Il “caso Selan” e il confronto con la storia. L’amaro epilogo di una polemica nata nell’estate di undici anni fa.
Il “caso Selan” e il confronto con la storia. L’amaro epilogo di una polemica nata nell’estate di undici anni fa.
Getting your Trinity Audio player ready...
|
Sono trascorsi 79 anni esatti dalla morte di Giovanni Palatucci avvenuta, com’è noto, il 10 febbraio del 1945 nel campo di concentramento di Dachau e mai avremmo immaginato che da vittima sarebbe divenuto, inopinatamente, carnefice. Questo, in pratica, è ciò che è accaduto in seguito al duro attacco sferrato dal Primo Levi Center di New York nell’estate del 2013 che, di punto in bianco, senza peraltro fornire neanche un briciolo di prova documentale a sostegno delle proprie tesi a dir poco discutibili, ha stigmatizzato aspramente l’operato dell’ex questore reggente di Fiume al punto da annoverarlo addirittura tra quella folta schiera di collaborazionisti dei tedeschi che non si facevano alcuno scrupolo nel denunciare chiunque non appartenesse alla razza ariana. Come era prevedibile, in un batter d’occhio, questa clamorosa notizia incominciò a fare il giro del mondo venendo rilanciata “acriticamente” dai maggiori mass-media con titoli poco lusinghieri del tipo: Il presunto eroe. Palatucci, tutte le ombre sulla vita dello “Schindler italiano”;[1] Palatucci non fu un Giusto. Yad Vashem riapre la questione. Escluso da una mostra in Usa. E il Vaticano studia il caso[2]; ed ancora Lo Schindler italiano che non ha mai salvato un ebreo.[3]
Soltanto per citarne qualcuno!
Tutto ciò, beninteso, col malcelato obiettivo di sfatare drasticamente quel cliché di “angelo della notte” che nel corso degli anni si era ormai consolidato, cercando di dimostrare – alquanto goffamente – che, al contrario, il giovane responsabile dell’Ufficio stranieri della questura di Fiume sarebbe stato nient’altro che un “un volenteroso esecutore della legislazione razziale il quale – dopo aver giurato alla Repubblica Sociale di Mussolini – collaborò con i nazisti», applicando pedissequamente gli ordini impartiti dai suoi superiori e partecipando attivamente alla «rete di informazione della RSI e della polizia tedesca che ha portato alla deportazione degli ebrei di Fiume, firmando dispacci per segnalare l’identità degli ebrei nascosti”.[4]
Insomma tutte le testimonianze e i documenti accreditati dai vari studi compiuti finora, stando a quanto asserivano i ricercatori del Primo Levi Center, non sarebbero altro se non una colossale costruzione mitologica fomentata dallo zio dell’ex questore di Fiume, il vescovo di Campagna mons. Giuseppe Maria Palatucci, col preciso intento di assicurare una lauta pensione di guerra ai genitori. Già da queste conclusioni, a dire il vero alquanto capziose, fatte passare dai maggiori mass-media internazionali come scoperte sensazionali, in assoluto dispregio della ragione e del metodo storiografico, subito ci è parso di ravvisare qualche incongruenza di troppo tale da far ritenere che questa imponente campagna mediatica, orchestrata ad hoc negli Stati Uniti, perseguiva un disegno ben preciso.
L’evidente décalage tra i fatti realmente accertati e quanto asserito apoditticamente dagli studiosi d’oltreoceano, ha indotto alcuni storici, tra i quali anche chi scrive, ad approfondire – con dovizia di particolari – questa vicenda senza lasciarsi suggestionare da alcun pregiudizio, preferendo – a differenza di altri – che a parlare siano piuttosto i documenti e le testimonianze meticolosamente raccolte nel corso di questa laboriosa ricerca, anziché vaghe e inconsistenti elucubrazioni destituite di fondamento.
Non è nostro costume, precisiamo, alimentare sterili e stucchevoli diatribe o schermaglie dialettiche, quanto piuttosto quello di esaminare i fatti in modo obiettivo senza indulgere in ricostruzioni vaghe e pretestuose. Ma andiamo con ordine e vediamo, con dovizia di particolari, come ha avuto inizio questa querelle e, soprattutto, quando è scattata la macchina del fango prendendo come riferimento la vicenda che riguardò la famiglia di Carl Selan e della consorte Lotte Eisner per documentare l’opera realmente svolta a Fiume in quegli anni da Giovanni Palatucci, grazie all’ausilio di numerose testimonianze e documenti inediti meticolosamente raccolti nel volume che chi scrive, dopo alcuni anni di laboriose ricerche, nel dicembre 2015 ha dato alle stampe, riveduto ed ampliato successivamente nel 2022 con la seconda edizione e, a breve, sarà pubblicata finanche una terza edizione con nuovi particolari inediti.[5]
Qui di seguito la relazione tenuta in occasione del convegno dal titolo:
“70° anniversario della morte di Giovanni Palatucci. Memorie, rappresentazioni e nuove ricerche”
(Campagna, 29 maggio 2015)
La famiglia Selan: dalla Croazia ustaša di Ante Pavelić all’Italia passando per quel ponte sul fiume Eneo.
Nell’aprile del 1941, subito dopo la proclamazione dell’indipendenza della Croazia e l’insediamento a capo del nuovo Stato fantoccio, del leader del movimento nazionalista ustaša Ante Pavelić, nel breve volgere di qualche mese si scatenò una furibonda caccia all’ebreo condotta dagli uomini più efficienti della gendarmeria ustaša agli ordini del famigerato capo della polizia Eugen Dido Kvaternik che procedettero dapprima all’arresto e poi all’internamento degli ebrei nei campi di concentramento in via di allestimento a Danica, nei pressi della città di Koprivnica, quello di Jadovno, alle pendici dei monti Velebit, a circa 20 chilometri da Gospić e quello che più tristemente è passato alla storia di Jasenovać, a un centinaio di chilometri da Zagabria. Era il preludio del folle disegno vagheggiato da Pavelić e dai suoi sodali che mirava allo sterminio sistematico di tutte le minoranze non croate. Nel giro di pochi giorni, infatti, subito si registrarono le prime stragi che non risparmiarono neanche donne e bambini, come nel caso di Bjelovar dove furono barbaramente trucidate ben 250 persone tra uomini e donne, dopo essere stati costretti perfino a scavarsi la fossa.[6]
Di conseguenza, per sfuggire agli ustaša gli ebrei seguirono in quel periodo, prevalentemente, due direttrici: Zagabria-Spalato e Sušak-Fiume; dopodiché, appena approdati sulla costa adriatica si dileguavano nelle città e nei villaggi circostanti. È proprio ciò che fecero anche i fratelli Selan.[7]
Appena i tedeschi invasero la Jugoslavia – racconta Edna Selan Epstein, la primogenita di Carl e Lotte Eisner – nel mese di aprile del 1941 ebbe inizio la fuga della mia famiglia per nasconderci e per mettere in salvo la nostra vita. Siamo andati in Italia. Mio padre è fuggito subito dopo che gli ustaša sono venuti a prenderlo presto una mattina di aprile del 1941 presso il nostro appartamento che sorgeva in via Zrinjevach, un’elegante strada residenziale di Zagabria. Mia madre riuscì a convincerli che mio padre non era in casa, ma fuori per un viaggio d’affari. Forse al vedere quella giovane donna con due bambine piccole l’ufficiale ustaša s’impietosì e rinunciò a perquisire l’appartamento. Se lo avesse fatto, avrebbe immediatamente trovato mio padre in camera da letto. Appena andarono via, nel giro di poche ore, mio padre partì per l’Italia.[8]
In effetti, come si evince dalla documentazione rinvenuta negli archivi di Bad Arolsen, Carl Selan si diresse proprio a Sušak, nel territorio occupato dagli italiani.[9] Qui, infatti, operava il rabbino Otto Deutsch che, essendo anche il referente locale della Delasem, a quel tempo si prendeva cura dei profughi ebrei che affluivano dalla Croazia soprattutto dopo le leggi antisemite varate da Pavelić. Proprio per questo motivo, come dichiarava Americo Cucciniello, fedele braccio destro di Palatucci,
Questo particolare, del resto, è confermato anche da Giuseppe Veneroso, all’epoca dei fatti qui narrati in forza alla compagnia della Guardia di Finanza in servizio proprio al porto di Buccari.
Facevamo a rotazione, tre mesi di servizio al porto di Buccari e altri tre mesi al distaccamento di Buccarizza, al confine di terra con la Croazia. In entrambi i posti di servizio ricordo perfettamente che, durante le lunghe notti, agenti della Pubblica Sicurezza accompagnavano gruppi di civili fino al nostro posto di guardia, per farli espatriare in sordina. Tutti quanti erano provvisti di lasciapassare a firma dell’allora commissario Palatucci, e tutti noi eravamo a conoscenza che erano ebrei in fuga.[11]
Effettivamente, sembra proprio che questo “canale” sull’Eneo in quel periodo fosse piuttosto frequentato per poter approdare a Fiume, come ci conferma anche Franco Avallone, figlio della Guardia Scelta di P.S. Raffaele Avallone e stretto collaboratore di Palatucci, il quale riferisce un interessante episodio che vide per protagonista il giovane funzionario dell’Ufficio stranieri, la madre Anna Casaburi e l’allora rabbino di Sušak.
Ricordo – dichiara Avallone – che mio padre spesso usciva con Palatucci per organizzare il salvataggio di molte persone, per la maggior parte ebree, cercando di trovare una sistemazione sicura per poi smistarle in altre città d’Italia, dove poteva contare su riferimenti sicuri. In seguito anche mia madre fu coinvolta nel salvare numerosi ebrei.
Infatti, secondo la versione ufficiale, spesso si recava a Sušak per acquistare delle primizie agricole provenienti dalle campagne circostanti, ma in effetti lo scopo principale era quello di conoscere quanti ebrei aspettavano di varcare i confini con l’Italia.
Nella zona di Sušak – continua Avallone – operava il Rabbino Deutsch che era un punto di riferimento importante per gli ebrei dei paesi dell’Europa orientale. Il commissario Palatucci aveva creato con lui, attraverso una rete di amici comuni, una strada per salvare tanti ebrei dai campi di sterminio.[12]
Proprio per questo motivo, il 21 giugno 1941, Palatucci aveva fatto rilasciare dalla Questura di Fiume alla moglie del suo collaboratore una Tessera di frontiera per il confine Jugoslavo.
Pertanto, appena giunto a Fiume, il 9 giugno 1941, Carl Selan si recò immediatamente in Questura dove, sulla base del suo passaporto jugoslavo, gli fu rilasciato un visto di soggiorno in qualità di “turista” cosicché, il 14 luglio successivo, tirando un lungo sospiro di sollievo, riuscì finalmente a stabilirsi presso una pensione al civico 52 di via Trieste. Poi, due giorni dopo, provvide ad inoltrare due distinte richieste: la prima al consolato spagnolo a Sušak per ottenere un visto e l’altra alla questura di Fiume per il ricongiungimento con i propri familiari che si trovavano ancora a Zagabria, facendo presente alle autorità italiane il pericolo che correvano restando ancora lì “a causa delle politiche anti-semite degli Ustascia”.[13]
Difatti, il suocero, Oto Eisner, confidando sull’amicizia nata sui banchi di scuola col poglavnik, era convinto che sarebbe stato risparmiato da quei feroci rastrellamenti, per cui aveva preferito, piuttosto avventatamente, restare a Zagabria.[14] Questa sua illusione, infatti, non durò molto, considerato che di lì a poco gli ustaša si presentarono presso la sua abitazione per portarlo via. In preda al panico, l’unica alternativa che a quel punto gli parve più plausibile, per scongiurare la deportazione, fu quella di praticarsi un taglio ai polsi in modo da essere ricoverato in ospedale. Ma anche quell’espediente, tuttavia, non gli valse a niente, perché qualche giorno dopo i miliziani croati andarono a prelevarlo finanche dal suo letto d’ospedale. Fu a quel punto che si rese conto che ormai per lui non c’era più scampo, per cui preferì lanciarsi dalla finestra piuttosto che affrontare l’orrenda sorte che lo attendeva.
Per fortuna le cose andarono diversamente per la figlia e le nipotine, perché la richiesta di ricongiungimento familiare presentata da Carl fu prontamente accolta dalla questura fiumana, tant’è che già ai principi di agosto subito fu escogitato il piano per far oltrepassare la frontiera croata e far giungere a Fiume la moglie Lotte Eisner con le loro due bambine Edna e Mira, rispettivamente di appena 3 anni e 9 mesi.
La stessa procedura fu messa in atto l’anno successivo quando, dopo la morte del nonno paterno Wilhelm il padre, evidentemente con l’aiuto di qualche persona di sua conoscenza, riuscì a far arrivare a Fiume anche la madre Serafina Ungar. In quel periodo, infatti, alcuni soldati e, in taluni casi perfino interi reparti, di fronte all’imperversare della violenza perpetrata dagli ustaša finanche nei confronti di donne e bambini, esponendosi a gravi rischi, trasgredirono agli ordini di “non ingerenza” e accolsero gli ebrei nei territori d’occupazione italiani, strappandoli così dalle grinfie dei loro aguzzini, senza badare più di tanto agli attriti che sarebbero scaturiti con gli alleati tedeschi e croati.[16]
Fu così che, poco dopo, anche i Selan ebbero la possibilità di trasferirsi nella più appartata e pittoresca città di Laurana, a poca distanza da Fiume, dove trovarono un appartamento al civico 144 di via Oprino, neanche a farlo apposta proprio dove, il 30 aprile dell’anno successivo, inviate da Palatucci alloggeranno al n. 135, presso Villa Maria, le due profughe ebree croate originarie di Karlovać Dragica Braun[17] con la figlia Maria Eisler di cui molto si è scritto sulla sua presunta liaison con Palatucci.[18] La madre, infatti, dopo aver atteso invano il ritorno del marito – che poi si saprà essere stato ucciso dagli ustaša nel luglio del 1941 nel campo di concentramento di Jadovno, nei pressi di Gospić insieme ad altri 229 ebrei – aveva abbandonato precipitosamente Karlovać per raggiungere la figlia a Fiume, dove giunse il 21 gennaio 1942, dopo un rocambolesco viaggio a bordo di una corriera partita proprio da Sušak.
Come si può notare, dunque, il percorso o “canale” come dir si voglia, era sempre lo stesso e proprio attraverso “quel ponte sul fiume Eneo”, che divideva il territorio fiumano dalle terre jugoslave controllate dall’esercito italiano, riuscirono a raggiungere Fiume sia i fratelli Selan e sia Dragica Braun, tant’è che Palatucci il 10 maggio 1944, in una lettera riservatissima al Capo della Polizia della R.S.I. Tullio Tamburini, si affrettava a sottolineare che:
Il ponte sull’Eneo è sempre aperto, sicché i croati di qualunque provenienza possono tranquillamente venire a Fiume e inoltrarsi nel territorio della Repubblica. Ciò a onta delle ripetute insistenze per il ripristino del controllo di Polizia alla frontiera. I rapporti con le autorità di Plizia croate e di Sussa, che sono resi spesso necessari dalle interferenze di natura sociale ed economica tra le due città contigue, sono acrimoniosi. Risentono il peso del recente passato.[19]
Ma ecco come ci descrive, con dovizia di particolari, le vicissitudini della sua famiglia subito dopo essere giunti a Fiume la signora Edna.
Difatti, come sottolinea Carl Selan nella lettera inviata da New York il 10 marzo 1954 allo zio dell’ex Questore Reggente di Fiume, il vescovo di Campagna mons. Giuseppe Maria Palatucci, ebbe l’opportunità “di parlare personalmente con lui molte volte” quando si recava nella pittoresca cittadina rivierasca sulle sponde dell’Adriatico per far visita ad “amici comuni”[21] ed assicurarsi che tutto procedeva per il verso giusto.
Probabilmente, proprio in una di queste circostanze, come raccontava la madre di Edna, la signora Lotte Eisner, Giovanni Palatucci consigliò “come evitare di essere catturati dai tedeschi”, fornendo loro persino “le tessere annonarie, comprese quelle per poter acquistare le scarpe”.
Ma secondo il Primo Levi Center questo particolare sarebbe del tutto irrilevante, tant’è che non ha esitato a liquidare questa faccenda con la stravagante affermazione secondo cui “il governo italiano ha continuato a erogare i visti di transito per gli ebrei fino al 1941, in quanto rappresentavano un notevole impulso per l’economia locale”.[22]
Ogni ulteriore commento ci sembra superfluo…
A Laurana, tuttavia, la vita trascorse piuttosto tranquillamente almeno fino all’estate del 1942 quando, tra il 13 e il 20 agosto, col precipitare degli eventi nelle vicina Croazia e col sopraggiungere del capitano delle S.S. Franz Abromeit, 5.500 ebrei furono prelevati dai campi di concentramento croati e caricati su ben cinque vagoni piombati per essere destinati ad Auschwitz, preludio di quella scellerata “soluzione finale del problema ebraico” formulata nel corso della conferenza di Wannsee del 20 gennaio di quello stesso anno. È a quel punto che Giovanni Palatucci, decise di ricorrere all’aiuto dello zio vescovo di Campagna, come del resto faceva sovente in casi analoghi, scrivendogli un’accorata lettera, che reca la data del 21 dicembre 1942, nella quale dichiarava:
Evidentemente Palatucci era perfettamente al corrente del fitto reticolo di amicizie più o meno influenti che aveva allacciato lo zio sia con alcuni esponenti di spicco ecclesiastici e sia del Ministero dell’interno dove, com’è noto, poteva contare sul sostegno proprio del responsabile dell’Ufficio internati, il comm. Epifanio Pennetta. Poi, quando la situazione incominciò a prendere una brutta piega, Palatucci consigliò sia alla famiglia Selan che a Mika Eisler ed alla madre Dragica di prendere seriamente in considerazione l’eventualità di lasciare Laurana e recarsi in Italia.
Era evidente ai miei genitori – dichiara la signora Edna Selan –, che in quel momento dovevano fuggire di nuovo per salvarsi. Palatucci disse ai profughi ebrei che non avrebbe avuto più il potere di proteggerli perché sarebbero state le autorità tedesche e non quelle italiane che avrebbero svolto le funzioni di polizia militare nella nostra area geografica. Mia madre mi ha detto che lei e mio padre hanno programmato la fuga in Svizzera. Hanno discusso la fattibilità del loro piano con Giovanni Palatucci. E fu proprio Palatucci, che sconsigliò questa pista: “La Svizzera non vi lascerà mai entrare – disse – e vi consegnerà poi alla Gestapo alla frontiera. Andate nel meridione. Cercate di arrivare a Roma. Si tratta di una città aperta. Così è probabile sfuggire ai bombardamenti a cui le altre città non avranno scampo. Gli alleati verranno dal basso dell’Italia. Andate loro incontro. Se farete questo la vostra possibilità di salvezza sarà maggiore.[24]
Nel frattempo, in seguito ai clamorosi rivolgimenti politici che avevano condotto alla defenestrazione di Mussolini, e alla veemente reazione del Comando supremo germanico che, il 30 luglio, aveva fatto scattare l’operazione Alarico, seguendo la stessa procedura che adoperava in circostanze analoghe quando, sfruttando le amicizie delle zio vescovo presso il Ministero dell’interno, il 6 agosto del 1943, per precauzione, Palatucci fece di tutto per inviare sia le Eisler che la famiglia Selan, a Serramazzoni un paesino adagiato sull’Appennino modenese dove, proprio in quel periodo, era stata messa in piedi da laici e religiosi una capillare rete di solidarietà a beneficio degli ebrei lungo la direttrice Modena-Milano-Como-Cernobbio-Svizzera, che salvò la vita a centinaia di persone durante quegli anni funesti.
Mi ricordo che ho fatto un viaggio in treno con mio padre – dichiara la signora Edna – per andare a trovare la moglie del fratello di mia madre Walter, che era stata imprigionata da qualche parte in Italia. Secondo ciò che ho potuto capire lo scopo del viaggio era di scoprire come potevamo fuggire dalla Jugoslavia.[25]
Possiedo ancora due foto di lei che mi tiene in braccio quando le abbiamo fatto visita in carcere. Si chiamava Sophia, ma io l’ho sempre chiamata con il suo diminutivo croato Sofika. Sua madre è sopravissuta e si diresse a Città del Messico dove ha vissuto fino alla sua morte.[26]
Del resto il gruppo di ebrei che si trovava nel modenese poteva contare anche sull’aiuto del capo di Gabinetto della questura, Francesco Vecchione che, appena fiutava qualche pericolo incombente, subito li metteva in guardia in modo tale che tutti gli ebrei della zona potessero essere allertati di casa in casa per nascondersi o fuggire da qualche altra parte facendo perdere rapidamente le proprie tracce.
Fu così che, sia i Selan che le Eisler, si ritrovarono a Serramazzoni, come si evince chiaramente anche dalle schede anagrafiche del comune e da un dispaccio della Questura modenese che reca la data del 6 agosto 1943, con il quale richiedeva informazioni “di rito” sul conto delle due famiglie ebree che si erano appena trasferite in quella città.[27]
Dalla documentazione acquisita dal Comune di Serramazzoni risulta, infatti, che Dragica Braun con la figlia Maria Eisler giunsero in quel luogo il 13 agosto 1943 seguiti qualche giorno dopo, per la precisione il 18 agosto, dalla famiglia di Carl Selan composta dalla moglie Lotte Eisner e dalle due figlie Edna e Mira.
Tutto ciò viene puntualmente confermato dalla documentazione acquisita presso l’International Tracing Service di Bad Arolsen, secondo la quale risulta che Renée Mogan era nata a Fiume il 23 novembre del 1909 e, successivamente, si era trasferita a Zagabria dove, il 29 giugno 1932, aveva sposato il dr. Mirko Reichsmann.[29] Poi, tra il 1939 e l’agosto del 1941, visse a Zagabria insieme al figlio Javko ed alla madre Massimiliana Sachs de Gric, primogenita del barone Enrico e, dunque, sorella del noto diplomatico e legale della curia fiumana Niels Sachs de Gric, molto amico di Palatucci.[30]
Nel frattempo, con l’intensificarsi delle misure antisemite ad opera del neonato governo di Salò, mediante il Manifesto di Verona e l’ordine di polizia emesso il 30 novembre 1943 dal ministro dell’Interno Guido Buffarini Guidi, che stabiliva l’internamento e la confisca di tutti i degli ebrei, appena fiutarono il pericolo che incombeva su di loro, anche la famiglia Selan abbandonò precipitosamente Perugia e raggiunsero di nascosto la capitale, dove anche loro vissero sotto mentite spoglie in un appartamento in piazza Esedra, proprio nei pressi della Basilica di Santa Maria degli Angeli al di là di Porta Metronia, messo a loro disposizione dalla celebre casa cinematografica californiana Twentieth Century-Fox Film Corporation di cui Carl Selan era diventato nel frattempo distributore per l’Europa sudorientale.[31]
A Roma – continua nel suo suggestivo racconto la signora Edna – abbiamo vissuto in un appartamento di proprietà della 20th Century Fox. L’appartamento ci è stato concesso anche con una cameriera, che si chiamava Maria. Mio padre ha voluto registrarci con il Vaticano per ottenere dei generi alimentari. Mia madre decise di accordare fiducia al portiere e gli disse che eravamo ebrei jugoslavi in fuga dai tedeschi. Mio padre pensava che fosse matta, ma in realtà mia madre aveva un buon istinto e sapeva riconoscere l’indole delle persone. Il custode, infatti, non ci ha tradito (svelando la nostra identità) ai tedeschi. Nemmeno Maria, né una qualsiasi delle altre persone che vivevano in quel grande palazzo, anche se eravamo evidentemente degli stranieri in mezzo a loro. Abbiamo vissuto a Roma abbastanza apertamente con documenti d’identità italiani, spaventati solo quando abbiamo incontrato i soldati tedeschi con i loro cani Sheppard, di cui ho paura ancora oggi. Ma è stato solo dopo l’arrivo degli alleati, nel giugno del 1944, che abbiamo capito che eravamo definitivamente al sicuro dal rischio di deportazione in un campo di sterminio.[32]
Difatti, nel luglio successivo, Carl Selan con la moglie Lotte e le figlie Edna e Mira, a bordo del convoglio militare americano Harry Gibbons, il 20 luglio 1944 salparono dal porto di Napoli alla volta degli Stati Uniti dove, a partire dal 12 giugno, su indicazione del War Refugee Board, il presidente Franklin D. Roosevelt fece allestire nel campo di Fort Ontario a Oswego, un centro per accogliere quasi 1.000 profughi europei, prevalentemente di origine ebraica, 982 dei quali erano stati internati nelle regioni del Sud Italia dove erano giunti dalle regioni settentrionali, dalla Jugoslavia e perfino dalla Francia. Il 3 agosto i profughi sbarcarono nel porto di New York, da dove poi partirono in treno per Fort Ontario.[33]
In segno di gratitudine per l’aiuto ricevuto, il 10 marzo 1954, Carl Selan – appena aver appreso della tragica morte dell’ex questore reggente di Fiume – afferrò carta e penna e scrisse un’accorata lettera allo zio vescovo di Campagna, esprimendosi in questi termini:
Ebbene, anche in presenza di testimonianze e prove incontrovertibili come queste qualcuno, come la direttrice esecutiva del Primo Levi Center Natalia Indrimi, in una corrispondenza del 7 maggio 2015 con la signora Edna Selan Epstein, continuava a sostenere che:
Non si capisce, dunque, perché la Indrimi si sia adombrata così tanto affermando dalle colonne del Corriere della Sera il 26 marzo 2015 quanto segue:
il Centro Primo Levi di New York non ha mai definito Palatucci un collaborazionista ma ha piuttosto messo in luce con approfondite ricerche il suo ruolo di impiegato della persecuzione. Dallo spoglio di centinaia di documenti risulta che Palatucci in qualità di funzionario di polizia ha coadiuvato la persecuzione antiebraica dall’applicazione delle Leggi Razziali alle pratiche di rintraccio e identificazione degli ebrei nel periodo della Repubblica Sociale.[36]
Se davvero Palatucci fosse stato un implacabile esecutore delle leggi razziali, come il PLC vuole far credere, allora ci dovrebbe spiegare come mai alla vigilia della defenestrazione di Mussolini, tra il 19 e il 23 luglio del 1943, fu sottoposto ad un’indagine ministeriale che gli valse finanche una nota di biasimo perché l’«ufficio al quale è da alcuni anni preposto il comm. agg. Palatucci Giovanni (…) è sostanzialmente inefficiente. (…) non si è curato di seguire mai lo straniero con la sua azione di vigilanza».[37]
Conclusioni
Qualche anno or sono, qualcuno si è spinto fino al punto da insinuare perfino che Palatucci, essendo incline alla corruzione che regnava presso la questura fiumana, si era prestato ad aiutare gli ebrei – come la famiglia di Carl Selan – soltanto perché sapeva molto bene che erano facoltosi ed avrebbe potuto avere in cambio una lauta ricompensa. Se poi, tanto per rincarare la dose, a questo si aggiunge anche che era un noto tombeur de femmes per cui non restava indifferente al fascino muliebre delle giovani ebree come potevano essere Maria Eisler e la moglie dello stesso Carl Selan, Lotte Eisner, il gioco è fatto. Dichiara, infatti, la direttrice del Centro Primo Levi in un’intervista
L’intero apparato testimoniale della sua agiografia è basato sulle lettere di due allora giovani donne che dicono che Palatucci abbia avuto delle premure nei loro confronti. Rosa Neumann narra di essere stata invitata a cena e Elena Aschkenasy che il suo internamento fu ritardato così che potesse organizzarsi per i bisogni della sua bambina di pochi mesi.[38]
In tal modo, più o meno velatamente, si lasciava intendere che la loro sorte sarebbe stata ben altra se costoro non avessero avuto la fortuna di essere così avvenenti e possedere i mezzi economici necessari per corrompere i funzionari della Questura fiumana in cambio del loro aiuto. Inoltre, è stato perfino adombrato il sospetto che Palatucci, essendo molto ambizioso, pur di far carriera, si sia lasciato coinvolgere dai suoi superiori in loschi traffici. Strano però che un individuo “corrotto” e dedito ai facili guadagni, nell’estate del 1940, dovesse essere costretto a chiedere la cessione del quinto dello stipendio e vari prestiti ai suoi genitori, come si evince in modo incontrovertibile dalla lettera che il giovane poliziotto irpino scrisse il 28 febbraio 1943 per ringraziarli «della somma inviatami».[39]
Basterebbe richiamare alla mente di costoro – perché evidentemente l’hanno dimenticata – la testimonianza resa nel lontano 1988 da Elena Ashkenasy, per fugare ogni dubbio al riguardo, di cui abbiamo accennato diffusamente nelle pagine precedenti.
Difatti, come ricordava anche Americo Cucciniello, uno dei suoi più fedeli collaboratori, Palatucci «aiutava in tutti modi i cittadini bisognosi – in particolare i perseguitati politici – anche con contributi ed effetti personali».[41]
Recentemente, anche l’accademico Rocco Buttiglione, ha raccontato che il
L’indignazione per questo goffo tentativo d’infangare la memoria del giovane poliziotto irpino, subito dopo la diffusione del comunicato del Centro Primo Levi, giunse persino in Inghilterra, per la precisione a Manchester, dove risedeva Emanuele Boccia, nipote dell’ebrea fiumana Gisella, che – nel 1943 – riuscì a fuggire in Svizzera con i suoi genitori Osvaldo Pancer e Francesca (Fanny) Zarvanitzer, dove rimasero fino alla fine della guerra, proprio grazie ai documenti falsi forniti da Palatucci. I coniugi Pancer, infatti, titolari di un’industria per la fabbricazione di camicie da uomo, erano giunti a Fiume nel 1916 provenienti da Vienna ed abitavano al civico 1 di Via C. Goldoni con le loro tre figlie: Eleonora, Rosina (Rosy) e per l’appunto Gisella[43].
Non ci sembra sia necessario aggiungere altro per chiosare tali illazioni…
Pur ammettendo, infatti, per assurdo che Palatucci avesse fornito il proprio aiuto agli ebrei che si rivolgevano a lui in cambio di qualche lauta ricompensa, come qualcuno vuol far credere, come mai dai documenti e persino dalle testimonianze di coloro che hanno beneficiato delle sue attenzioni – come Carl Selan, Elena Ashkenasy, Magda Lipschitz, Renata Conforty, solo per citarne qualcuno – non solo non risulta tutto ciò, ma emerge esattamente il contrario!
Del resto, compulsando meticolosamente i documenti conservati presso il Consolato greco a Trieste, recentemente Silva Bon è riuscita a ricostruire il ruolo svolto dall’allora console greco a Trieste Loudovikos (o Aloísios) Skarpas[45],con la collaborazione proprio del giovane responsabile dell’Ufficio Stranieri della Questura di Fiume Giovanni Palatucci nel salvataggio di ben 850 ebrei di origine mitteleuropea – polacchi, tedeschi, ex austriaci e cecoslovacchi – braccati dai nazifascisti in fuga dal porto di Fiume. In questa circostanza, come riferisce la storica capodistriana, emerge la:
Proprio per questo motivo, almeno per quanto ci riguarda, vanno considerate, al pari delle fonti cartacee, anche altre come, per l’appunto, le testimonianze orali adeguatamente verificate e messe per iscritto. Lo stesso metodo che, peraltro, ci risulta continui ad adottare anche il Tribunale del bene di Yad Vashem nell’attribuire l’alta onorificenza di Giusto tra le Nazioni. Del resto, proprio il principio talmudico «Chi salva una sola vita ha tanto merito, come se avesse salvato il mondo intero»[47] dimostra, in modo inequivocabile che, in realtà, la giustizia non si calcola tanto al chilo e tanto meno può essere ridotta ad una questione meramente numerica.
Non ci appassiona, dunque, questa futile e pretestuosa disquisizione su quanti ebrei Palatucci abbia effettivamente salvato. Al contrario la domanda che, a nostro avviso, a questo punto dovremmo porci è un’altra: Giovanni Palatucci ha salvato o no gli ebrei?
Fosse stato anche uno soltanto – e a quanto pare non è così, anche in virtù della cospicua documentazione fin qui prodotta – meriterebbe lo stesso rispetto e ammirazione, mentre al contrario, per fortuna soltanto da parte di uno sparuto gruppo di studiosi, viene ripagato col disprezzo e il vilipendio della sua memoria. Come si ricorderà, il 12 settembre 1990, l’ex funzionario della Questura di Fiume, dopo una seria e meticolosa indagine, è stato riconosciuto “Giusto tra le Nazioni” da Yad Vashem proprio perché «durante il periodo dell’olocausto in Europa rischiò la sua vita per salvare gli ebrei perseguitati». Questa tesi, del resto, è suffragata anche da una lettera che l’ambasciatore israeliano in Italia, Eliahu Sasson, il 23 settembre 1953, fece pervenire al padre di Giovanni Palatucci, con la quale dichiarava perentoriamente:
certamente non bastano le nostre modeste parole per dirle quale sia il sentimento e quale la gratitudine di tanti ebrei che sono stati salvati per l’eroico sacrificio di Suo Figlio. Sulle tragedie della nostra storia di tanti anni splende il ricordo di Suo Figlio e della sua impareggiabile opera.[48]
Del resto, questa convinzione era ormai consolidata anche nella comunità ebraica fin dai primi anni della sua morte tant’è che, il 23 aprile 1953, a Ramat Gan in Israele gli fu dedicato un parco ed una strada alla presenza di numerose autorità civili e religiose, tra cui il Gran Rabbino di Budapest Fábián Herskovits e oltre 400 ebrei originari di Fiume sopravvissuti alla Shoah. L’eco di questa celebrazione fu ripreso, oltre che dai maggiori organi d’informazione israeliani, come il Jerusalem Post– con un dettagliato reportage del 24 aprile successivo –, anche in un circostanziato articolo del 23 aprile, apparso sul settimanale Israel, che si stampava a Roma, nel quale, tra l’altro, si sottolineava che:
Perfino il “Notiziario della città di Ramat Gan” titolava, emblematicamente, in questa circostanza: Cerimonia cittadina in onore di Palatucci, liberatore degli Ebrei, non esitando a definirlo “martire” perché:
sacrificando la propria vita ha voluto salvare quella di molti ebrei, soprattutto quelli di Fiume, fornendo loro documenti e permessi di soggiorno.[50]
Anche l’ebreo fiumano di origini ungheresi Niels Sachs de Gric, legale della curia e rappresentante della Santa Sede per il Concordato con la Jugoslavia, che ebbe la fortuna di conoscere il commissario Palatucci, in una lettera del 25 settembre 1952 indirizzata allo zio vescovo di Campagna, sottolineava che:
Questa versione fu puntualmente confermata, il 4 maggio 1956, anche dalla signora di origini partenopee Pina Piceni Campagnaro che, subito dopo aver appreso dell’assegnazione della medaglia a Palatucci da parte dell’Unione delle Comunità Israelitiche Italiane, testimoniò che, tra il 1943 e il 1944, mentre si trovava a Fiume ospite della madre Luigina, che abitava in via Buonarroti 29, ebbe
Dunque a questo punto delle due l’una: o Palatucci era un abile dissimulatore che sapeva talmente recitare la sua parte, fingendo con i colleghi di aiutare gli ebrei in pericolo – mentre in realtà in segreto collaborava attivamente con i nazisti per agevolare la loro deportazione – oppure queste ricostruzioni, a dir poco stravaganti, sono soltanto il corollario di un’operazione ben precisa orchestrata ad hoc unicamente per colpire, in realtà, un bersaglio ben più rilevante come ha illustrato, con dovizia di particolari, in un suo articolo su L’Osservatore Romano, Anna Foa[15]. Come recitava un antico adagio latino della logica aristotelica: tertium no datur!
Non è nostro intento fare un’analisi, per così dire ermeneutica e filologica, di queste stravaganti affermazioni ma spesso, come in questo caso, abbiamo la sensazione che per avvalorare le proprie tesi, si ricorre alla figura retorica che gli inglesi definiscono straw man argument o straw man fallacy, ovverosia si cerca di confutare un argomento riproponendolo in maniera errata, o presentandone soltanto una parte marginale, ovviamente quella che più torna utile al momento per suffragare quanto si cerca di dimostrare.
Lo scopo, ahimè, purtroppo è fin troppo evidente…
Proprio per questo motivo, con l’ausilio di documenti e testimonianze meticolosamente verificate, mediante quello che in gergo viene definito debunking, nella seconda edizione aggiornata del volume pubblicato nel 2015, abbiamo cercato di confutare quel castello di fake news costruite in questi anni intorno alla figura di Giovanni Palatucci, per offrire un’ulteriore chiave di lettura, semplice ed esaustiva, lasciando poi ai lettori il compito di trarre le conclusioni che riterranno più opportune.
Naturalmente, a differenza di altri, non coltiviamo illusioni velleitarie, ben sapendo che, soprattutto in campo storico, non si può mai dire la parola fine, poiché vi sono sempre da scoprire nuovi documenti, da dire altro, da dire meglio quello che è stato già detto, consci che i territori dello storico, per antica tradizione, mutano e si ampliano continuamente, soprattutto in una società che cambia velocemente e rivolge domande nuove al passato.
© Giovanni Preziosi, 2024
Tutti i diritti riservati. Tutti i contenuti pubblicati in questo articolo sono protetti da copyright e non possono, né in tutto né in parte, in qualsiasi forma o tramite qualsiasi mezzo, essere utilizzati, modificati, copiati, pubblicati o riprodotti senza il consenso scritto dell’Autore e la citazione della fonte.
NOTE
[1] FARKAS A., Palatucci, tutte le ombre sulla vita dello «Schindler italiano», in Corriere della Sera, 23 maggio 2013.
[2] A. CARIOTI, «Palatucci non fu un Giusto». Yad Vashem riapre la questione escluso da una mostra in Usa. E il Vaticano studia il caso, in ‘‘Corriere della Sera’’, 21 giugno 2013.
[3] M. ZURLENI, Lo Schindler italiano che non ha mai salvato un ebreo, in ‘‘Panorama’’, 20 giugno 2013.
[4] Lettera della Direttrice del Primo Levi Center Natalia Indrimi al Direttore dell’United States Holocaust Memorial di Washington DC. Citata nell’articolo di P. COHEN, Italian Praised for Saving Jews Is Now Seen as Nazi Collaborator, in The New York Times, June 19, 2013. Si veda anche la replica della stessa autrice ID., Discredited Wartime Hero’s Backers Rebut Charges, in “The New York Times”, 14 luglio 2013
[5] G. Preziosi, La rete segreta di Palatucci: I fatti, i retroscena, le testimonianze e i documenti inediti che smentiscono l’accusa di collaborazionismo con i nazisti, CreateSpace Independent Publishing Platform, 2015,pagg. 141-166,Il volume può essere acquistato on-line tramite la piattaforma Amazon sia nella versione cartacea e sia in quella e-book a questo link:
https://www.amazon.it/rete-segreta-Palatucci-testimonianze-collaborazionismo-ebook/dp/B018WLA3VY.
[6] Per un maggior approfondimento su questo tema si rimanda alla seguente bibliografia: R. McCormick, Croatia Under Ante Pavelic: America, the Ustase and Croatian Genocide, I. B. Tauris & Company, London, 2014; P. Adriano – G. Cingolani, La via dei conventi. Ante Pavelić e il terrorismo ustascia dal fascismo alla guerra fredda – Milano, Mursia, 2011; M. Ferrara, Ante Pavelic il duce croato – Udine, Kappa Vu, 2008; E. Paris, Genocidio nella Croazia satellite 1941-1945 – Milano, Ediz. Club degli editori, 1976. G. Scotti, Ustascia tra il fascio e la svastica. Storia e crimini del movimento ustascia – Udine, Incontri, 1976.
[7] Cfr. G. PREZIOSI, I «protetti» di Palatucci: un giusto ricordo. La storia del salvataggio della famiglia ebrea dei Selan: dalla Croazia ustaša di Ante Pavelić all’Italia passando per quel ponte sul fiume Eneo, in “Vatican Insider–La Stampa”, 23 maggio 2015, disponibile on-line a questo link:
http://vaticaninsider.lastampa.it/documenti/dettaglio-articolo/articolo/ebrei-jews-iudeos-41276/
[8] Testimonianza rilasciata all’autore dalla sig.ra Edna Selan Epstein tra il 19 aprile ed il 25 maggio 2015.
[9] D.A.B.A., Teilbestand: 3.1.1.3, Dokument ID: 78780401 und Dokument ID: 78780402 – Erfassung von befreiten ehemaligen Verfolgten an unterschiedlichen Orten, Selan Carlo, Selan Lotta, Selan Edna, Selan Mira, Selan Serafina, Selan Rudolfo, Selan Nada, Selan Branko. In una richiesta dell’ufficio riparazioni (Wiedergutmachung), Berlino 1965, relativo a Spitzer (anche Selan) Karl Dragutin, nato il 21 giugno 1900 a Zagabria; ha indossato la Stella ebraica a Zagabria dall’aprile 1941 al 1942, ai primi di aprile è fuggito verso la zona di occupazione italiana a Sušak poi a Fiume. Cfr. IVI, Teilbestand: 6.3.3.2, Dokument ID: 108729836 – Korrespondenzakte T/D 940 127.
[10] Fondo “Giovanni Palatucci”, cit., Testimonianza rilasciata da Americo Cucciniello, Brescia, 13 novembre 1998; contenuta anche in M. BIANCO, A. DE SIMONE PALATUCCI, Giovanni Palatucci un giusto e un martire cristiano, op. cit., pagg. 498-499.
[11] IVI, Testimonianza rilasciata dall’allora maresciallo a riposo della Guardia di Finanza Giuseppe Veneroso (originario di Pisciotta, un paesino del salernitano, non lontano da Campagna), che dal 1° maggio 1941 all’8 settembre 1943 era in forza alla compagnia di Sušak, contenuta in M. BIANCO, A. DE SIMONE PALATUCCI, Giovanni Palatucci un giusto e un martire cristiano, op. cit., pagg. 503-504; cfr. anche A. PICARIELLO, Capuozzo accontenta questo ragazzo: … op. cit., p. 134 e ss. Laddove viene riportata un’altra testimonianza di Veneroso che contribuisce a suffragare la precedente, laddove afferma: «Non c’era giorno che non ne passavano. (…) Donne e bambini entravano davanti a noi, gli uomini invece, per lo più passavano il confine clandestinamente, lungo le montagne, di notte, percorrendo i sentieri di pini usati da contrabbandieri slavi».
[12] Testimonianza rilasciata all’autore dal sig. Franco Avallone il 28 gennaio 2015.
[13] D.A.R., Regia Questura di Fiume, fascicolo relativo a Carl Selan.
[14] Era coniugato con Marta Neumann dalla quale ebbe Lotte che, poi, sposò Carl Selan.
[15] Testimonianza rilasciata all’autore dalla sig.ra Edna Selan Epstein tra il 19 aprile ed il 25 maggio 2015.
[16] A.S.D.M.A.E., R. Legazione Zagabria, a Gab.A.P. (U.C.) A.E.M., telegramma n. 6042 R., oggetto: Situazione in Croazia, f.to Giustiniani, Zagabria, 19 giugno 1941-XIX; ibidem, Ministero degli Affari Esteri, Notizie sulla Croazia, Roma, 1 luglio 1941-XIX. In allegato a questo documento viene riportato uno stralcio di una lettera inviata al fratello di un sergente della gendarmeria a Velimlje, Gavro Koprivica, che testimonia la ferocia degli ustaša in data 20 giugno 1941.
[17] Dragica Braun era nata a Karlovać il 1° aprile 1889 da Vilim e da Rosa Sauerbrunn.
[18] Cfr. G. Preziosi, Palatucci e il villino di via Milano. A colloquio con la testimone di una delle operazioni di salvataggio del questore di Fiume, in “L’Osservatore Romano”, A. CLIV, n. 87, 16 aprile 2014, pag. 4.
[19] Fondo “Giovanni Palatucci”, cit., Lettera Riservatissima a Tullio Tamburini Capo della Polizia a Maderno del Questore Reggente di Fiume Giovanni Palatucci, 10 maggio 1944. Vedi anche M. BIANCO, A. DE SIMONE PALATUCCI, Giovanni Palatucci un giusto e un martire cristiano, op. cit., pag. 335.
[20] Testimonianza rilasciata all’autore dalla sig.ra Edna Selan Epstein tra il 19 aprile ed il 25 maggio 2015.
[21] Fondo “Giovanni Palatucci”, cit., Lettera di Carl Selan allo zio mons. Giuseppe Maria Palatucci, New York, 10 marzo 1954.
[22] Corrispondenza di Edna Selan Epstein, Lettera di Alessandro Cassin e Natalia Indrimi a Edna Selan Epstein, New York, 16 maggio 2012.
[23] Fondo “Giovanni Palatucci”, cit., Lettera di Giovanni Palatucci allo zio mons. Giuseppe Maria Palatucci, Fiume, 21 dicembre 1942.
[24] Testimonianza rilasciata all’autore dalla sig.ra Edna Selan Epstein tra il 19 aprile ed il 25 maggio 2015.
[25] Si tratta di Walter Eisner, ufficiale dell’esercito jugoslavo che fu catturato dai tedeschi e riuscì a fuggire in Ungheria e in qualche modo raggiunse la Spagna. Alla fine si stabilì in Messico fino al suo ritorno a Ginevra, nei primi anni ’50, con una seconda moglie elvetica e due figlie.
[26] Testimonianza rilasciata all’autore dalla sig.ra Edna Selan Epstein in data 18 marzo 2015.
[27] D.A.R., Regia Questura di Fiume, fascicolo Dragica Braun in Eisler fu Vilim, Richiesta d’informazioni della Questura di Modena alla Questura di Fiume su Dragica Braun appena trasferita a Modena da Laurana, prot. n. 00505 del 6 agosto 1943.
[28] Testimonianza rilasciata all’autore dalla sig.ra Edna Selan Epstein tra il 19 aprile ed il 25 maggio 2015.
[29] Mirko Reichsmann era nato a Zagabria il 21 marzo 1904.
[30] Maximiliana Sachs de Gric era nata a Zagabria il 28 agosto 1885, coniugata con Julio Mogan, era figlia di Enrico e Adele Figatner e, dunque, sorella del barone fiumano Niels Sachs de Gric, molto amico di Palatucci che, come vedremo in seguito, sarà protagonista di un altro rocambolesco salvataggio che vide per protagonista la famiglia di dell’altra sorella, la signora Lily Kremsir.
[31] Cfr. D.A.B.A., Teilbestand: 6.3.3.2, Dokument ID: 108729836 – Korrespondenzakte T/D 940 127, In einem Antrag des Amt für Wiedergutmachung, Berlin, aus dem Jahre 1965 wird betr. Spitzer, auch Selan, Karl Dragutin; cfr. anche IVI, Teilbestand: 3.1.1.3, Dokument ID: 78780401 und Dokument ID: 78780402, Erfassung von befreiten ehemaligen Verfolgten an unterschiedlichen Orten.
[32] Testimonianza rilasciata all’autore dalla sig.ra Edna Selan Epstein tra il 19 aprile ed il 25 maggio 2015.
[33] D.A.B.A., Teilbestand: 6.3.3.2, Dokument ID: 108729836 – Korrespondenzakte T/D 940 127, In einem Antrag des Amt für Wiedergutmachung, Berlin, aus dem Jahre 1965 wird betr. Spitzer, auch Selan, Karl Dragutin.
[34] Fondo “Giovanni Palatucci”, cit., Lettera di Carl Selan a mons. Giuseppe Maria Palatucci, New York, 10 marzo 1954.
[35] Corrispondenza di Edna Selan Epstein, Natalia Indrimi a Edna Selan Epstein, New York, 7 maggio 2015.
[36] Cfr. Interventi e repliche, in “Corriere della Sera” del 26 marzo 2015, reperibile on-line a questo link:
[37] Citato in A. Picariello, Capuozzo, accontenta questo ragazzo: la vita di Giovanni Palatucci, Milano, San Paolo, 2007, pagg. 154-155.
[38] Cfr. ComunicatoPalatucciFarkas (gariwo.net)
[39] F.G.P.M., Lettera di Giovanni Palatucci al padre Felice Palatucci, Fiume, 28 febbraio 1943.
[40] Yad Vashem, Collection of the Righteous Among the Nations Department (M.31.2/4338), Istruttoria su Giovanni Palatucci, Testimonianza di Elena Ashkenasy Dafner, Tel Aviv, 10 luglio 1988. Cfr. anche M. Bianco – A. De Simone Palatucci, op. cit., pp. 538-539.
[41] F.G.P.M. Testimonianza di Americo Cucciniello, citata anche in A. Picariello, Capuozzo, accontenta questo ragazzo, op. cit., pag. 122.
[42] A. Picariello, Il caso. Palatucci più che Giusto, in “Avvenire” del 1° giugno 2013 – Palatucci più che Giusto (avvenire.it)
[43] Gisella Pancer si sposò in seguito con tal Boccia e, dopo la guerra, stabilì la propria residenza a Borgomanero, in provincia di Novara. Osvaldo e Fanny Pancer nel 1945 emigrarono in Palestina e rimasero in Israele fino al 1960, quando si trasferirono a Borgomanero presso la figlia Gisella.
[44] Testimonianza di Emanuele Boccia del 12 gennaio 2013 reperibile al seguente link: (5) Giovanni Palatucci – Un uomo “giusto” che salvò 5000 ebrei | Mia nonna, ebrea, e la sua famiglia furono salvati da Giovanni Palatucci | Facebook
[45] Loudovikos Skarpas era nato a Corfù il 22 maggio 1896 da Spyros e Henrietta Scaramanga. Era sposato con Maria Desylla-Kapodistria (Atene, 25 marzo 1898 – Corfù, 15 agosto 1980) dalla quale ebbe due figlie, Eleni Bouphidi e Daria Erriketi. Dopo il divorzio, nel 1928, Maria Kapodistria e le sue figlie si stabilirono permanentemente a Corfù ed in seguito, dal novembre 1940, Maria divenne capo volontaria della Croce Rossa Greca presso l’Ospedale Urbano di Corfù. Loudovikos Skarpas morì a Corfù nel 1947. Prima del 1926 fu console in Albania dopodiché, il 17 marzo 1938, fu inviato presso il Consolato greco di Trieste che sorgeva al civico 3 in piazza Dalmazia, stabilendo la propria residenza in via Rossetti n. 36 dove, come abbiamo accennato nelle pagine precedenti, abitava quella famiglia di origini ebraiche di nome Baruch che, proprio su incarico di Palatucci l’amico della Questura di Trieste, il commissario Feliciano Ricciardelli, era riuscito a prelevare da Fiume e condurla con se nel capoluogo triestino per sottrarla al pericolo della deportazione. Compulsando i documenti diplomatici si evince che spesso Skarpas, quando scriveva in greco, si firmava Loudovikos Skàrpas, mentre quando adoperava i caratteri latini, Luigi Scarpas o Scarpa. Con lui collaborano strettamente il viceconsole onorario Christos Nicolaìdis ed il Consigliere commerciale Costantino Anastassakis, mentre il signor Socrate Metallinòs ricopriva le funzioni di segretario del Consolato. Cfr. Silva Bon, Loudovikos Skarpas. Il Consolato Greco a Trieste negli anni della Shoah (1938-1940), Istituto regionale per la storia della Resistenza e dell’Età contemporanea nel Friuli Venezia Giulia, Trieste 2020.
[46] Cfr. R. Turcinovich Giuricin, Il console greco Skarpas collaborò con Palatucci?, in “La Voce di Fiume”, A. LIV – Nuova Serie – n. 5, Settembre-Ottobre 2020, pag. 25), link: settembre_ottobre.pdf (lavocedifiume.com). Il recupero di questi documenti, in realtà, si deve a Efstathios “Stathis” Loukàs che, grazie alle memorie del Console Generale Onorario di Grecia a Trieste Menélaos Pappàs – scomparso nel 2018 – ha raccolto e riordinato tutto il materiale che si trovava presso il Consolato greco, realizzando un certosino lavoro di traduzione dell’Archivio del Console Skarpas.
[47] Talmud babilonese, trattato Sanhedrin foglio 37a.
[48] .G.P.M., Lettera dell’ambasciatore israeliano in Italia Eliahu Sasson a Felice Palatucci, 23 settembre 1953.
[49] Cfr. il resoconto fornito in questa circostanza dal settimanale “Israel” del 23 aprile 1953.
[50] Cfr. articolo intitolato: Cerimonia cittadina in onore di Palatucci, liberatore degli Ebrei. Una via a Ramat Gan, in “Notiziario della città di Ramat Gan”, luglio 1952.
[51] F.G.P.M., Lettera del Barone Niels Sachs di Gric a mons. Giuseppe Maria Palatucci, 25 settembre 1952.
[52] APFMCN, Lettera della sig.ra Pina Piceni Campagnaro all’Unione delle Comunità Israelitiche Italiane di Milano, 4 maggio 1956.
Thank you for subscribing to the newsletter.
Oops. Something went wrong. Please try again later.