MORTE A VENEZIA: la retata degli ebrei del 5 dicembre 1943
Il 5 dicembre 1943 il questore Cordova ordinò di eseguire l’arresto degli ebrei: tra il 7 e l’8 dicembre 105 fra uomini e donne furono rinchiusi nelle carceri di Santa Maria Maggiore dopodiché, il 28 dicembre successivo, il furono deportati presso il campo di concentramento di Fossoli.
Gli eventi precipitarono anche a Venezia dopo l’8 settembre 1943. L’occupazione tedesca di Mestre e Venezia (9-10 settembre) segnò l’inizio della ‘soluzione finale’. Il 17 settembre il presidente della comunità, professor Giuseppe Jona, dopo aver scritto l’ultima lettera al suo allievo Mario Battain, si suicidò per non consegnare le liste degli iscritti alla Comunità alla questura veneziana. Il ‘manifesto programmatico’ e i decreti del novembre 1943 dichiararono gli ebrei stranieri di nazionalità nemica, prevedendo il loro arresto e la confisca dei loro beni.
Il 5 dicembre 1943, mediante un fonogramma urgentissimo, il questore Cordova ordinò di eseguire l’arresto degli ebrei: gli uomini dovevano essere tradotti al Carcere di Santa Maria Maggiore, le donne alla Giudecca e i bambini al centro minorenni. Col favore delle tenebre di quella triste domenica, l’ordine venne puntualmente eseguito dalla Polizia e dalla Guardia fascista repubblicana che perlustrò da cima a fondo il centro storico, il Lido e Mestre. Fra il 7 e l’8 dicembre105 fra uomini e donne furono rinchiusi nelle carceri di Santa Maria Maggiore dopodiché, il 28 dicembre successivo, il questore Cordova disponeva la loro deportazione presso il campo di concentramento di Fossoli.
Quest’ordine fu eseguito puntualmente e, il 22 febbraio 1944, furono infine deportati da Fossoli presso il campo di sterminio di Auschwitz.
Alcuni ebrei riuscirono clandestinamente a rifugiarsi in Svizzera, a raggiungere località del sud d’Italia o a trovar scampo in case di campagna; altri vennero rastrellati dai militi della Repubblica Sociale Italiana, trattenuti in luoghi di raccolta (il carcere di Santa Maria Maggiore, la Giudecca, il Liceo “M. Foscarini”) e inviati poi a Fossoli, fino al luglio 1944, e, in seguito, a Bolzano e alla Risiera di San Sabba a Trieste.
Gli arresti e le deportazioni avvennero soprattutto tra i primi giorni di dicembre del 1943 (la razzia del 5 dicembre) e l’estate del 1944, ma proseguirono fino ai primi mesi del 1945. Particolarmente doloroso fu l’arresto dei 21 ospiti della Casa di Ricovero Israelitica, avvenuto il 17 agosto 1944: tra loro anche il vecchio rabbino Adolfo Ottolenghi, che volle seguire la sorte dei propri correligionari. Tutti vennero avviati in carri blindati per lo più ad Auschwitz-Birkenau.
Diciotto mesi durò la persecuzione nazifascista, durante i quali, malgrado i pericoli, la vita ebraica nel ghetto continuò, mentre non mancò, talora, l’aiuto dei non ebrei e della chiesa. Furono 246 gli ebrei veneziani catturati e deportati tra il 1943 e il 1944. Una lapide ricorda per sempre i loro nomi in Campo del Ghetto Nuovo, insieme al monumento che lo scultore Blatas ha dedicato alla Shoah.
Tra il dicembre 1943 e il febbraio 1944 tedeschi e fascista arrestano e deportano 130 bambini e sedici di loro vengono presi nel rastrellamento che i fascisti compiono nella notte tra la domenica 5 dicembre 1943 e il lunedì 6 a Venezia (nell’immagine il monumento alla vittime della Shoah a Venezia). Il questore Cordova impiega millecinquecento tra agenti di Pubblica sicurezza, carabinieri e militi fascisti per realizzare il primo rastrellamento organizzato autonomamente dalle autorità della Repubblica sociale.
L’ordine è di arrestare tutti gli “ebrei puri”, dividendo gli uomini, le donne e persino i bambini: i primi da inviare al carcere di Santa Maria Maggiore, le seconde alla Giudecca e i più piccoli al centro minorenni. Diciannove bambini tra i tre e i quattro anni, figli di una parte dei centocinquanta ebrei rastrellati quella notte, sono divisi fra tre istituti per minori, scortati da agenti di polizia. Nelle settimane successive gran parte dei prigionieri viene inviata a Fossoli, compresi i bambini, una parte dei quali però venne ancora trattenuta a Venezia fino alla metà di gennaio.
Il 18 di quel mese partono da Venezia verso Fossoli, sempre scortati da agenti,
i minori di razza ebraica che trovavansi il 31.12 in condizioni tali da non consentire il trasporto: Levi Mario di Beniamino di anni 4; Levi Lino di Beniamino di anni 6; Todesco Sergio di Eugenio di anni 4; Nacamulli Mara di Eugenio di anni 3. I predetti troveranno in codesto campo di concentramento i loro genitori.
Non è chiaro quale sia stato l’impedimento per la partenza di qualche settimana prima ma viene un brivido – riflettendo sul destino che li attende – a pensare che magari la ragione può essere stata un’influenza o comunque delle condizioni di salute che non ne hanno consigliato il trasporto.
Nella retata del 5 dicembre è arrestato anche un bambino che deve ancora nascere. La ventunenne Pia Cesana, moglie di Enrico Mariani, viene catturata insieme agli altri undici membri della famiglia (e solo uno sopravvive ad Auschwitz) mentre è in attesa di Leo. Condotta all’Ospedale civile di Venezia, il bambino nasce il 18 dicembre e i due sono subito dopo imprigionati nella Casa di Riposo, dove falliscono tutti i tentativi di farli fuggire, anche per la testardaggine che la giovane madre dimostra nel voler seguire la sorte del marito. Di Mirna Grassini – che ha sei anni e viene deportata insieme al fratello Angelo, che ne compie dieci mentre è tenuto prigioniero nella Casa di Riposo – rimane una fotografia, con un vestito bianco ed elegante, seduta su un tappeto, con uno sguardo denso di curiosità e stupore.
La notizia di quella retata avvenuta tra la mezzanotte e le due del 5 dicembre e dei saccheggi verificatisi successivamente nelle case degli ebrei da parte degli squadristi, gettò accresciuto sgomento fra la nostra popolazione. […] gli anziani e gli ammalati erano stati collocati nella casa di ricovero della Comunità israelita. […] Non ricordo come riuscii […] a procurarmi un lasciapassare per visita “autorizzata”. […] In pratica sul lasciapassare era precisato che valeva per due persone, ma io invece entravo solo e avevo facoltà di uscire con una seconda persona. C’era rischio per me ma anche un certo margine di sicurezza perché alla sorveglianza erano adibiti soldati italiani, giovani, e, a quel che potei osservare, dall’aria incerta e preoccupata. Entrai, senza difficoltà passai i due posti di blocco. Giunto alla casa di ricovero mostrai al piantone il mio lasciapassare e poco dopo fu fatto scendere il prof. Corinaldi. Appena mi vide mi abbracciò esprimendomi la sua gratitudine per essere andato a vederlo. Subito gli dissi che poteva uscire con me, che l’avrei portato in casa di amici. Gli dissi in poche parole del pericolo che sovrastava lui e gli altri e mi pareva di aver detto bene tutto e di averlo convinto. […] Egli, dopo avermi ascoltato, riflettè qualche istante e disse: “Turcato, possibile che ci facciano queste cose… non abbiamo fatto niente di male, forse sono esagerazioni. Certo non saranno giorni facili”. Dicendo questo si era fatto serio e contratto. Non capico e non sapendo cosa soggiungere abbassai la testa dicendo a me stesso: “Quest’uomo non si rende conto di ciò che sta per accadergli”. Trascorsero alcuni istanti: rialzai il capo e vidi che egli aveva la testa reclinata sul petto e gli occhi pieni di lacrime. Passato quel momento di commozione disse: ” caro Turcato, sono qui con i miei cugini: uno è vecchio e cieco e anche l’altro è molto avanti con gli anni; ci siamo sempre voluti bene, non mi sento di abbandonarli”. Egli aveva dunque compreso, egli sapeva, ma la sua decisione era già stata presa. era quella, e io dovevo rispettarla. Ci dicemmo addio.
Vogliamo ricordare la retata del 5 dicembre 1943 con questa testimonianza del partigiano e intellettuale Giuseppe ‘Bepi’ Turcato (1913-1996) in memoria dell’amico Gustavo Corinaldi. Anche a lui è dedicata una pietra d’inciampo davanti alla sua casa vicino a San Marcuola, riposizionata a gennaio passato dopo che un atto di vandalismo aveva tolto la prima posata diversi anni fa.