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L’eccidio del Castello estense e la strage del caffè del Doro nel ferrarese

All’alba del 15 novembre 1943, davanti al muretto del Castello Estense, i fascisti uccidono 11 persone come rappresaglia per l’assassinio del federale Igino Ghisellini.

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La mattina del 15 novembre 1943 Ferrara e i suoi cittadini si svegliarono con il cuore in gola. Tutta la notte e tutto il giorno precedente, dopo che era cominciata a circolare la notizia del rinvenimento a Castello d’Argile, in provincia di Bologna, del cadavere del Reggente della Federazione ferrarese del P.F.R., Igino Ghisellini, camion di Brigatisti neri, avevano percorso le strade della città estense, carichi di uomini in divisa fascista, armati e dall’aria minacciosa.

Il reggente della Federazione ferrarese del P.F.R. Igino Ghisellini, ucciso la sera del 13 novembre 1943, da ignoti. La sua morte, nonostante mai sia stato possibile accertare definitivamente da chi fosse stata causata, diede origine alla rappresaglia fascista che costò la vita agli undici cittadini ferraresi.

Si trattava delle squadre di Verona e di Padova che Alessandro Pavolini, il segretario del P.F.R. nazionale, aveva deciso di inviare a Ferrara mentre, in pieno congresso fondativo del partito a Verona, aveva ricevuto la notizia del ritrovamento del corpo senza vita di Ghisellini, al fine di vendicarne la morte.

Ben presto cominciò a circolare in città la terribile notizia della strage. Le notizie si rincorrevano di porta in porta, di bocca in bocca, ma fu immediatamente chiaro si trattasse di un avvenimento drammatico: undici cittadini ferraresi erano stati uccisi per vendicare la morte di Ghisellini davanti al muretto del Castello estense, due sulle Mura, in prossimità della prospettiva di Corso Giovecca. Ancora oggi tra chi, allora molto piccolo, ebbe la ventura di vivere un momento così cupo della vita della città estense, il ricordo di quelle ore e di quei corpi, vigilati dai militi fascisti, lasciati per ora alla vista dei ferraresi come monito e rimossi solo a fronte dell’intervento del Vescovo Monsignor Ruggero Bovelli, evoca la paura che attraversò la popolazione in quei frangenti.

Le lapidi, apposte al muretto del Castello estense, che ricordano la strage compiuta dai fascisti il 15 novembre del 1943. La lapide della prima fotografia ricorda anche Cinzio Belletti, ucciso accanto all’Auditorium estense e Gerolamo Savonuzzi e uccisi sugli spalti delle Mura di San Tommaso.

Non è un caso che molti ferraresi, tra questi il regista Florestano Vancini, allora adolescente, ricordassero i tanti cittadini a capo chino, di fronte alla sede del P.F.R., in viale Cavour, in fila per iscriversi al partito.

Si trattò di un evento la cui portata politica superò i confini estensi.

Claudio Pavone, infatti, nel suo volume “Una guerra civile…”, fa risalire all’eccidio ferrarese del 15 novembre 1943 l’inizio della guerra civile in Italia. I fascisti, infatti, compirono la strage in totale autonomia, tenendo all’oscuro i tedeschi, presenti in città sin dal 9 settembre 1943 che all’indomani produssero un documento ufficiale nel quale condannavano ciò che era avvenuto, rammentando che altri episodi del genere non sarebbero stati tollerati. A decidere la strage fu il segretario del PFR Alessandro Pavolini, indipendentemente dall’aver appurato la matrice dell’assassinio del federale Ghisellini che, una volta avuta notizia del ritrovamento del cadavere, di fronte ad un pubblico che chiedeva vendetta, decise l’invio a Ferrara di squadre di brigatisti di Padova e di Verona per attuare la rappresaglia. In realtà, sulle rive del lago di Garda, già da alcune settimane, Pavolini e Mussolini si fronteggiavano duramente, in relazione alla necessità di una svolta violenta del fascismo repubblicano nei confronti di quegli italiani che combattevano la restaurazione fascista. Questo della città estense ne fu l’esordio: “Ferrarizzare l’Italia”, si scrisse!

Questo documento, reperito alla fine degli anni 80’ all’Archivio Centrale dello Stato e pubblicato nel libro di A. Guarnieri, Ferrara 1943. Dal 25 luglio a Salò. Interpretazione de “La lunga notte”, Bologna, Grafis, 1993, testimonia che Igino Ghisellini avevva avuto anche, durante la propria permanenza in Croazia, problemi con altri suoi commilitoni che dimostrano come egli non fosse visto “particolarmente” di buon occhio da quanti volevano approfittarsi della propria posizione per ottenere benefici economici. Da qui e da altre indicazioni acquisite nella ricerca prese forza l’ipotesi del coinvolgimento di altri fascisti nella sua morte.
Questo documento, reperito alla fine degli anni 80’
all’Archivio Centrale dello Stato e pubblicato nel libro di A. Guarnieri, Ferrara 1943. Dal 25 luglio a Salò. Interpretazione de “La lunga notte”, Bologna, Grafis, 1993, testimonia che anche Mussolini, probabilmente sollecitato dai familiari di Ghisellini, chiede notizie al Capo della provincia, attuale prefetto) Enrico Vezzalini, circa le indagini, che sembrano languire, per accertare i responsabili dell’omicidio del Federale.

Gli uomini vennero rastrellati dai fascisti ferraresi e la rappresaglia venne compiuta solo ed esclusivamente dai repubblichini. In quel frangente la lotta partigiana non aveva ancora preso piede e da sempre è risultato difficile comprendere come Ghisellini avesse potuto essere ucciso dai partigiani antifascisti senza il coinvolgimento di qualche elemento interno al PFR.

Resta assodato che il PFR, senza certezza alcuna circa la matrice della strage, anzi con pesanti dubbi relativi ad una faida interna, testimoniati dalla ricerca storica, decise per una strage di cittadini, civili, ebrei, antifascisti che nulla avevano a che fare con l’accaduto.

La notte dell’eccidio i fascisti sostennero si fosse riunito un mai accertato “tribunale straordinario”, organizzato su due piedi; in realtà le decisioni vennero prese dal capo della provincia Enrico Vezzalini, inviato a Ferrara da Pavolini, per sovraintendere all’esecuzione e da un altro importante gerarca fascista bolognese, Fran Pagliani, oltre che dal console generale della milizia Giovanni Battista Riggio.

Le vittime dell’eccidio

Emilio Arlotti

Emilio Arlotti, civile rappresenta un caso particolare tra le vittime dell’eccidio perché fu fedele al fascismo per tutto il regime, partecipando attivamente alla vita politica e diventando senatore, traendo da tali comportamenti non pochi benefici economici, soprattutto in relazione alla sua attività di industriale del settore saccarifero, dove primeggiava a livello nazionale. Molte le cariche nelle sue mani, tra queste quella di Presidente della Cassa di Risparmio che restò in suo possesso sino alla morte. Dopo il 25 luglio 1943 decise di non iscriversi al PFR e di non partecipare alla restaurazione fascista. Appartenente alla ricca borghesia detentrice del potere economico che, dopo il 25 luglio, scelse di abbandonare definitivamente il fascismo, conscia del carattere disperato dell’avventura repubblichina, Arlotti rappresentò un evidente capro espiatorio, testimoniato anche dalla reazione della platea veronese del congresso fondativo del PFR che, alla notizia della morte di Ghisellini, reagì gridando “a morte Arlotti e Gaggioli”.

Cinzio Belletti, civile, giovane operaio che non aveva mai partecipato a nessun movimento antifascista, anche se non aveva mai aderito ai sindacati fascisti. Secondo la versione più conosciuta, venne arrestato  la mattina del 15 novembre per non essersi fermato all’alt di una pattuglia fascista, ma durante il processo ai presunti autori dell’eccidio del Castello, nel marzo 1943, emerse di nuovo l’ombra della vendetta personale, forse addirittura di carattere amoroso, messa in atto da un repubblichino che, uccidendo Belletti, volle disfarsi di un possibile rivale. Nel dopoguerra, gli venne riconosciuta l’appartenenza alla 35° Brigata “Bruno Rizzieri”.

Pasquale Colagrande, antifascista, da cinque anni rivestiva la carica di sostituto procuratore del Re, era già in carcere dal 7 ottobre 1943 insieme ad altri 30 antifascisti arrestati per ordine del console generale della Milizia Zauli, probabilmente a causa della propria consolidata militanza nel Partito d’Azione e per essere intervenuto in favore dei detenuti politici, in favore dei quali, dopo il 25 luglio, si era lungamente prodigato perché venissero rilasciati. Nel dopoguerra, gli venne riconosciuta l’appartenenza alla 35° Brigata “Bruno Rizzieri”.

Mario Hanau, ebreo e civile, prelevato dalla propria abitazione la notte tra il 14 e il 15 novembre 1943, appartenente ad una famiglia di origine ebraica, già segnata pesantemente dalle leggi razziali e dalla persecuzione attuata dai fascisti, si era tenuto lontano dalla politica attiva, unico indizio a suo sfavore un versamento effettuato qualche giorno prima della morte al movimento antifascista “Italia Libera”.

Vittore Hanau, ebreo e civile, prelevato dalla propria abitazione la notte tra il 14 e il 15 novembre 1943, appartenente ad una famiglia di origine ebraica, già segnata pesantemente dalle leggi razziali e dalla persecuzione attuata dai fascisti, si era tenuto lontano dalla politica attiva, unico indizio a suo sfavore un versamento effettuato qualche giorno prima della morte al movimento antifascista “Italia Libera”.

Giulio Piazzi, antifascista, avvocato socialista, oppositore del fascismo sin dalla prima ora, aveva rifiutato l’iscrizione al PNF e per questo motivo venne allontanato dalla carica di vice pretore onorario. Continuò a dimostrare in ogni modo la propria avversione al fascismo, leggendo giornali stranieri e cercando di far circolare le informazioni, sfidando, così, la reazione fascista. Arrestato prima del 25 luglio, venne rilasciato durante le manifestazioni di piazza che fecero seguito alla caduta di Mussolini e alla fine del regime. Venne nuovamente arrestato il 7 ottobre 1943. Nel dopoguerra, gli venne riconosciuta l’appartenenza alla 35° Brigata “Bruno Rizzieri”.

Gerolamo Savonuzzi, antifascista, della prima ora, durante il regime non smise mai di manifestare la propria avversione nei confronti del regime e nel periodo precedente il 25 luglio prese contatto con gruppi antifascisti, partecipando ad innumerevoli riunioni. Nel 1921, in qualità di assessore anziano, aveva retto il Comune nel momento in cui i fascisti avevano fatto arrestare il sindaco socialista Bogiankino.

Ugo Teglio, antifascista, ebreo, socialista, arrestato anch’egli il 7 ottobre 1943, coraggioso antifascista, si era impegnato a favore dei perseguitati politici e aveva coltivato frequenti contatti politici con l’antifascismo bolognese, che gli costarono l’invio al confino a Cancellara, in provincia di Potenza. Nel settembre 1943, in compagnia del comunista Ermanno Farolfi, si recò a Roma per illustrare a Ivanoe Bonomi la situazione ferrarese. Nel dopoguerra, gli venne riconosciuta l’appartenenza alla 35° Brigata “Bruno Rizzieri”.

Arturo Torboli, civile, ragioniere capo del Comune di Ferrara, durante il periodo badogliano, egli ricevette dal prefetto della città il compito di liquidare enti e amministrazioni fasciste. Probabile che, durante lo svolgimento di tali mansioni, egli abbia infastidito qualche personaggio importante che, una volta riottenuto il potere grazie all’invasione tedesca, abbia voluto, per vendetta, inserire il suo nome tra quelli da eliminare nella rappresaglia. Nel dopoguerra, gli venne riconosciuta l’appartenenza alla 35° Brigata “Bruno Rizzieri”.

Alberto Vita Finzi, civile, gli è stato più volte, erroneamente, attribuita l’appartenenza all’ebraismo, smentita con risolutezza dai famigliari. Egli non partecipava attivamente all’antifascismo, anche se, dopo il 25 luglio, come molti in quel periodo, manifestò la propria felicità per la fine del regime. Nel dopoguerra, gli venne riconosciuta l’appartenenza alla 35° Brigata “Bruno Rizzieri”.

Mario Zanatta, antifascista, stimato penalista, faceva parte sin dai tempi della sua costituzione del Partito d’Azione, nelle cui file partecipava attivamente alla lotta di liberazione. Durante il periodo badogliano s’impegnò attivamente per il ritorno alla libertà, partecipando a manifestazioni pubbliche e fornendo aiuto alle persone in difficoltà per motivi politici. Venne prelevato dalla sua abitazione di via Carlo Mayer la notte stessa dell’eccidio. Nel dopoguerra, gli venne riconosciuta l’appartenenza alla 35° Brigata “Bruno Rizzieri”.

Documento di grande importanza nel quale con tono “minaccioso” i tedeschi si dissociano dall’operato fascista. Intimando che i cadaveri non vengano mai più lasciati esposti e biasimando che i repubblichini lo abbiano fatto esponendo le insegne tedesche.
Questo documento, reperito alla fine degli anni 80’ all’Archivio Centrale dello Stato e pubblicato nel libro di A. Guarnieri, Ferrara 1943. Dal 25 luglio a Salò. Interpretazione de “La lunga notte”, Bologna, Grafis, 1993, mise definitivamente fine alla consuetudine di definire quella del Castello “strage nazi-fascista”. (nel pannello successivo la parte finale del documento)

La strage del caffè del Doro 17 novembre 1944

E’ sul finire dell’agosto 1945, quando la guerra è finita da pochi mesi, che nei pressi del Caffè del Doro, nell’immediata periferia della città, dentro una fossa comune, probabilmente il cratere causato da una delle bombe cadute copiose in quella zona vicina alla stazione ferroviaria, vennero ritrovati i corpi di sette uomini, Mario Agni, Mario Arnoldo Azzi, Giuseppe Franceschini, Gigi Medini, Michele Pistani, Alberto Savonuzzi, Antenore Soffritti, tutti impegnati in prima persona nella Resistenza al nazifascismo: erano scomparsi nel novembre del 1944 dalle carceri di via Piangipane, dove erano stati rinchiusi come prigionieri politici.

I famigliari li avevano cercati per quasi un anno, dopo averne perse le tracce a seguito del prelevamento della polizia politica comandata dal tristemente noto vice questore Carlo De Sanctis e avevano, addirittura, dovuto firmare una ricevuta attestante la restituzione di alcuni beni appartenuti ai loro cari. Fu loro detto che erano stati prelevati dalle SS e deportati in Germania, dove, in realtà, non erano però mai giunti, e nemmeno nel campo di smistamento di Gambulaga, frazione del comune di Portomaggiore (Fe), dove una ipocrita “visita medica” avrebbe dovuto attestarne l’idoneità al “lavoro”.

La strage, che venne perpetrata in contesto di occupazione tedesca della città di Ferrara, in mano alle truppe germaniche sin dal 9 settembre 1943, presenta punti assolutamente oscuri che non permettono di individuare con certezza le responsabilità relative alla decisione e ai rapporti che, in quei giorni concitati, intercorsero tra Questura e comando delle SS germaniche: che cosa accadde tra il 26 ottobre 1944, quando le sette vittime, che inizialmente erano state deferite al Tribunale speciale per lo difesa dello Stato di Parma perché giudicati “pericolosissimi per l’ordine pubblico” dal vice – Questore De Sanctis, si era deciso dovessero essere inviate in Germania e il 17 novembre 1944, quando vennero massacrati al Caffè del Doro.

Si trattò di un vero e proprio cambio di strategia rispetto alle stragi precedenti che erano sempre state prerogativa delle autorità repubblichine fasciste: in questo caso i detenuti, invece, vennero affidati alle SS che, con ancora meno scrupoli dei fascisti nei confronti degli impedimenti burocratici e formali, portarono a termine con sollecitudine e senza scrupoli la strage. Anche se De Sanctis, durante il dibattimento, aveva cercato, inutilmente, di discolparsi affermando che i detenuti erano stati consegnati ai tedeschi perché fossero deportati e che le uccisioni erano, poi, avvenute a loro insaputa.

E’ assodato che la condanna a morte non venne comminata da un tribunale ed è altrettanto certo che, sebbene sia difficile stabilire se la decisione venne o meno presa dalle SS, sia la Prefettura sia la Questura, erano state informate che i prigionieri sarebbero stati uccisi e certo non inviati in Germania.

Secondo la testimonianza di Carlo De Sanctis, egli aveva appreso dal Comando Germanico che Agni e Soffritti erano stati condannati a morte da un tribunale germanico, in quanto appartenenti ad un gruppo militare. Probabile, in realtà, che i detenuti fossero stati consegnati da De Sanctis, in accordo con il Questore Visioli, alla SS per timore che gli indizi non fossero sufficienti per la denuncia al Tribunale speciale e perché, di conseguenza le SS li eliminassero senza troppe esitazioni.

Le vittime della strage

Mario Agni, partigiano, nato   Bondeno (Fe) il 30 marzo 1919, residente a Ferrara, frazione Coccanile di Focomorto, durante la seconda guerra mondiale sfollato a Viconovo presso una zia, operaio panettiere, milite della GNR, Polizia Ferroviaria di Ferrara, di formazione socialista, schedato dalla polizia politica fascista come “antifascista” e appartenente ad “organizzazione comunista esistente in territorio di Ferrara ed in collegamento con province limitrofe”. Riconosciuto partigiano combattente con il grado di Sotto Tenente, 35° Brigata Garibaldi “Bruno Rizzieri”.

Mario Arnoldo Azzi,  partigiano, nato a Corlo (Ferrara) il 4 settembre 1919, risiedeva a Ferrara, ma era sfollato a Gaibana. Viene arrestato il 6 di ottobre e il 7 subisce il primo terribile interrogatorio: barbaramente torturato, c’è chi testimonia di avergli visto avvolgere il petto con stracci imbevuti di benzina che poi vennero accesi, confessa il legame con un bidello comunista dell’Università di Ferrara, Mario Bisi che gli aveva aperto le porte della organizzazione; a causa dei terribili e ripetuti interrogatori, inoltre, darà conto di molti altri nomi e situazioni collegati all’organizzazione resistenziale.

Passato alle SS tedesche da De Sanctis egli verrà ucciso nell’eccidio del Doro.

Giuseppe Franceschini, partigiano, nato a Medelana, (Ferrara), il 23 gennaio 1910, dall’ottobre 1943 entra in contatto con altri antifascisti ferraresi ed, in seguito, con la Resistenza modenese. Più volte arrestato, sino all’ottobre del 1944, quando viene prelevato dalla propria abitazione ed arrestato con l’accusa di far parte dell’organizzazione comunista. Sottoposto a feroce interrogatorio confessa la sua appartenenza alla Resistenza ferrarese ed i suoi contatti con il Dr. Gigi Medini, che ha conosciuto in ospedale, con il Dr. Arnoldo Azzi, con Alberto Savonuzzi e con Michele Amatucci. Nei locali della  Questura, che fungono da stanze di “interrogatorio”, i brigatisti neri del Capo dell’Ufficio politico, il criminale di guerra De Sanctis, gli spezzano una gamba e gli bruciano le palpebre con mozziconi di sigarette.

Gigi Medini, partigiano, nato a Ferrara il 30 giugno 1915, si laurea in medicina a Bologna nel 1940 e comincia  a lavorare presso l’Ospedale S. Anna. L’8 settembre del ’43 lo sorprende a Roma, dove svolge le funzioni di Tenente Medico dei Lancieri di Firenze. Partecipa alla battaglia di Porta San Paolo, combattendo per cinque giorni contro i nazisti. Torna a Ferrara ed entra nel movimento antifascista clandestino, senza far parte di un partito, in rappresentanza di un gruppo di “ex ufficiali” in congedo, collegati alla associazione “Italia Libera”, già individuata a Ferrara nella primavera del ’43.

Arrestato il 9 ottobre, in Questura subirà feroci interrogatori per essere, poi, rinchiuso nelle carceri di via Piangipane e quindi consegnato alle SS tedesche e italiane.

Michele Pistani, partigiano, nato a Ferrara il 29 novembre 1896, ragioniere e impiegato presso l’Ufficio Tasse, dopo l’8 settembre 1943 prese contatti con elementi del partito socialista ed entrò a far parte del movimento antifascista. Amico fraterno del socialista Michele Tortora, futuro sindaco estense, tornato a Ferrara dopo che aveva combattuto in Spagna e del quale aveva fatto la conoscenza nel campo di internamento, su incarico di Alberto Savonuzzi, si occupa del reperimento  dei fondi per l’organizzazione. Grazie alla sua occupazione di impiegato comunale, fornisce ai partigiani documenti falsi. Viene arrestato il 9 ottobre 1944.

Alberto Savonuzzi, partigiano, nato a Ferrara il 25 maggio 1914, abita in Corso Porta Mare, 94, ma viene arrestato il 7 ottobre 1944 a Baura dove era stato sfollato. Gli vengono sequestrate armi, munizioni ed una macchina da scrivere portatile. Avvocato, nel 1938 era entrato nello studio dell’avvocato socialista Mario Cavallari, antifascista e socialista storico, quale Procuratore. Ritornato dalla guerra per motivi di salute aderisce al partito socialista e al movimento resistenziale clandestino, entrando nel comitato politico dell’organizzazione. Dal settembre 1943, con Alda Costa, che ne era l’organizzatrice, e con Pistani e Tortora, lavora per reperire fondi per l’organizzazione. Arrestato durante l’operazione “anticomunista”, organizzata dalla Questura estense nell’ottobre – novembre 1944, viene brutalmente torturato, prima di essere condotto al carcere di via Piangipane e quindi consegnato alle SS per essere ucciso nell’eccidio del Doro.

Antenore Soffritti, partigiano, nato a Boara (Ferrara) il 19 dicembre 1912, tipografo, aderisce al Partito comunista clandestino,  entra nella Polizia Ferroviaria e prende servizio presso il locale Comando della GNR. Qui conosce Mario Agni e lo convince a collaborare con la Resistenza, che, utilizzando la sua posizione di milite della GNR, Soffritti rifornisce di armi, munizioni e informazioni. Prelevato a Boara nella propria abitazione il 12 ottobre 1944, viene interrogato brutalmente in Questura dagli uomini della banda De Sanctis sino al 20 ottobre quando il Questore Visioli ne comunica il nominativo alle SS germaniche, per essere eliminato nell’eccidio del Doro.

© Antonella Guarnieri, 2023

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