo 16 comma 2 della Legge fondamentale della Repubblica federale di Germania, che presumibilmente ostacola l’estradizione di Kappler, cercano di ingannare deliberatamente l’opinione pubblica internazionale con manovre legali.

Tuttavia, con l’articolo 25 Legge fondamentale, la Repubblica federale di Germania si è impegnata a riconoscere e ad attuare le norme generali del diritto internazionale come parte del diritto interno.

L’articolo 139 della Legge fondamentale di Bonn riduce all’assurdo anche il fatto che gli organi della Repubblica federale di Germania, contrariamente al diritto internazionale, invocano il divieto di estradizione dei propri cittadini. L’articolo 139 sancisce l’obbligo imperativo del diritto internazionale di rispettare tutte le norme giuridiche emanate per la liberazione dal nazismo e dal militarismo, che non sono espressamente toccate dalla Legge fondamentale.

La Dichiarazione di Mosca delle principali potenze della coalizione anti-Hitler del 30 ottobre 1943 contiene già il principio del diritto internazionale secondo cui i criminali di guerra devono essere perseguiti fino ai confini della terra e consegnati allo Stato contro il quale hanno commesso i loro crimini. Questo principio è stato più volte riaffermato dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, ad esempio nella Convenzione sulla non applicabilità delle limitazioni a tali crimini del 26 novembre 1968 e nella Risoluzione 3074 (XXVIII) sui principi di cooperazione internazionale sulle indagini, arresti, perseguimento e punizione di persone colpevoli di aver commesso crimini di guerra e crimini contro l’umanità. […]

Contrariamente al diritto internazionale, la Repubblica Federale Tedesca si è sempre rifiutata di riconoscere che i crimini nazisti e di guerra non sono prescritti e di estradare i propri cittadini colpevoli di tali crimini. Tuttavia, secondo il diritto internazionale, il divieto di estradizione non si applica nel caso in cui si perseguano crimini nazisti e di guerra.

È fin troppo noto che nella Repubblica Federale Tedesca per i crimini nazisti e di guerra esistono alte funzioni statali, che gli organi di giustizia hanno utilizzato trucchi legali per proteggere queste persone da ogni responsabilità e che hanno trovato molti modi legali per ridurre le pene e risparmiare il carcere.11

Inoltre è interessante rilevare quanto asseriva il 2 aprile 1981 Helmut Stein del Presidio dell’Associazione Antifascisti dell’Associazione dei perseguitati dal regime nazista che al riguardo sosteneva quanto segue:

L’attuale capo del dipartimento di diritto penale dell’AA della Repubblica Federale Tedesca, Helmut Türk, secondo le informazioni a noi pervenute, sarebbe stato coinvolto nel rapimento del criminale delle SS Herbert Kappler nel 1977 dall’ospedale militare sul Celio a Roma.

Secondo quanto ci è stato comunicato, la moglie e collaboratrice dell’ODESSA del criminale di guerra condannato all’ergastolo Anneliese Kappler-Wenger avrebbe contattato la suddetta persona in una lunga conversazione telefonica dopo la fuga riuscita.

Presumibilmente i “buoni contatti dell’HIAG con il governo della Repubblica Federale Tedesca”, di cui si vantava già nel 1956 il funzionario federale dell’HIAG, redattore della rivista revanscista “Deutsche Wochen-Zeitung” e autore di pubblicazioni che falsificano la storia, Erich Kernmayr, potrebbe passare attraverso il suddetto dipendente dell’AA12.

Ad ogni modo, nella notte fra il 14 ed il 15 agosto 1977, l’ex ufficiale nazista tagliò la corda dal nosocomio grazie al provvidenziale aiuto fornitogli dalla moglie frau Annelise Wengler  – la “pasionara” nazista invaghita di Walter Reder, il maggiore austriaco responsabile della strage di Marzabotto.

Sotto processo per la fuga di Kappler finirono quattro carabinieri: Norberto Capozzella, il capitano dei carabinieri comandante della compagnia “Celio” e i tre appuntati Luigi Falso, Oronzo Pavone e Giuseppe Giovagnoli, addetti alla sorveglianza del prigioniero, ritenuti i soli colpevoli per la fuga del criminale nazista l’ex colonnello delle SS fuggito dall’ospedale militare di Roma la notte della vigilia di Ferragosto del 1977. È quanto emerse dall’indagine condotta dal procuratore generale Giuseppe Scandurra, il magistrato militare che depositò la richiesta di rinvio a giudizio per l’ufficiale, accusato di disobbedienza aggravata e violazione di consegna, per i tre carabinieri, ai quali viene contestato solo il secondo reato. 

All’indomani della fuga il ministro della Difesa di allora, Vito Lattanzio, aveva deciso di trasferire d’ufficio un generale, due colonnelli e un capitano. Il 18 agosto l’appuntato Luigi Falso e il carabiniere Oronzo Pavone furono arrestati per «violata consegna».  A quel punto il comandante generale dei carabinieri Generale Mino dispose il trasferimento ad altra sede, o ad altro incarico, i responsabili della vigilanza di Kappler:
– Il gen. Carlo Casarico, comandante della sesta brigata di Roma
Il colonnello Ennio Fiorletta, comandante della legione Roma
Il colonnello Vincenzo Oreste, comandante del gruppo Roma 1
Il comandante Norberto Capozzella, comandante della compagnia Celio,
da lui dipendevano…
l’appuntato Luigi Falso
il carabiniere Oronzo Pavone.

All’inizio si disse che era stata la consorte a calarlo da una finestra alta 17 metri con delle corde e a metterlo, una volta all’esterno dell’ospedale, dentro una valigia samsonite, trascinandolo fino ad una 132 Fiat parcheggiata nel cortile. Subito dopo, era intanto passata da alcuni minuti l’una di notte, secondo le cronache coeve, la donna sarebbe tornata indietro per accertarsi che l’audace piano fosse andato in porto; così aprì la porta della stanza dove era ricoverato il marito e, uscendo con le sue scarpe in mano per non destare sospetti, fece segno con un dito ai tre carabinieri di guardia di far silenzio fingendo che il marito si era appena assopito. Quindi risalì in macchina e dopo alcuni metri si fermò all’uscita dell’ospedale nei pressi del piantone per consegnargli una lettera con la raccomandazione di farla pervenire nelle mani del frate portoghese p. Monteiro.

Poi, dopo aver percorso ancora pochi metri, i due fuggiaschi abbandonarono la Fiat 132 per intrufolarsi in una Opel Commodore bianca con targa tedesca FB-CT-66, a bordo della quale c’era ad attenderli il figlio di primo letto dell’ex ufficiale nazista, Ekerard Walther, in compagnia di altri due uomini. Dopo essersi assicurati che tutto era andato come previsto, immediatamente si diedero alla fuga diretti alla volta del Brennero, da dove poi avrebbero agevolmente raggiunto l’abitazione della moglie del gerarca nazista al n. 6 della Wilhelmstrasse di Soltau, nella Bassa Sassonia, dove visse fino alla sua morte che sopraggiunse nella notte fra l’8 e il 9 febbraio del 1978. Questa rocambolesca vicenda, degna dei migliori romanzi di spy-story, è stata descritta, con dovizia di particolari, dalla moglie di Kappler nel suo libro A. Kappler, Ti porterò a casa: il caso Kappler da via Rasella alla fuga da Roma, C. Ardini, Roma 1988.

A quel punto l’ex gerarca nazista poteva ormai ritenersi completamente al sicuro visto che l’articolo 16 paragrafo 2 della Costituzione tedesca vietava categoricamente l’estradizione in quanto cittadino tedesco. Immediatamente si formularono varie ipotesi in merito a tale vicenda; qualcuno, all’inizio, sostenne perfino che questa rocambolesca fuga si era consumata sotto l’abile regia dell’organizzazione Gehlen. Poi si disse che dietro questa rocambolesca vicenda c’era l’organizzazione Odessa, nota per aver favorito la fuga di vari nazisti nell’America Latina.

Tuttavia, negli anni successivi un’inchiesta giornalistica condotta dal settimanale “Diario”, rivelò che, stando alle dichiarazioni rilasciate dal generale Ambrogio Viviani, per quattro anni alla guida del controspionaggio italiano e nel 1977 addetto militare a Bonn, emergerebbe

che Kappler fu barattato con un prestito con lo Stato tedesco […] Viviani – continua il redattore del settimanale “Diario” – ha rivelato a Pierangelo Maurizio del Giornale che Kappler venne nascosto all’isola Tiberina, portato prima a Ponte San Pietro, vicino a Bergamo, e poi a Desenzano sul Garda, in provincia di Brescia, dove fu preso in consegna dagli uomini del Bfv, il servizio segreto tedesco […].

Inoltre, secondo la testimonianza fornita dal medico che visitò Kappler nella notte della fuga, Giovanni Pedroni:

[l’ex aviatore repubblichino Adalberto] Titta andò a Roma e prelevò Kappler dall’Ospedale dell’Isola Tiberina… Il tutto era stato organizzato nell’ambito di un accordo segreto tra il governo italiano e quello tedesco consistente nello scambio tra il nazista e un grosso prestito in favore del governo italiano. Insomma c’era una ragione economica dietro ai motivi umanitari13

Del resto sulla stessa lunghezza d’onda era anche il presidente del Tribunale supremo, gen. Renzo Apollonio, il quale asserì che:

senza certe colpevoli omissioni, senza alte complicità, in Italia e nella Germania di Bonn, l’ex colonnello delle SS non avrebbe potuto fuggire14.

Poi ci fu l’ondata d’indignazione contro il ministro che, in televisione, aveva fornito al Paese la farsesca versione di Kappler che, nascosto dentro una valigia a rotelle trascinata dalla moglie, la possente omeopata Anneliese, se la svignava dall’ospedale in barba a tutti i controlli15.

Ad ogni modo l’ex gerarca e criminale di guerra nazista, ormai gravemente ammalato, si stabilì nell’appartamento della moglie in Wilhelmstrasse 6 a Soltau, sorvegliato da alcuni agenti di polizia appostati nel piccolo cortile adibito a parcheggio accanto alla farmacia, e Anneliese Wenger esercitava la sua professione di omeopata in un locale proprio sopra questa farmacia.

Nonostante le richieste di rimpatrio di Kappler in Italia, le autorità della Germania Ovest rifiutarono di estradarlo e non lo perseguirono per ulteriori crimini di guerra, a quanto pare a causa della sua cattiva salute. Vittorio Lattanzio si dimise dalla carica di ministro della Difesa all’indomani della fuga. Sei mesi dopo la sua fuga, il 9 febbraio 1978, all’età di 70 anni Kappler morì nella sua casa di Soltau in Wilhelmstrasse 6, una settantina di chilometri a Sud di Amburgo.

NOTE
  1. Tra gli organi di sicurezza tedeschi e italiani è anche un altro esempio, che però cade già nel periodo successivo alla liberazione di Roma. Herbert Kappler scrisse al capo della polizia italiana, Tullio Tamburini, il 29 settembre 1944, chiedendo spiegazioni per l’arresto di Pietro Koch (ACS, RSI, Prefettura di Milano, fascicolo Pietro Koch): «Lo smantellamento del reparto speciale della Polizia Repubblicana di stanza a Milano – quasi l’unico del corpo di polizia italiano […] ha sostenuto e rappresentato la Polizia di Sicurezza tedesca nei suoi compiti – ha inciso materialmente sugli interessi della Polizia di Sicurezza tedesca in Italia. […] Indipendentemente dalla mia posizione di consigliere tedesco del Capo della Polizia italiana, devo finalmente essere messo in condizione di informare ufficialmente su questi ultimi eventi come rappresentante responsabile del Capo Supremo delle SS e della Polizia in Italia. Le chiedo pertanto di fornirmi una breve descrizione scritta dei motivi delle misure note e dello stato attuale dell’indagine, nonché una data a breve termine entro la quale l’indagine può essere completata e il caso può essere chiuso con una decisione definitiva». ↩︎
  2. BArch, Politisches Archiv des Auswärtigen Amts (künftig: PA/AA), B 83, Bd. 1365, Berlin Document Center U.S. Mission Berlin (BDC) an das Bundesministerium des Innern, gez. Richard Bauer, 11.8.1970, S.1–3. ↩︎
  3. Robert Katz, The Battle for Rome, New York: Simon & Schuster, 2003, pag. 364n1. ↩︎
  4. Breitman – Wolfe, Case Studies of Genocide, pagg. 78–79; Liliana Picciotto-Fargion, The Shoah in Italy, in “Jews in Italy under Fascist and Nazi Rule”, ed. Joshua Zimmerman, New York: Cambridge University Press, 2005, pagg. 210–25. ↩︎
  5. Breitman – Wolfe, op. cit., pag. 78. ↩︎
  6. Pave the Way Foundation, doc. 6; Michael Tagliacozzo, La Comunità di Roma sotto l’incubo della svastica: La grand razzia del 16, Ottobre, 1943, in “Quanderni del Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea”, no. 3 (November 1963): 9; Kurzman, Special Mission, 7. ↩︎
  7. Landesarchiv Berlin, B Rep. 057-01 Nr. 3880, Nr. Ordner 28 b, Registratursignatur: B Rep. 057-01 No. 1 Js 1/65 (RSHA)
    Vorl. N.: B Rep. 057-01 N. 3477, Pretura di Gaeta, Verbale d’istruzione sommaria dell’interrogatorio di Herbert Kappler avanti al pretore Dr. Domenico Lanna, 21 maggio 1971, pag. 16. ↩︎
  8. Cfr. la relazione riservata del commissario di P.S. Fernando Lo Giudice, addetto alla divisione affari generali e riservati, al capo della polizia Luigi Ferrari, 10 novembre 1945, in Acs, Ministero dell’Interno, Direzione generale della pubblica sicurezza, Div. Aff. Gen. Ris. 1944-46, categoria B5, fase. RI 09 «Atti della Dir. gen. ps trasportati al Nord» ↩︎
  9. BArch, DP 3/2129, Einzelvorgänge, -ermittlungen und Untersuchungskomplexe, Bd. 22, 1977, Herbert Kappler, Stalag VIII B, Lamsdorf/Schlesien KZ Hainichen, pagg. 39-42. ↩︎
  10. Ivi, pag. 41. ↩︎
  11. Ivi, pagg. 45-46. ↩︎
  12. Ivi, Lettera di Helmut Stein dell’Associazione antifascisti VVN, Presidium alla Procura generale della RDT, Francoforte, 2 aprile 1981, pag. 66. 67. Helmut Türk, era il Capo del Dipartimento di diritto penale presso il Ministero degli affari esteri federale ed aveva circa 55 anni.  Era nato il 3 maggio 1920 a Untermaßfeld/Thür. Non è stato possibile accedere ai documenti sul suo passato fascista. ↩︎
  13. cfr. l’articolo di P. Cucchiarelli, La manina, la manona e l’Anello, in “Diario”, 12 dicembre 2003). ↩︎
  14. Cfr. S. Pardera, Il gen. Apollonio: ‘Gravi complicità’, in “l’Unità”, 16 agosto 1977). ↩︎
  15. Cfr. A giudizio 4 carabinieri per la fuga di Kappler, in “La Stampa”, A. 112, n. 32, pag. 2 dell’8 febbraio 1978. ↩︎

© Giovanni Preziosi, 2024

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