A un anno di distanza dallo scatenamento della sua “operazione militare speciale”, Putin ha scoperto una nuova realtà, che forse in Russia era latente e inconfessata: la debolezza e il fallimento militare.
Sto invecchiando, ma trovo con piacere che, non solo la memoria ancora mi aiuta, ma che la memoria digitale forse sta diventando altrettanto utile di quella cartacea.
La prima cosa che ricordo. Uno Stato membro dell’ONU, con seggio permanente al Consiglio di Sicurezza, invade un altro Paese membro dell’ONU, più piccolo, che potrebbe squagliarsi come neve al sole. Sembra che il piccolo sia destinato a cadere. E invece resiste un anno.
E poi ricordo altre cose sparse. Qualcosa mancherà. Molto mancherà. Perdonatemi, ma non sono aduso al travaglio di partorire lo scibile. Ma spero serva.
Elezioni presidenziali del 2019. Il giovane attore Volodimyr Zelenskyy si candida alle elezioni presidenziali ucraine del 2019. Un dossier programmatico pesantissimo per qualsiasi candidato fosse al suo posto. C’era di mezzo il ricordo della rivoluzione arancione, poi Evromaidan, poi il Donbass e l’applicazione degli accordi di Minsk, 1 e 2.
Non so se la memoria mi falla, ma un controllo sui siti (e attraverso quel tempo internautico a ritroso che risponde al nome di Wayback Machine) è abbastanza facile. Uno dei principali punti del programma presidenziale di Zelenskyy era la Russia come potenziale partner, con il quale anzitutto negoziare una pace; ma da Paese e da partner indipendente; non da suddito della Russia.
Trovare una soluzione di pace per le province russofone; ecco uno dei primi punti del programma di Zelenskyy. Non che in Ucraina fosse appoggiato proprio da tutti; ma l’ex attore comico aveva conseguito la maggioranza dei voti (73% dei consensi, mai contestati da nessuna organizzazione indipendente; tantomeno da Putin) e pensava che la vera alternativa a Petro Poroshenko (un nazionalista e integralista; lo si dimentica ipocritamente) fosse un sano rapporto con la Russia, anzitutto nella ricerca congiunta di una pace stabile in Donbass.
Zelenskyy (si dimentica anche questo) è cresciuto in una famiglia russofona a Kryvyi Rih (città ucraina in cui si parla russo); ed era un attore noto e molto apprezzato anche in Russia. La sua campagna elettorale (anche questo si dimentica) fu piuttosto pragmatica. Occorreva trovare un accordo con Mosca, ma non svendendo l’indipendenza ucraina; e occorreva far capire a Mosca che i buoni rapporti reciproci non erano affatto un impedimento all’ingresso dell’Ucraina nella U.E. e nella NATO.
Sì. Perché Il Parlamento ucraino approvò con 334 voti a favore, 35 contrari e 16 astenuti alcuni emendamenti che prevedevano l’inserimento nella Costituzione ucraina di due obiettivi: l’ingresso nella NATO e nell’UE.
Proposta di Zelenskyy appena giunto al potere? No. Proposta del suo predecessore Petro Poroshenko, con l’avallo della Corte Costituzionale, con decisione adottata il 22 novembre 2018. Il giorno stesso il Parlamento approvava l’emendamento in prima lettura. Il 7 febbraio 2019 arrivava la maggioranza qualificata parlamentare dei 2/3 e l’emendamento era cosa fatta.
Se riprendiamo i siti web per l’arco temporale che fa dal 2019 al 2020, noteremo inoltre che Zelensky spese il primo anno di mandato nella ricerca di progressi nei rapporti con la Federazione russa. Con Mosca furono conclusi, in quell’arco di tempo, accordi sullo scambio di prigionieri; al contempo, Zelensky ordinò il ritiro delle forze armate ucraine dalla vecchia linea del fronte delle “repubbliche separatiste” (anche qui, attirandosi qualche fortissima antipatia e accuse di “tradimento”).
William B. Taylor Jr., all’epoca alto funzionario dell’ambasciata statunitense a Kiev, ricorda quell’estate del 2019. La prima estate di Zelenskyy presidente. Andò a fargli visita e lo trovò a studiare una cosa chiamata “Formula Steinmeier”. Era un’interpretazione degli accordi di Minsk attribuita all’ex ministro degli Esteri tedesco, che Zelenskyy sperava potesse portare a un accordo con Mosca.
Zelenskyy acchiappò allora il suo smartphone e mostrò a Taylor un documento che spiegava la “formula”; aggiungendo che doveva pur esserci da qualche parte, studiando bene gli accordi di Minsk, un cavillo, un diavoletto «del legalese» che potesse portare a un compromesso fattibile con Mosca. Taylor fu brusco col giovane Presidente. «È un’idea terribile»; Zelenskyy non la prese bene; preso atto del disaccordo col diplomatico americano, disse che avrebbe studiato approfonditamente la “Formula Steinmeier”.
Altro capitolo: la ricerca di un incontro personale con Putin, attraverso la mediazione franco-tedesca. L’incontro ci fu, in Francia, nel dicembre 2019. Riprendete i filmati di quel vertice. Putin tratta Zelensky come un “parvenu” (un attore comico, sì, ma col 73% dei consensi popolari e democratici…). Guardate i sorrisi di circostanza: «Girati e sorridi alle telecamere Volodimyr Aleksandrovych! Ci stanno riprendendo», disse l’ex KGB del Cremlino. C’erano anche la Merkel e Macron. «Zelensky ha comunque lasciato Parigi fiducioso», raccontano le cronache.
Poche settimane dopo finalmente si concretizzava l’accordo con la Russia: scambio di prigionieri e offerta russa all’Ucraina di un accordo di arbitrato sul gas per tre miliardi di dollari). C’era l’accordo cornice, ma poi Putin freddò inspiegabilmente gli ucraini, non mantenendo gli impegni. Secondo Henry E. Hale, professore di Scienze politiche della George Washington University, intervistato ieri dal “Washington Post”, quando fu chiaro che l’Ucraina non si sarebbe consegnata alla sudditanza verso Mosca, i russi decisero che «la loro unica azione avrebbe dovuto essere militare, se volevano sperare di reintegrare l’Ucraina nell’orbita della Russia». Perché, non dimentichiamolo, Mosca considerava l’Ucraina come sua provincia, non come un Paese indipendente.
Nella primavera del 2021, la Russia rafforzò quindi le forze al confine con l’Ucraina e respinse ogni appello per un dialogo (e gli appelli venivano da Kiev).
Era il giugno del 2021 quando Putin pronunciava queste parole. Parole contraddittorie. Perché se sei convinto che l’Ucraina abbia un grande burattinaio esterno, ebbene, tutto fai tranne che invaderla puntando sulla capitale, pensando di poterla conquistare in tre giorni, e chiedendo all’esercito ucraino di deporre un presidente legittimamente eletto. Come reagirà il burattinaio? Senza contare che con quelli che credi il, o i burattinai dell’Ucraina, tu, Russia, ci fai degli affari. E molti.
La questione per me è molto ma molto più semplice. A un anno di distanza dallo scatenamento della sua “operazione militare speciale”, Putin ha scoperto una nuova realtà, che forse in Russia era latente e inconfessata: la debolezza e il fallimento militare. Può succedere. Anche alle superpotenze. Fa parte del bioritmo degli Stati e delle relazioni internazionali. La debolezza non rende meno degni. Ma questo è.
Dove andiamo ora, e che ci andiamo a fare?
Nel podcast “Le chiavi di Pietro”Edith Bruck, sopravvissuta ad Auschwitz e grande amica di papa Francesco, ha riflettuto sulla follia della guerra.
La guerra ci riguarda. E non da un solo anno. Ci riguarda e ci riguarderà sempre.
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MEMORIA DI PESCI ROSSI DOPO UN ANNO DI GUERRA
A un anno di distanza dallo scatenamento della sua “operazione militare speciale”, Putin ha scoperto una nuova realtà, che forse in Russia era latente e inconfessata: la debolezza e il fallimento militare.
Sto invecchiando, ma trovo con piacere che, non solo la memoria ancora mi aiuta, ma che la memoria digitale forse sta diventando altrettanto utile di quella cartacea.
La prima cosa che ricordo. Uno Stato membro dell’ONU, con seggio permanente al Consiglio di Sicurezza, invade un altro Paese membro dell’ONU, più piccolo, che potrebbe squagliarsi come neve al sole. Sembra che il piccolo sia destinato a cadere. E invece resiste un anno.
E poi ricordo altre cose sparse. Qualcosa mancherà. Molto mancherà. Perdonatemi, ma non sono aduso al travaglio di partorire lo scibile. Ma spero serva.
Elezioni presidenziali del 2019. Il giovane attore Volodimyr Zelenskyy si candida alle elezioni presidenziali ucraine del 2019. Un dossier programmatico pesantissimo per qualsiasi candidato fosse al suo posto. C’era di mezzo il ricordo della rivoluzione arancione, poi Evromaidan, poi il Donbass e l’applicazione degli accordi di Minsk, 1 e 2.
Non so se la memoria mi falla, ma un controllo sui siti (e attraverso quel tempo internautico a ritroso che risponde al nome di Wayback Machine) è abbastanza facile. Uno dei principali punti del programma presidenziale di Zelenskyy era la Russia come potenziale partner, con il quale anzitutto negoziare una pace; ma da Paese e da partner indipendente; non da suddito della Russia.
Trovare una soluzione di pace per le province russofone; ecco uno dei primi punti del programma di Zelenskyy. Non che in Ucraina fosse appoggiato proprio da tutti; ma l’ex attore comico aveva conseguito la maggioranza dei voti (73% dei consensi, mai contestati da nessuna organizzazione indipendente; tantomeno da Putin) e pensava che la vera alternativa a Petro Poroshenko (un nazionalista e integralista; lo si dimentica ipocritamente) fosse un sano rapporto con la Russia, anzitutto nella ricerca congiunta di una pace stabile in Donbass.
«Sincerità giovanile al potere», dunque (così il “Washington Post” del 22 febbraio 2023 nell’articolo firmato da Paul Sonne e David L. Stern, A year in the trenches has hardened Ukraine’s president)
Zelenskyy (si dimentica anche questo) è cresciuto in una famiglia russofona a Kryvyi Rih (città ucraina in cui si parla russo); ed era un attore noto e molto apprezzato anche in Russia. La sua campagna elettorale (anche questo si dimentica) fu piuttosto pragmatica. Occorreva trovare un accordo con Mosca, ma non svendendo l’indipendenza ucraina; e occorreva far capire a Mosca che i buoni rapporti reciproci non erano affatto un impedimento all’ingresso dell’Ucraina nella U.E. e nella NATO.
Sì. Perché Il Parlamento ucraino approvò con 334 voti a favore, 35 contrari e 16 astenuti alcuni emendamenti che prevedevano l’inserimento nella Costituzione ucraina di due obiettivi: l’ingresso nella NATO e nell’UE.
Proposta di Zelenskyy appena giunto al potere? No. Proposta del suo predecessore Petro Poroshenko, con l’avallo della Corte Costituzionale, con decisione adottata il 22 novembre 2018. Il giorno stesso il Parlamento approvava l’emendamento in prima lettura. Il 7 febbraio 2019 arrivava la maggioranza qualificata parlamentare dei 2/3 e l’emendamento era cosa fatta.
Se riprendiamo i siti web per l’arco temporale che fa dal 2019 al 2020, noteremo inoltre che Zelensky spese il primo anno di mandato nella ricerca di progressi nei rapporti con la Federazione russa. Con Mosca furono conclusi, in quell’arco di tempo, accordi sullo scambio di prigionieri; al contempo, Zelensky ordinò il ritiro delle forze armate ucraine dalla vecchia linea del fronte delle “repubbliche separatiste” (anche qui, attirandosi qualche fortissima antipatia e accuse di “tradimento”).
William B. Taylor Jr., all’epoca alto funzionario dell’ambasciata statunitense a Kiev, ricorda quell’estate del 2019. La prima estate di Zelenskyy presidente. Andò a fargli visita e lo trovò a studiare una cosa chiamata “Formula Steinmeier”. Era un’interpretazione degli accordi di Minsk attribuita all’ex ministro degli Esteri tedesco, che Zelenskyy sperava potesse portare a un accordo con Mosca.
Zelenskyy acchiappò allora il suo smartphone e mostrò a Taylor un documento che spiegava la “formula”; aggiungendo che doveva pur esserci da qualche parte, studiando bene gli accordi di Minsk, un cavillo, un diavoletto «del legalese» che potesse portare a un compromesso fattibile con Mosca. Taylor fu brusco col giovane Presidente. «È un’idea terribile»; Zelenskyy non la prese bene; preso atto del disaccordo col diplomatico americano, disse che avrebbe studiato approfonditamente la “Formula Steinmeier”.
Altro capitolo: la ricerca di un incontro personale con Putin, attraverso la mediazione franco-tedesca. L’incontro ci fu, in Francia, nel dicembre 2019. Riprendete i filmati di quel vertice. Putin tratta Zelensky come un “parvenu” (un attore comico, sì, ma col 73% dei consensi popolari e democratici…). Guardate i sorrisi di circostanza: «Girati e sorridi alle telecamere Volodimyr Aleksandrovych! Ci stanno riprendendo», disse l’ex KGB del Cremlino. C’erano anche la Merkel e Macron. «Zelensky ha comunque lasciato Parigi fiducioso», raccontano le cronache.
Poche settimane dopo finalmente si concretizzava l’accordo con la Russia: scambio di prigionieri e offerta russa all’Ucraina di un accordo di arbitrato sul gas per tre miliardi di dollari). C’era l’accordo cornice, ma poi Putin freddò inspiegabilmente gli ucraini, non mantenendo gli impegni. Secondo Henry E. Hale, professore di Scienze politiche della George Washington University, intervistato ieri dal “Washington Post”, quando fu chiaro che l’Ucraina non si sarebbe consegnata alla sudditanza verso Mosca, i russi decisero che «la loro unica azione avrebbe dovuto essere militare, se volevano sperare di reintegrare l’Ucraina nell’orbita della Russia». Perché, non dimentichiamolo, Mosca considerava l’Ucraina come sua provincia, non come un Paese indipendente.
Nella primavera del 2021, la Russia rafforzò quindi le forze al confine con l’Ucraina e respinse ogni appello per un dialogo (e gli appelli venivano da Kiev).
Era il giugno del 2021 quando Putin pronunciava queste parole. Parole contraddittorie. Perché se sei convinto che l’Ucraina abbia un grande burattinaio esterno, ebbene, tutto fai tranne che invaderla puntando sulla capitale, pensando di poterla conquistare in tre giorni, e chiedendo all’esercito ucraino di deporre un presidente legittimamente eletto. Come reagirà il burattinaio? Senza contare che con quelli che credi il, o i burattinai dell’Ucraina, tu, Russia, ci fai degli affari. E molti.
La questione per me è molto ma molto più semplice. A un anno di distanza dallo scatenamento della sua “operazione militare speciale”, Putin ha scoperto una nuova realtà, che forse in Russia era latente e inconfessata: la debolezza e il fallimento militare. Può succedere. Anche alle superpotenze. Fa parte del bioritmo degli Stati e delle relazioni internazionali. La debolezza non rende meno degni. Ma questo è.
Dove andiamo ora, e che ci andiamo a fare?
Nel podcast “Le chiavi di Pietro” Edith Bruck, sopravvissuta ad Auschwitz e grande amica di papa Francesco, ha riflettuto sulla follia della guerra.
La guerra ci riguarda. E non da un solo anno. Ci riguarda e ci riguarderà sempre.
© Matteo Luigi Napolitano, 2023
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