L’AFFAIRE PALATUCCI: “Giusto” o collaborazionista dei nazisti?
Vi presento in il mio nuovo saggio che esce proprio in questi giorni edito dal Comitato Palatucci di Campagna dal titolo:L’AFFAIRE PALATUCCI“Giusto” o collaborazionista dei nazisti?Un dettagliato reportage tra storia e cronaca alla luce dei documenti e delle testimonianze dei sopravvissuti(Edizioni Comitato Palatucci di Campagna, 2015, pagine 80)IndicePresentazione del Presidente del Comitato Palatucci di Campagna Michele AielloPrefazione del Professore emerito dell’Università di Salerno Giuseppe AconePrefazione dell’AutoreCapitolo IIl dibattito storiografico e quello mass mediatico.Analisi a confronto: le tesi avanzate dal Primo Levi CenterCapitolo IILa memoria ritrovata:testimonianze di collaboratori e beneficiati da PalatucciCapitolo IIILa storia del salvataggio della giovane ebrea Maria “Mika” Eisler e della madre Dragica Braun ad opera di Giovanni Palatucci ConclusioniPREFAZIONE DELL’AUTOREPREFAZIONE DELL’AUTOREIl lavoro che presentiamo è frutto di una paziente e meticolosa ricerca confluita in vari articoli pubblicati su L’Osservatore Romano[1] e nel secondo numero della rivista telematica Christianitas di Storia, Pensiero e Cultura del Cristianesimo[2]. Lo spunto ci è stato offerto dalla querelle sollevata dai ricercatori del Primo Levi Center di New York in merito alla vicenda del salvataggio degli ebrei fiumani ad opera del giovane responsabile dell’Ufficio stranieri Giovanni Palatucci che, secondo quanto asseriscono i suoi detrattori, non sarebbe affatto la versione italiana di Schindler ma, al contrario, soltanto un oscuro funzionario che eseguì pedissequamente gli ordini superiori, al punto da essere annoverato addirittura tra quella folta schiera di collaborazionisti dei tedeschi che non si facevano alcuno scrupolo nel denunciare chiunque non appartenesse alla razza ariana. Insomma tutte le testimonianze e i documenti accreditati dai vari studi compiuti finora non sarebbero altro se non una colossale costruzione mitologica fomentata dallo zio dell’ex questore …
Vi presento in il mio nuovo saggio che esce proprio in questi giorni edito dal Comitato Palatucci di Campagna dal titolo:
L’AFFAIRE PALATUCCI
“Giusto” o collaborazionista dei nazisti?
Un dettagliato reportage tra storia e cronaca alla luce dei documenti e delle testimonianze dei sopravvissuti
(Edizioni Comitato Palatucci di Campagna, 2015, pagine 80)
Indice
Presentazione del Presidente del Comitato Palatucci di Campagna Michele Aiello Prefazione del Professore emerito dell’Università di Salerno Giuseppe Acone Prefazione dell’Autore
Capitolo I
Il dibattito storiografico e quello mass mediatico.
Analisi a confronto: le tesi avanzate dal Primo Levi Center
Capitolo II
La memoria ritrovata: testimonianze di collaboratori e beneficiati da Palatucci
Capitolo III
La storia del salvataggio della giovane ebrea Maria “Mika” Eisler e della madre Dragica Braun ad opera di Giovanni Palatucci
Conclusioni
PREFAZIONE DELL’AUTORE
PREFAZIONE DELL’AUTORE
Il lavoro che presentiamo è frutto di una paziente e meticolosa ricerca confluita in vari articoli pubblicati su L’Osservatore Romano[1] e nel secondo numero della rivista telematica Christianitas di Storia, Pensiero e Cultura del Cristianesimo[2]. Lo spunto ci è stato offerto dalla querelle sollevata dai ricercatori del Primo Levi Centerdi New York in merito alla vicenda del salvataggio degli ebrei fiumani ad opera del giovane responsabile dell’Ufficio stranieri Giovanni Palatucci che, secondo quanto asseriscono i suoi detrattori, non sarebbe affatto la versione italiana di Schindler ma, al contrario, soltanto un oscuro funzionario che eseguì pedissequamente gli ordini superiori, al punto da essere annoverato addirittura tra quella folta schiera di collaborazionisti dei tedeschi che non si facevano alcuno scrupolo nel denunciare chiunque non appartenesse alla razza ariana. Insomma tutte le testimonianze e i documenti accreditati dai vari studi compiuti finora non sarebbero altro se non una colossale costruzione mitologica fomentata dallo zio dell’ex questore di Fiume, il vescovo di Campagna mons. Giuseppe Maria Palatucci, col preciso intento di assicurare una lauta pensione di guerra ai genitori[3].
Dopo aver letto con comprensibile sconcerto le conclusioni, a dire il vero alquanto capziose, a cui sono pervenuti questi illustri studiosi d’oltreoceano, fatte passare dai maggiori mass-media internazionali come scoperte sensazionali, in assoluto dispregio della ragione e della verisimiglianza storica, subito ci è parso di ravvisare qualche incongruenza di troppo tale da far ritenere che questa imponente campagna mediatica, orchestrata adhoc negli Stati Uniti, perseguiva un disegno ben preciso. L’asprezza dei toni inspiegabilmente esacerbati, infatti, lasciava presagire il vago sospetto che, in realtà, l’obiettivo principale era un altro; in buona sostanza si cerca- va di demolire ab imis la figura di Palatucci per colpire, invece, con allusioni più o meno dissimulate, Pio XII.
S’imponeva, dunque, una riflessione più accurata in grado di focalizzare meglio alcuni aspetti che, nel corso di questi anni, ci sembrano siano ri- masti ai margini del dibattito storiografico, allargando il campo d’indagine anche alla memorialistica, in modo da sciogliere i nodi legati al ruolo effettivamente svolto da Palatucci nel salvataggio degli ebrei, attraverso la rilettura delle fasi cruciali che hanno segnato gli anni trascorsi nella pittoresca città quarnerina. L’evidente décalage tra i fatti realmente accertati e quanto asserito apoditticamente dagli studiosi del Primo Levi Center, ha indotto alcuni storici, tra i quali anche chi scrive, ad approfondire – con dovizia di particolari – questa vicenda senza lasciarsi suggestionare da alcun pregiudizio, preferendo – a differenza di altri – che a parlare siano piuttosto i documenti e le testimonianze meticolosamente raccolte nel corso di questa ricerca, anziché vaghe e inconsistenti elucubrazioni destituite di fondamento.
Il lavoro che ci attendeva, com’è facile dedurre, non si è rivelato certo agevole; ma, al contrario, ha implicato, necessariamente, una buona dose di abilità nel ricucire fatti e personaggi distanti tra loro, mai però a detrimento della compattezza della narrazione. Si è tentato, così, di dar voce a dati e avvenimenti, espungendo – in parte – quelli già noti lippis et tonsoribus, in modo tale che il racconto potesse risultare palpitante, avvincente e scevro da qualsiasi condizionamento. Ci si è messi, dunque, alla ricerca delle fonti, edite ed inedite, che potevano servire al caso, non trascurando alcun particolare, ma neppure accettando come oro colato quanto veniva presentato o asserito da altri, nel tentativo di rispondere ad alcuni quesiti rimasti ancora inevasi dalla storiografia.
In queste pagine, dunque, presentiamo i risultati di una paziente e minuziosa spigolatura all’interno di vari fondi archivistici, compresa la fitta corrispondenza del vescovo di Campagna, mons. Giuseppe Maria Palatucci, accuratamente esaminata proprio allo scopo di fornire un’ulteriore chiave di lettura alle illazioni formulate dal Primo Levi Center.
Il metodo che ha ispirato questo lavoro è stato quello tipico del ricercatore scrupoloso e puntiglioso, per cui il materiale raccolto è passato al vaglio di una preventiva critica obiettiva avulsa da qualsiasi strumentalizzazione, nel tentativo di ricostruire i fatti così come si sono realmente svolti.
Da qui ci siamo mossi, poi, per indagare a fondo i motivi, che a nostro avviso, hanno indotto i ricercatori newyorkesi a sollevare questo enorme vespaio di polemiche.
Sull’abbrivio di questo presupposto, chi scrive, dipanando l’ingarbugliata matassa dell’ingente materiale raccolto è riuscito, non senza qualche difficoltà, a mettere insieme una serie di documenti e testimonianze interessanti, senza indulgere alla fantasia o al fascino indiscreto e all’estrosità del narratore.
Fino ad alcuni anni or sono, infatti, fiumi d’inchiostro sono stati versati per illustrare, con dovizia di particolari, gli aspetti più reconditi di quegli anni roventi, mentre soltanto marginalmente veniva esaminata l’opera di salvataggio svolta da tanti funzionari di Pubblica Sicurezza che, sprezzanti del pericolo a cui andavano consapevolmente incontro, non restarono indifferenti alle atrocità perpetrate dai nazisti e dai loro sodali in camicia nera, adoperandosi attivamente per cercare di impedire lo scempio che si stava consumando sotto i loro occhi ai danni di tante persone innocenti, colpevoli soltanto di appartenere ad un’altra etnia e di professare un diverso credo religioso.
Tuttavia, in tempi recenti, sembra di assistere, finalmente, ad un’inver- sione di tendenza, al punto che gli angusti orizzonti del passato iniziano a diradarsi e gli studi su queste tematiche vanno progressivamente assu- mendo un’importanza sempre più rilevante, contribuendo a gettare un ulteriore fascio di luce su questi anni oscuri.
Gli aspetti inerenti al rapporto epistolare – e non solo – di Giovanni Palatucci con lo zio vescovo di Campagna, per un verso, e quelle riguardanti la proficua collaborazione con gli altri suoi colleghi sparsi in altre zone della penisola come Feliciano Ricciardelli a Trieste e Carmelo Mario Scarpa a Milano, per l’altro, costituiscono dunque i poli di maggiore concentrazione del nostro studio, mentre si è preferito lasciare sullo sfondo le vicissitudini che caratterizzarono i rapporti conflittuali del giovane funzionario della Questura di Fiume con i propri superiori fin dagli anni genovesi, che solo marginalmente vengono toccati per non appesantire troppo la narrazione[4].
Così, sulla scia di questi nuovi ambiti aperti dalle recenti acquisizioni archivistiche, anche in questo breve saggio, si è battuta una nuova pista di ricerca, percorrendo un sentiero ancora non sufficientemente esplorato, quello cioè riguardante le testimonianze di coloro che hanno vissuto in prima persona alcuni episodi che videro protagonista Giovanni Palatucci, le quali dimostrano, al di là di ogni ragionevole dubbio, l’assoluta inconsistenza dell’assioma postulato dagli epigoni del negazionismo palatucciano tout court.
In realtà, come sembrano attestare i primi risultati di ricerca su questo terreno, le conclusioni a dir poco avventate a cui sono pervenuti gli stu- diosi del Primo Levi Center, peraltro non suffragate – almeno finora – neanche da un briciolo di prova documentale, ci sembrano dettate più dal desiderio di infangare l’immagine adamantina che è emersa nel corso di questi anni dell’ex questore di Fiume, piuttosto che affrontare questa vicenda con metodo scientifico per fornire un valido contributo alla comprensione di questo complesso fenomeno.
Pertanto, l’auspicio che ci sentiamo di formulare per l’avvenire è che d’ora innanzi si possa incentivare, senza alcuna prevenzione, un proficuo dialogo tra gli storici delle opposte correnti di pensiero, perché dal confronto delle idee scaturisce sempre un arricchimento reciproco in grado di dissipare dubbi e incertezze.
Sulla traccia dei temi e dei problemi sin qui delineati vi invitiamo, dunque, alla lettura di questo breve saggio nel quale si è tentato di coniugare, sapientemente, la ricchezza delle fonti con un’adeguata analisi ermeneutica, affinché l’esposizione potesse risultare gradevole, lasciando poi ai lettori trarre le conclusioni che reputeranno più opportune.
[4] Si veda in merito la Lettera di Giovanni Palatucci ai genitori che scrisse da Fiume l’8 ottobre 1941, nella quale dichiarava senza alcun infingimento:
«I miei rapporti coi superiori sono formali. Più esattamente essi sanno di aver bisogno di me, di cui, a quanto sembra, non possono fare a meno, e certamente mi considerano bene, mi stimano come capacità e rendimento; ma sanno bene che, grazie a Dio, sono diverso da loro. Siccome lo so anch’io, i rapporti sono di buon vicinato ma non cordiali. La cosa non ha molta importanza. Non è a loro che chiedo soddisfazioni ma al mio lavoro, che me ne dà molte. Ho la possibilità di fare un po’ di bene, e i miei beneficiati me ne sono assai riconoscenti».
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