Settantotto anni fa veniva trucidato a Forte Bravetta dai nazisti don Giuseppe Morosini, la primula rossa in tonaca che salvò molti ebrei.
Settantotto anni fa veniva trucidato a Forte Bravetta dai nazisti don Giuseppe Morosini, la primula rossa in tonaca che salvò molti ebrei.
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Il 3 aprile di ottanta anni fa, all’alba del Lunedì Santo, veniva barbaramente trucidato presso il Forte Bravetta, tra la via Aurelia e la via Portuense a Roma, un giovane sacerdote vincenziano di appena 31 anni, caduto in una vile imboscata, accusato di «aver esercitato traffico d’armi e spionaggio» a beneficio degli anglo-americani, il suo nome era don Giuseppe Morosini.
Proprio in quel periodo, infatti, molti religiosi diedero il loro contributo alla Resistenza nascondendo prigionieri alleati, disertori tedeschi, ebrei e partigiani di ogni colore politico. Neanche don Morosini si sottrasse a quest’opera encomiabile tant’è che, come racconterà negli anni successivi padre Giuseppe Menichelli, da una piccola porta del Collegio Leoniano dove risiedeva, «faceva passare dall’ospedale militare [allestito in un’ala del Collegio], patrioti, ebrei e persone da nascondere ai tedeschi».
Inoltre, il 21 ottobre 1943, pochi giorni dopo l’ignobile rastrellamento del ghetto ebraico di Roma ad opera dei nazisti, don Giuseppe, con l’aiuto dell’amico Marcello Bucchi, avendo appreso che nella chiesa di Santa Maria in Campitelli si erano rifugiati una sessantina di ebrei per sfuggire alla retata, corse immediatamente a prelevarli con due camioncini, per condurli a Monte Mario e nello stesso Collegio Leoniano al riparo da occhi indiscreti. Sul finire di ottobre di quello stesso anno iniziò a collaborare perfino con il monsignore irlandese Hugh O’Flaherty, la famigerata “primula rossa” del Vaticano, che all’epoca guidava un’organizzazione clandestina che si occupava di assistere i militari anglo-americani, nonché del salvataggio dei prigionieri alleati fuggiti dai vari campi di concentramento e degli ebrei, nascondendoli in vari conventi dell’Urbe, a Castel Gandolfo e nella sua vecchia scuola di Propaganda Fide. Dopo essere stato Cappellano militare del 4° reggimento d’artiglieria di stanza a Laurana, all’epoca in provincia di Fiume, all’indomani dell’armistizio, don Giuseppe Morosini aveva aderito alla banda “Fulvio Mosconi” di Monte Mario alle dirette dipendenze del Fronte clandestino militare di Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo, incaricandosi di trasportare armi, viveri e consegnare messaggi nelle borgate delle vie Cassia, Appia e Casilina.
Tuttavia, proprio per questa sua attività, il 4 gennaio del 1944, subito dopo aver celebrato la S. Messa presso il collegio Leoniano, fu acciuffato da una pattuglia di SS al comando del tenente Haut, grazie alla soffiata di un infiltrato della Gestapo tra i partigiani di Monte Mario, tale Dante Bruna, un giovane commerciante che, aveva messo da parte il suo mestiere per intraprendere quello di delatore, più redditizio in tempi così critici, in combutta con il S. Ten. della Polizia dell’Africa Italiana Domenico Campani. Di conseguenza, la mattina del 4 gennaio 1944, il perfido delatore, su imbeccata della Gestapo, eseguì dettagliatamente le direttive che aveva ricevuto dal capo dell’organizzazione spionistica, il giudice Alfredo Leboffe, allacciando i primi contatti con don Morosini e Bucchi col pretesto di voler vendere loro un mitragliatore, in modo da trovare un valido capo d’accusa per poterli poi denunciare alle autorità tedesche. Appena eseguito l’ordine ricevuto, provvide ad avvertire telefonicamente le SS che alloggiavano presso l’albergo Plaza, dove, tra l’altro, aveva stabilito la sua dimora anche Alfredo Leboffe, che poi sarà il magistrato che condannerà alla pena capitale il giovane prete vincenziano.
A quel punto il piano, ordito fin nei minimi particolari da Kappler già dal mese di settembre del 1943, poteva finalmente scattare. Di conseguenza, verso le ore 11.45, mentre don Giuseppe e il sottotenente d’artiglieria Marcello Bucchi, al ritorno dall’abitazione di Dante Bruna situata in via Pompeo Magno a poca distanza dal Collegio Leoniano, si accingevano a varcare la soglia dell’istituto religioso, furono circondati e fermati da un drappello armato di tutto punto delle S.S. al comando del tenente Haut, che intimò loro di fermarsi per accertarsi delle loro generalità. Senza battere ciglio trascinarono il malcapitato sacerdote a bordo di una vettura Lancia-Aprilia, sotto lo sguardo esterrefatto del superiore del collegio don Giuseppe Zeppieri, mentre il sottotenente Bucchi fu fatto salire su di una camionetta militare che si dileguò rapidamente verso via Lucullo. Nel frattempo, il pomeriggio del 5 gennaio, mentre don Giuseppe Morosini si accingeva ad affrontare il suo lungo calvario, il Collegio Leoniano fu messo completamente a soqquadro dalle perquisizioni delle spie e della polizia tedesca – al cospetto della Guardia Nobile di Sua Santità, D. Enzo di Napoli Rampolla – che si protrasse fino al 7 gennaio quando, finalmente, trovarono, meticolosamente occultate nella biblioteca, ben 17 mitragliatrici, tre valige contenenti pistole e bombe a mano, le copie dei messaggi trasmessi e ricevuti agli alleati e al governo Badoglio a Brindisi, nonché il cifrario adoperato da don Giuseppe Morosini. Per questo motivo il giovane sacerdote vincenziano fu accusato di aver “esercitato traffico d’armi e spionaggio” a beneficio degli Alleati e recluso nella cella numero 382 del terzo braccio di Regina Coeli.
In virtù di questa deprecabile delazione, Dante Bruna ricevette dai nazisti una lauta ricompensa che, come si è scritto da più parti ammontava a ben 70 mila, tanto che il giorno dopo l’ignobile misfatto, senza alcun ritegno, pensò bene di festeggiare l’avvenimento con un luculliano pranzo in una nota trattoria romana in compagnia della “pantera nera” – così com’era nota in quegli ambienti la principessa trentacinquenne libanese Hamadà Ikbar (come riportano le cronache coeve era nata, infatti, a Beirut il 5 giugno 1909), segretaria e amante di Alfredo Leboffe – e un agente della P.A.I. dopodiché, un mese prima della fucilazione di don Morosini, si affrettò a far perdere le proprie tracce abbandonando precipitosamente la capitale per raggiungere il nord Italia.
Alcuni giorni dopo l’arresto di don Morosini, per la precisione il 12 gennaio, su sollecitazione dello zio don Luigi, parroco della Chiesa di Sant’Onofrio, il fratello Salvatore, decise di rivolgersi al Superiore Generale dei Salvatoriani padre Pancrazio Pfeiffer, per persuaderlo ad interporre i suoi buoni uffici presso le autorità tedesche, con le quali aveva da tempo allacciato buoni rapporti. “Ma non so quello che si potrà fare. È grave… è grave”, replicò costernato padre Pfeiffer il quale, nel frattempo era riuscito a carpire preziose informazioni dal capitano del controspionaggio tedesco Ferdinand Thun Von Hofenstein. Poi, fissando negli occhi il suo interlocutore, allargò le braccia esclamando laconicamente: “Sta nelle mani di Dio”.
In quel periodo, infatti, prosperavano all’ombra del nazismo vari gruppi che, come Dante Bruna, erano al servizio dell’ufficio di controspionaggio hitleriano, con sede operativa in via Flavia, che era alle dirette dipendenze del maggiore della riserva della Wehrmarcht, Ferdinand Thun Von Hofenstein. Proprio grazie alle informazioni carpite abilmente da questo ufficiale tedesco, il Superiore Generale dei Salvatoriani, P. Pancrazio Pfeiffer, teneva costantemente aggiornato don Giuseppe Zeppieri sull’evolversi degli estenuanti interrogatori a cui veniva sottoposto don Morosini.
Il 22 febbraio successivo, infatti, si celebrò il processo a carico del giovane prete vincenziano e di Marcello Bucchi i quali, durante il dibattimento, che in realtà si rivelò un’autentica farsa, considerato che non durò più di mezz’ora perché il giudice aveva già deciso la sentenza che confermò l’accusa disponendo la reclusione nel terzo braccio di Regina Coeli, dove gli fu assegnata la cella numero 382. Quindi, a distanza di alcuni giorni, fu nuovamente trasportato a via Lucullo, presso l’Hotel Flora e negli uffici della Gestapo, al Viminale, per essere sottoposto a lunghi ed estenuanti interrogatori che duravano a volte anche più di quattro ore di fila nel corso dei quali seppe mantenere sempre un orgoglioso contegno di fronte alle violente minacce alternate da sottili blandizie che, di volta in volta, gli venivano rivolte allo scopo di estorcergli il nome del militare della Wehrmacht che gli aveva consegnato una copia del piano di schieramento delle forze tedesche nei pressi di Cassino.
Documento relativo a don Giuseppe Morosini rinvenuto tra le carte di P. Pfeiffer (Archivio Generale Salvatoriano)
Nonostante le minacce e le dure percosse, le SS non riuscirono a cavare un ragno dal buco, perché don Giuseppe Morosini riuscì a resistere stoicamente senza lasciarsi sfuggire neanche una parola. A quel punto l’avvocato difensore, Otto Vinatzer – tra l’altro da anni legale di fiducia anche di P. Pfeiffer – nominato d’ufficio dal Comando tedesco, chiese per l’imputato una perizia psichiatrica – evidentemente nel disperato tentativo di attribuire la “colpa” dell’accaduto all’indole particolarmente esuberante del giovane sacerdote. Tuttavia, ogni tentativo di salvargli la vita si rivelò vano anche dopo quello effettuato dal direttore dell’Ospedale Provinciale Psichiatrico di Roma, il prof. Francesco Bonfiglio che, su incarico del superiore del Collegio Leoniano, padre Giuseppe Zeppieri, il 25 febbraio 1944, provvide a far pervenire al Comando germanico un circostanziato referto medico nel quale si leggeva tra l’altro:
Ad ogni modo, malgrado non fosse stato accertato l’uso di armi da parte dell’imputato, don Morosini fu comunque condannato a morte, mentre Marcello Bucchi lì per lì se la cavò – si fa per dire – con una pena di dieci anni di reclusione da scontare in Germania anche se poi, il 24 marzo 1944, in seguito all’attentato in via Rasella, in cui persero la vita 33 soldati tedeschi, fu incluso nella lista con altri 334 detenuti per essere trucidato nella rappresaglia delle Fosse Ardeatine, nonostante i pressanti appelli da parte della Santa Sede per evitare un inutile spargimento di sangue.
Finanche Pio XII, infatti, si prodigò per salvare la vita al giovane prete incaricando, come di consueto, padre Pancrazio Pfeiffer di perorare la causa di don Giuseppe presso il feldmaresciallo Kesselring, il quale subito telefonò ad Hitler per metterlo al corrente dell’intervento del pontefice. Il Führer, tuttavia, all’udire ciò montò su tutte le furie divenendo ancora più irremovibile, al punto che ordinò addirittura di anticipare l’esecuzione del malcapitato sacerdote. Al termine dell’istruttoria, affidata al giudice Alfredo Leboffe questi pronunciò la sentenza di condanna a morte nei confronti di don Giuseppe Morosini, disponendo che sarebbe stata eseguita all’alba del 3 aprile 1944 nei pressi del Forte Bravetta. Prima di comparire davanti al plotone d’esecuzione, il giovane prete vincenziano, alle 4 del mattino, volle celebrare la sua ultima Messa insieme al cappellano di Regina Coeli, mons. Cosimo Bonaldi.
Quindi, alle sei in punto, accompagnato dal vicegerente del Vicariato, mons. Luigi Traglia – dal quale era stato ordinato sacerdote a San Giovanni in Laterano nel 1937 – fu condotto sul luogo del supplizio dove, dopo aver baciato per l’ultima volta il Crocifisso, rivolgendosi al prelato esclamò:
Quindi, alle ore 8 in punto, fu accuratamente bendato e legato ad una sedia per essere giustiziato dai militi della P.A.I. Mentre stava per esalare l’ultimo respiro trovò il tempo finanche per benedire il plotone d’esecuzione pronunciando le parole del Cristo sulla Croce: «Dio, perdona loro: non sanno quello che fanno».
Questo gesto eroico suscitò un unanime consenso al punto che, a distanza di appena un anno, questo triste episodio fu rievocato perfino nel celebre capolavoro neorealista di Roberto Rossellini Roma città aperta, a cui prestò il volto l’indimenticabile Aldo Fabrizi in una delle sue magistrali interpretazioni.
© Giovanni Preziosi, 2024
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