«Signor Prevosto, venga con me e guardi questo soldato. Non le pare Mussolini?».
«Signor Prevosto, venga con me e guardi questo soldato. Non le pare Mussolini?».
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Il 25 aprile di settantanove anni fa a Milano piove quando, alle 8 in punto del mattino, nel corso di una riunione segreta presso la sala verde dell’istituto salesiano S. Ambrogio in via Copernico, a poca distanza dai comandi tedeschi e fascisti, grazie ai buoni uffici con i propri superiori di don Francesco Beniamino Della Torre, i cinque plenipotenziari del Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia – Giustino Arpesani, Achille Marazza, Sandro Pertini, Emilio Sereni e Leo Valiani – al riparo da occhi indiscreti, dopo avere preso atto delle ultime proposte avanzate da Mussolini, assunti i pieni poteri civili e militari, all’unanimità, decisero di proclamare l’insurrezione nazionale. Nel decreto che sottoscrissero si affermava solennemente che:
Veniva in tal modo premiata la linea dell’intransigenza che significava, in pratica, la condanna a morte di Mussolini e dei suoi sodali, dopo avere constatato che anche l’ultimo tentativo in extremis compiuto dal cardinale Schuster, di ottenere una resa onorevole del duce e un ordinato passaggio di poteri alle autorità del Clnai senza alcun spargimento di sangue era, ormai, naufragato.
Alle 21,30, proprio nel momento in cui dai microfoni di Radio Milano Libertà veniva trasmesso il proclama insurrezionale, Mussolini – dopo una breve consultazione con i suoi più stretti collaboratori – decise di lasciare Milano per dirigersi verso Como, molto probabilmente con l’intento di rifugiarsi in Valtellina o, come sostiene qualcuno, recarsi sulle sponde del Lago per incontrare degli agenti segreti ai quali avrebbe dovuto consegnare i famigerati documenti che portava con sé nella borsa in cambio della sua vita. Tuttavia, come gli eventi successivi s’incaricheranno di dimostrare, i piani del duce non andranno per il verso giusto. Il 27 aprile, infatti, a Menaggio, dopo avere esaminato accuratamente per tutta la notte le carte geografiche insieme al tenente Otto Kisnatt per trovare una via di fuga, alle prime luci dell’alba impartisce l’ordine di accodarsi a una piccola autocolonna tedesca della Flack al comando del tenente Hans Fallmeyer diretta in Valtellina, seguito come un’ombra da Bombacci e Barracu e dalle le vetture dei gerarchi e di Claretta con il fratello Marcello.
Nel pomeriggio del 27 aprile, Mussolini, su consiglio del capo della scorta di SS e SD che, da Gargnano a Dongo, tra il 18 e il 27 aprile 1945, seguivano ogni suo passo, il tenente Fritz Birzer, indossò un cappotto e un elmetto della Flak da sottufficiale della Wehrmacht e salì sul camion numero 34, nascondendosi in fondo accanto alla cabina di guida fingendo di dormire.
La speranza della salvezza, però, s’infrange pochi chilometri più avanti, sulla strada nei pressi di Musso, allorché l’autocolonna fu costretta a una brusca frenata bloccata dai partigiani della 52a brigata Garibaldi «Luigi Clerici», comandata da «Pedro», al secolo Pier Luigi Bellini delle Stelle.
Tuttavia, poco dopo, appena la colonna è costretta a fermarsi a causa del tronco messo di traverso lungo la strada dai partigiani, il figlio del panettiere, il giovane Fiorenzo Rampoldi, sospettando che a bordo di un’autoblindo si nasconda Mussolini travestito col pastrano di un soldato tedesco, trafelato corre da don Enea dicendogli: «Signor Prevosto, venga con me e guardi questo soldato. Non le pare Mussolini?». Immediatamente il prete si avvicina alla colonna per sincerarsi di persona e, appena riconobbe che sotto le mentite spoglie di un soldato tedesco si nascondeva realmente il duce, subito si recò a Dongo insieme ad Alessandro Salice, per mettere al corrente della strabiliante scoperta il capitano Pier Luigi Bellini delle Stelle, di cui conosceva bene sua sorella che insegnava nell’Istituto di Gravedona.
Intanto, mentre si svolgevano le trattative tra «Neri» e l’ufficiale tedesco Fallmeyer, appena scorgono sopraggiungere don Enea, Bombacci, lo chiama in disparte e gli soggiunge che, vedendo inevitabile la sua cattura, non vuole che avvenga in pubblico e in forma drammatica.
Mentre Mussolini, alle prime ore del pomeriggio del 27 aprile viene catturato dai partigiani e condotto presso il municipio di Dongo per i primi accertamenti, vedendosi ormai spacciato, anche l’ex-ministro fascista dei lavori pubblici Ruggero Romano, decise di rivolgersi al Prevosto di Musso per aiutarlo a mettere in salvo almeno il figlio.
Difatti, alle 17,47 del 28 aprile 1945, a Dongo, sulla riva del lago di Como, anche il ministro dei Lavori pubblici della Repubblica sociale italiana fu giustiziato insieme agli altri gerarchi al seguito del duce, dopo avere ricevuto una sbrigativa benedizione da parte del padre francescano Accursio Ferrari.
Ma il suo interlocutore, dopo avere guardato l’orologio, replicò lapidariamente: «Posso darle tre minuti! Esigenze militari non mi permettono di fare di più». A nulla valsero le proteste del Frate francescano che, dopo un po’, scese in piazza e, accostatosi ai gerarchi in attesa dell’esecuzione, prima di impartire l’assoluzione, cercò di confortarli con queste parole: «Innalzate il pensiero a Dio – chiedetegli perdono dei vostri errori – Egli vi accoglierà sotto le ali della sua misericordia».
Proprio alla luce di quanto era accaduto, don Mainetti pensò che, a quel punto, la sua abitazione non poteva più garantire un’adeguata sicurezza neanche per Costantino Romano e perciò, il 1° maggio successivo, decise di chiedere ai Frati minori di Dongo di ospitare per alcuni giorni il ragazzo.
In effetti, non solo il collegio dei Salesiani fu la sede di incontri clandestini degli antifascisti, ma anche l’Angelicum di Milano che, come annota con dovizia di particolari, lo stesso padre Enrico Zucca, durante il periodo culminante della guerra
Questo particolare, del resto, ci viene confermato anche dalla stessa consorte del generale, la signora Cecilia, che, in una missiva del 27 agosto 1946, scriveva:
All’indomani della fine della guerra, quest’ultimo, suo malgrado, insieme al suo braccio destro, padre Alberto Parini, si ritroverà invischiato nella famosa vicenda del trafugamento del cadavere del duce dal Cimitero del Musocco, avvenuto nella notte tra il 27 ed il 28 aprile 1946 per opera di due giovani nostalgici neo-fascisti, Domenico Leccisi e un certo Antonio Perozzi che, poco dopo, si presentarono all’Angelicum mettendo i due Frati di fronte al fatto compiuto e inducendoli a ospitare nel loro convento le spoglie di Mussolini semplicemente per dargli una degna sepoltura e sottrarle al vilipendio. Come si evince da numerosi carteggi, l’attività assistenziale del solerte Frate francescano non si limitò soltanto a questo ma, come sottolineava egli stesso, si adoperò perfino per il socialista
Si chiudeva così una delle pagine più sanguinose della nostra storia e l’Italia, grazie al sacrificio di tanti uomini e donne, laici e religiosi, poteva finalmente riacquistare quella tanto agognata libertà conculcata dal fascismo per un lungo ventennio.
© Giovanni Preziosi, 2024
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Comments
Melissia Schwabenbauer
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Evhe
La fotografia dello sbarramento va “girata”. Il muretto a bordo strada deve stare sulla sinistra dell’immagine.