L’ultimo dei 15 pescatori che, su indicazione del parroco don Ottavio Posta, salvarono 30 ebrei nell’isola Maggiore sul Trasimeno.
L’ultimo dei 15 pescatori che, su indicazione del parroco don Ottavio Posta, salvarono 30 ebrei nell’isola Maggiore sul Trasimeno.
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Agostino Piazzesi, meglio noto col vezzeggiativo di “Nino”, era l’ultimo dei 15 giovani pescatori del Trasimeno che allora aveva 19 anni, e a rischio della propria vita, nella notte tra il 19 e il 20 giugno del 1944, insieme al parroco di Isola Maggiore sul Lago Trasimeno don Ottavio Posta, insignito dell’alta onorificenza di “Giusto tra le Nazioni” proprio per questo gesto eroico dal consigliere dell’Ambasciata di Israele a Roma Livia Link, remando per una decina di chilometri, misero in salvo un gruppo di circa 30 ebrei perugini confinati dai tedeschi nel Castello Guglielmi sull’Isola Maggiore, trasportandoli a bordo di cinque barche fino all’antico molo di Sant’Arcangelo, nel comune di Magione dove don Ottavio li affidò premurosamente nelle mani fidate delle truppe alleate, sottraendoli in tal modo alla deportazione in Germania e ad un destino cinico e baro che quasi certamente li attendeva.
Difatti, l’audace sacerdote umbro, col preipitare degli eventi, aveva deciso di rivolgersi a quel gruppo di pescatori subito dopo aver appreso che gli ebrei confinati in quel luogo ben presto sarebbero stati deportati verso il campo di concentramento di Fossoli. Oltre ad Agostino Piazzesi, gli altri giovani pescatori che, senza battere ciglio, aderirono alla proposta che gli era stata rivolta dal parroco dell’isola rispondevano al nome di: Gaetano Moretti, Uberto Gabbellini, Roberto Benini, Amedeo Romizi, Giovacchino Fabbroni, Tiberio Piazzesi, Aldo De Santis, Silvio Silvi, Mariano e Danilo Agnolini, Leonello Segantini, Traquinio Fabbroni, Giacomo Grifoni e Angiolino Perai.
Difatti, soltanto pochi giorni prima i tedeschi che occupavano l’isola, per ritorsione, avevano barbaramente trucidato quattro innocenti persone del luogo.
Il 25 ottobre 1943, infatti, il Maggiore Armando Rocchi era stato nominato Capo della Provincia di Perugia, incarico da cui verrà rimosso nel giugno dell’anno successivo. Dal memoriale che scrisse durante la sua detenzione apprendiamo che, nei primi mesi del 1944, si adoperò perfino per salvare dalla deportazione circa trenta ebrei italiani e stranieri arrestati e reclusi nell’Istituto magistrale di Perugia, suggerendone l’internamento nel Castello Guglielmi dell’Isola Maggiore del Trasimeno, anziché inviarli direttamente a Fossoli. La loro custodia, infatti, fu affidata alla questura di Perugia che, oltre agli agenti che aveva regolarmente in organico, si avvalse anche di altri ausiliari della zona affidandone la responsabilità del campo al sergente Luigi Lana di Castiglion del Lago, alla fine di febbraio 1944, che – come confermerà lo stesso Piazzesi – diede il suo consenso al progetto di don Ottavio nell’organizzare la fuga dei detenuti.
«Con eguale lealtà […] ho collaborato con l’alleato germanico, opponendomi peraltro, con tutta decisione a quelle sue pretese, che apparivano assurde (…), alla deportazione e spogliazione degli ebrei e dei detenuti politici (…). Ha ispirato la mia azione di governo il seguente criterio: “non essere l’appartenenza a razza ebraica motivo di spoliazione, di restrizione personale, di deportazione e di soppressione”. Di conseguenza, poiché io dovevo pur sempre eseguire e far eseguire le leggi del mio Governo, le disposizioni antiebraiche, da me non condivise, furono applicate con la maggior possibile lentezza, in modo che questi, indirettamente, ma tempestivamente preavvertiti, della disposizione in procinto di essere adottata, subirono da questo il minor danno possibile».
Armando Rocchi
Quanto asseriva l’ex prefetto Rocchi fu puntualmente confermato, il 10 agosto 1945, anche dal Questore di Perugia Baldassare Scaminaci, il quale così dichiarava nella sua deposizione:
Giusto ordine riferisca circa le disposizioni date dal Rocchi in Ministeriale, venni incaricato, sulla fine di novembre 1943 (millenovecentoquarantatre) di reggere la Questura di Perugia, alle dipendenze del Prefetto dott. Armando Rocchi.
Allorquando pervenne dal Governo centrale del tempo l’ordine-radio delle misure di rigore da adottarsi in confronto agli appartenenti alla razza ebraica, il suddetto Prefetto, o Capo della Provincia come allora appellavansi, mi chiese se ritenevo o meno il caso di dare esecuzione immediata a tale ordine o se non fosse logico attendere invece ordine telegrafico o scritto; ritenni tale domanda suggestiva in senso favorevole agli ebrei e ne ebbi conferma allorché feci presente la necessità di attendere la conferma scritta allo scopo di conoscere le modalità di esecuzione. Il dott. Rocchi accolse con evidente soddisfazione il pretesto legale di non dare corso all’ordine-radio ministeriale e tenne fermo tale punto di vista, anche di fronte a pressioni di altri organi. In seguito, credo due giorni dopo, pervenne alla Prefettura l’ordine telegrafico di procedere al fermo degli ebrei, da arrestare e tradurre poi nei campi di concentramento. Ciò malgrado e con nuovo pretesto di difficoltà di interpretazione del testo telegrafico, il prefetto dott. Rocchi lasciò passare ancora altre dodici ore prima di passare l’ordine agli organi esecutivi. Risultato di tali tergiversazioni fu quello che la quasi totalità degli appartenenti alla razza ebraica ebbero agio di sottrarsi indisturbati asportando seco tutti i valori. Quei pochi i quali, malgrado tali misure, si fecero trovare in casa e che furono arrestati, non vennero messi in carcere ma prima, nel periodo invernale, furono allogati in un locale adatto, nelle Scuole Magistrali, appositamente requisito, consentendo loro di usufruire di materiale mobile di proprietà (letti, coperte, qualche tavolo, sedie e financo cucine) e di fare in città degli acquisti personalmente, accompagnati da qualche agente di Pubblica Sicurezza; successivamente nel periodo estivo, dico meglio primaverile, quei pochi ebrei, credo che in tutto fossero una quindicina, vennero trasportati nell’Isola Maggiore sul Trasimeno, nella villa del marchese Guglielmi, dove godevano di una completa libertà diurna. Tale località venne, per interessamento spontaneo del dott. Rocchi, prescelta per evitare la loro traduzione al campo di concentramento di Carpi, richiesta ripetutamente al Ministero.
Questore di Perugia Baldassare Scaminaci
In tal modo, più di un mese prima che fosse emanata la disposizione antiebraica a cui fanno riferimento sia Rocchi che Scaminaci, l’ebreo Abramo Krachmalnicoff, fu tempestivamente messo al corrente di un suo imminente arresto, grazie al quale riuscì subito a far perdere e sue tracce insieme ai propri familiari. Con l’approssimarsi del processo che doveva celebrarsi a suo carico, Rocchi si preoccupò anche di raccogliere una serie di dichiarazioni autografe degli Ebrei che aveva salvato dalla deportazione, tra cui riportiamo proprio quella di Abramo Krachmalnicoff, il quale così scriveva il 4 settembre 1945:
«A richiesta della famiglia di Armando Rocchi posso dichiarare quanto segue. Nell’ottobre 1943, quando sono stato perseguitato per ragioni razziali, sono stato avvertito da Armano Rocchi a mezzo di un comune amico di un mandato di cattura emesso a carico mio (…). Ho ragione di presumere che, durante il periodo ottobre 1943 – giugno 1944, Rocchi sapeva dove mi nascondevo con la mia famiglia, ma non ha fatto nulla per raggiungermi (…). Aggiungo inoltre che ho fatto questa dichiarazione, non per diminuire le gravissime colpe di Armando Rocchi, ma perché credo che sia mio dovere di dire la verità».
Abramo Krachmalnicoff
A suffragare quanto scriveva l’ex prefetto di Perugia, il 3 settembre 1945, ci pensò Livia Coen, un’ebrea perugina, che all’epoca era stata detenuta all’Isola Maggiore, la quale dichiarò che:
Io sottoscritta Livia Coen dichiaro che il giorno 14 dicembre 1943 insieme a mia sorella Albertina e mia cognata Ada Saralvo fui arrestata dai Carabinieri perché appartenente a razza ebraica e fui portata in campo di concentramento prima alla Villa Ajò, poi alle Scuole Magistrali e infine al Castello Guglielmi. Il Capo della Provincia dott. Armando Rocchi mi chiamò in Prefettura due giorni dopo che fui arrestata e mi addimostrò il suo dispiacere per il nostro arresto e aggiunse che non potendo far nulla per la nostra liberazione mi promise che fino a che lui era Capo della Provincia, non ci avrebbe allontanato dalla Provincia; infatti questa promessa la mantenne. Alla richiesta che dovevamo essere trasportati dalle Magistrali al Campo di Concentramento Nazionale di Carpi in provincia di Modena, lui pensò di metterci al Castello Guglielmi, Isola Maggiore, sul Trasimeno, tanto per mantenere la sua parola e nasconderci dalle ire tedesche.
Livia Coen
Soltanto successivamente si scoprirà che l’agente di Pubblica Sicurezza in questione di cui accennava Livia Coen era tale Giuseppe Baratta, originario di Perito, un paesino in provincia di Salerno, dove era nato nato il 19 gennaio 1919. Dopo essersi arruolato nella Pubblica Sicurezza nel 1940 fu inviato alla piazza di Milano per poi essere trasferito successivamente alle questure di Perugia, Forlì ed infine a quella di Ancona dove morirà il 26 gennaio 1994.
Ma ecco come fu descritto, qualche anno fa, con dovizia di particolari, questo episodio dallo stesso protagonista, Agostino Piazzesi.
Nel giugno del 1944, in due notti diverse, don Ottavio Posta insieme con altri pescatori, portò con cinque barche a S. Arcangelo da Isola Maggiore, circa trenta ebrei prigionieri, salvandoli dalla deportazione in Germania da parte dei tedeschi consegnandoli agli inglesi a S. Arcangelo di Magione. Il piano di fuga era stato organizzato nei minimi particolari, come si trattasse di una operazione militare: in ogni barca ci dovevano essere tre pescatori rematori e tre ebrei passeggeri, le barche dovevano navigare in fila indiana alla distanza di circa cento metri l’una dall’altra; nella prima barca doveva esserci don Ottavio Posta. Circa dieci i chilometri da percorrere remando perché si era saputo che gli alleati erano arrivati a Sant’Arcangelo ma il resto del lago era in mano ai tedeschi che avrebbero potuto portare con loro gli ebrei di Isola Maggiore durante la ritirata.
Agostino Piazzesi
Nell’Archivio diocesano di Perugia, alcuni anni or sono, è stata rinvenuta una lettera di ringraziamento, datata 23 agosto 1944, inviata da Bice Todros Ottolenghi, Giuliano Coen, Albertina Coen e Livia Coen all’allora vescovo mons. Vianello, che contribuisce a far luce sul ruolo svolto dal parroco dell’Isola, don Ottavio Posta, e dai quindici giovani pescatori nel salvataggio degli ebrei che erano internati in quel luogo. Ecco il testo integrale:
Eccellenza,
Desideriamo rendere noto a Vostra Eccellenza che don Ottavio Posta, parroco dell’Isola Maggiore sul Trasimeno, durante il periodo della nostra prigionia nell’isola per le leggi razziali, fu per noi di grande aiuto e conforto. Quando il pericolo maggiormente incalzava per le minacce dei tedeschi contro di noi, egli con atto veramente paterno e generoso, non solo indusse gli isolani a trasportarci nella riva ove erano dì già gli inglesi; ma lui stesso affrontò con noi il pericolo della traversata sul lago, sotto il tiro del cannone e delle mitragliatrici, dando un fulgido esempio ai suoi parrocchiani e meritando la nostra più profonda riconoscenza. Saremmo assai grati a Vostra Eccellenza se volesse rendersi interprete con la sua alta parola verso il benemerito don Ottavio Posta della nostra gratitudine per il suo atto altruistico e di buon Pastore verso degli infelici oppressi da leggi inumane.
Ringraziando, porgiamo i nostri più reverenti saluti, anche a nome di tutti gli ex internati, ora assenti da Perugia.
Bice Todros Ottolenghi, Giuliano Coen, Albertina Coen e Livia Coen
Tuttavia, per comprendere appieno questa vicenda e tributare il doveroso omaggio alla memoria di questo generoso protagonista, vi propongo qui di seguito un’interessante e toccante intervista realizzata qualche tempo fa ad Agostino Piazzesi dal regista Giacomo Del Buono e dallo sceneggiatore Alessio Schreiner.
© Giovanni Preziosi, 2022
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