Il 12 dicembre 1943 il capo del reparto speciale di polizia della Repubblica sociale italiana, Pietro Koch fa scattare l’operazione segreta che conduce all’arresto dell’ex comandante della Va Armata il gen. Mario Caracciolo di Feroleto.
Il 12 dicembre 1943 il capo del reparto speciale di polizia della Repubblica sociale italiana, Pietro Koch fa scattare l’operazione segreta che conduce all’arresto dell’ex comandante della Va Armata il gen. Mario Caracciolo di Feroleto.
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Il 4 giugno 1945, nell’aula magna dell’Università La Sapienza di Roma, davanti all’Alta corte di giustizia, si apriva il processo a carico del famigerato capo del reparto speciale di polizia della Repubblica sociale italiana, Pietro Koch (Benevento, 18 agosto 1918 – Roma, 5 giugno 1945), che aveva operato con allucinante crudeltà, torturando e seviziando tutti coloro che ebbero la sventura di finire nelle sue grinfie prima nella pensioni Oltremare e Jaccarino a
Roma, e poi nella cosiddetta “Villa Triste” a Milano. Al termine della requisitoria del Pubblico Ministero e dell’arringa difensiva dell’avv. Federico Comandini, alle 12:17 in punto la corte diede lettura del dispositivo della sentenza che condannava l’imputato «alla pena di morte mediante fucilazione alla schiena». La sentenza fu puntualmente eseguita il giorno successivo alle 14:21 presso Forte Bravetta. Ma chi era questo inquietante personaggio che, appena venticinquenne, aveva cominciato a far parlare di sé a Firenze per la sua malvagità subito dopo la proclamazione dell’Armistizio?
Il 4 novembre del 1943, infatti, un po’ per sbarcare il lunario e un po’ per inseguire smanie di successo, infatuatosi perdutamente della sedicenne Tamara Cerri, si era trasferito a Firenze dove si aggregò alla Guardia nazionale repubblicana al comando del generale Luna, venendo subito distaccato presso il famigerato ufficio investigativo diretto dal maggiore Carità, specializzato nella caccia ai partigiani. Qui, l’8 dicembre, subito si mise in evidenza con la cattura, presso l’Hotel Roma nel pieno centro di Firenze, del colonnello Marino, sin dal 1936 ufficiale d’ordinanza dell’ex comandante della Va Armata operante nell’Italia centrale, del generale di corpo d’armata Mario Caracciolo di Feroleto, uno dei pochi ufficiali che si erano opposti tenacemente ai tedeschi. Dopo un serrato interrogatorio nella sede della Banda Carità in via Bolognese 67, grazie ai suoi proverbiali metodi persuasivi, riuscì ad apprendere che l’alto ufficiale, dopo aver tentato invano la difesa di Firenze, si nascondeva, sotto mentite spoglie, nel convento francescano capitolino di San Sebastiano sull’Appia antica.
Difatti, sentendosi come molti altri ufficiali, legato dal giuramento al Re, per sfuggire alla caccia dei tedeschi, il generale Caracciolo era entrato ben presto in clandestinità e, appena giunto nella capitale la sera del 12 settembre, subito aveva offerto la sua collaborazione al maresciallo Caviglia, mettendosi a disposizione della resistenza militare del comando della città aperta e, il 24 settembre successivo, riuscì per un pelo a sfuggire alla cattura mentre si trovava presso il ministero della Guerra. Così, dopo aver cercato di allacciare contatti con alcuni esponenti antifascisti per fornire il proprio appoggio alla resistenza, dopo una breve sosta presso le catacombe di San Tarcisio gestite dai salesiani, l’8 novembre successivo era stato costretto a nascondersi – insieme al figlio Francesco, renitente alla leva – sotto mentite spoglie col nome di padre Francesco Mario Santelli, presso l’attiguo convento romano francescano di San Sebastiano, sotto la tutela di Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo. Dai salesiani, infatti, si fermò soltanto pochi giorni perché si rifiutò di osservare scrupolosamente le norme di sicurezza che consigliavano di indossare l’abito talare e non adoperare il telefono per comunicare, considerato che poteva essere facilmente intercettato. Tuttavia, in più di una circostanza fece ritorno a S. Tarcisio per incontrarsi con alcuni esponenti della Resistenza capitolina.
Mentre stava per assumere il comando delle forze clandestine che gravitavano nell’Italia Centrale, venne arrestato nel gennaio 1944 dai fascisti della banda Koch all’interno del monastero francescano presso le catacombe di S. Sebastiano, dove si era rifugiato fin dall’8 novembre, come riportava l’edizione del 5 gennaio 1944 de “Il Messaggero”. Del resto è ormai acclarato che, nel corso di quegli anni, l’accoglienza negli ambienti ecclesiastici non conobbe riserve, tanto è vero che la Città del Vaticano e numerosi ordini religiosi, sprezzanti del pericolo che correvano, si distinsero in questa opera di ospitalità a beneficio di tutti coloro i quali erano in cerca d’aiuto per sfuggire ai rastrellamenti dei nazifascisti e al rischio di essere spediti in qualche orrendo lager allestito proprio in quel periodo per accogliere ebrei e dissidenti politici.
Proprio per questo motivo, a partire dal 25 ottobre 1943, la Segreteria di Stato della S. Sede, mediante un’apposita circolare, aveva trasmesso a tutti i superiori degli enti che godevano della extraterritorialità e ad e altre istituzioni religiose un avviso, scritto in italiano e tedesco, con lo stemma papale firmato dal governatore militare di Roma Rainer Stahel, da affiggere nell’atrio in caso di emergenza per impedire le improvvise perquisizioni. Di conseguenza nessuna autorità costituita, di punto in bianco, poteva violare un luogo sacro, e perfino ai nazisti non passava per la mente di compiere un azzardo di questo genere per non compromettere ulteriormente i rapporti con la gerarchia vaticana e con la popolazione romana che, del resto, già incominciava a nutrire un certo malcontento verso i tedeschi soprattutto dopo gli efferati rastrellamenti del ghetto ebraico compiuti, com’è noto, alle prime luci dell’alba del 16 ottobre 1943. Soltanto un fanatico fascista come Pietro Koch – ritratto tipico di un gagà, amante dei facili guadagni e delle grazie muliebri – con un passato di ufficiale dei granatieri, poteva tentare un’azione tanto temeraria per farsi notare da Mussolini, «forse la più brillante operazione politico-militare del momento», come ci teneva a sottolineare egli stesso spavaldamente nel rapporto al comandante tedesco della Città Aperta di Roma, generale Maeltzer.
Difatti, poco dopo subito scattò l’operazione, allestita fin nei minimi particolari dagli sgherri di Koch, per snidare il generale Caracciolo dal suo nascondiglio proprio nel momento in cui il comandante, scrive Koch tra le pagine del suo diario per il “Centurione” Carità,
«mi ordina alle 10 di partire al più presto per Roma con qualunque mezzo. Il treno arriva però solo ad Arezzo. Il maggiore Micheli mi mette a disposizione un C.A. 133. Scelgo a compagni della missione il c. sq. Castellani Mario e la camicia nera Ciulli Bruno che ritengo particolarmente adatto».
Dunque tutto era pronto per la partenza, senonché il giorno successivo, dopo aver ricevuto le ultime direttive dal Maggiore Micheli, alle 18 in punto giunge improvvisa una comunicazione del comando tedesco locale che li esorta a rimandare la partenza per le proibitive condizioni atmosferiche. Nonostante il perdurare del maltempo, dopo essere riuscito a procurarsi un’auto di fortuna, una 110 dall’autorimessa Inferno, l’11 dicembre, verso le ore 13, finalmente, la banda riuscì a mettersi in viaggio in direzione della capitale poiché Koch doveva consegnare urgentemente una lettera al tenente colonnello Kappler, nella quale erano contenuti tutti i dettagli dell’operazione che doveva portare a termine.
«Arriviamo alle 21 – annota Koch più avanti nel suo diario –. Mangiamo e cerchiamo alloggio. Difficilissimo. Si trova, infine, all’Albergo Bernini in Piazza Barberini alle 24 circa».
Quindi il giorno successivo, alle prime luci dell’alba, accompagnato dal padre – Otto Rinaldo Koch, un ex ufficiale della marina tedesca che in quegli anni si era dato al commercio di vini – si recò presso l’ambasciata tedesca per incontrare il ten. Colonnello Kappler.
«Ci dicono che è a Verona. Andiamo in via Tasso 155 alle SS e ci fanno parlare col capitano Schutze. L’operazione interessa moltissimo – sottolinea – essendo stato il generale Caracciolo il comandante dell’Armata che fortemente cerca resistere ai tedeschi. […] Ma non è possibile fare nulla senza il tenente colonnello Kappler essendoci la questione della extraterritorialità del Vaticano, questione delicatissima per alte ragioni morali. Il Tenente Colonnello Kappler tornerà domani sera e il capitano Schanitze mi attende per le 18 del 13. Dal colloquio durato oltre due ore – conclude amareggiato Koch – mi rendo, però, conto che malgrado l’enorme importanza che il capitano dà all’operazione, non potrò avere, forse, che scarsi aiuti».
Il tempo scorre veloce e Koch incominciava a diventare sempre più smanioso perché non vedeva l’ora di far scattare l’operazione per acciuffare il generale Caracciolo. Senonché, dopo qualche ora, avvertito dal padre, apprende che Kappler non avrebbe fatto presto ritorno a Roma perché si era diretto a Berlino. A quel punto sfumava miseramente l’appoggio delle SS, per cui verso le 15, ruppe ogni indugio e decise di recarsi al comando fascista di zona per chiedere all’ufficiale di servizio una squadra di 10/15 uomini.
«Il centurione non si assume la responsabilità – scrive nel suo rapporto l’ineffabile aguzzino –. Telefona all’abitazione del capo di S.M. della Legione e mi ci fa parlare. Anche lui non si assume la responsabilità. Mi dice, però, di andare al comando generale. Mi ci reco ma naturalmente non trovo nessuno salvo l’ufficiale di picchetto. Telefonicamente si cerca di rintracciare i vari generali e colonnelli del comando ma sono tutti fuori casa (chi al teatro, chi da amici)».
Finalmente verso le 17 si riesce a rintracciare il generale Tommaso Semadini, capo del servizio politico del Comando generale della Guardia Nazionale Repubblicana ed aiuto dirigente l’ufficio politico del comando generale. Dopo avergli esposto con dovizia di particolari il suo piano, si sente ribattere dall’ufficiale che
«non intende assumersi nessuna responsabilità, ma che se avesse voluto avrebbe telefonato all’Eccellenza Graziani. Mi oppongo. Saputo di che reparto ero mi dice male del mio comandante, paragonandolo al generale Pollastrini. […] Alle 19,30, ci rechiamo allora dall’Eccellenza Tamburini. Mi ascolta molto attentamente. Mi spiega la complicatissima questione della Città Aperta, del Vaticano e dei grandi valori nostri in loro possesso. Mi promette appoggio e mi prega però di recarmi prima ancora una volta dal capitano [Kurt] Schutze. Mi reco alle 21 da lui e gli dico di avere avuto notizia che l’Eccellenza Caracciolo avrebbe lasciato il Convento in nottata. È titubante e si lascia infine convincere. Forse perché era ubriaco. Mi da quattro uomini in borghese. Telefono come da accordo all’Eccellenza Tamburini che mi fa gli auguri. Pranziamo ed alle ore 22 partiamo. Telefono come da accordo all’Eccellenza Tamburini che mi fa gli auguri. Pranziamo ed alle ore 22 partiamo».
A quel punto, dopo una spasmodica ricerca delle necessarie autorizzazioni, finalmente, il 12 dicembre 1943 l’operazione può scattare. Difatti, considerata l’assenza di Kappler che si era recato presso il quartier generale nazista a Berlino, fu il capitano delle SS Kurt Schutze ad assumersi la responsabilità di autorizzare Koch a violare il diritto di extraterritorialità che, con i suoi sgherri Mario Castellani (uno dei caposquadra della 92a Legione della Milizia, residente a Firenze in via Aretina 40) e Bruno Ciulli (ex comandante della brigata Nera di Bergantino affiliato alla banda Carità, residente a Firenze in via della Chiesa 42), alle 22 in punto, con un diabolico stratagemma, s’intrufolò fin negli ambienti di clausura del convento francescano di San Sebastiano, riuscendo ad acciuffare il generale Caracciolo sorpreso nella sua cella con il saio e il rosario tra le mani, sotto le mentite spoglie di tal fra Mario Santelli. Ma ecco come descrive l’operazione lo stesso Koch nel suo diario:
«Dispongo di quattro uomini e con Ciulli e Castellani entro con uno stratagemma nel Reparto Clausura presso Mario Santelli alias Eccellenza Mario Caracciolo. La perquisizione è lunga e minuziosa. Si trovano enormi fascicoli di memorie, parte dattilografate, parte ancora di pugno dell’eccellenza. Il suo contegno è sgomento in un primo tempo e di stizza in un secondo. Egli tenta subito, carpendo la buona fede di Castellani, e mentre interrogavo il Priore, di togliersi la tonaca. Dichiaro allora ufficialmente al Priore che, qualora l’eccellenza fosse uscito senza la tonaca o la avesse tolta in altre occasioni avrei denunziato l’accaduto alla Santa Sede. Il Priore è terrorizzato dall’idea di tale scandalo ed accetta il mercato convincendo l’Eccellenza. Con ciò sono riuscito a creare il Casus che a suo tempo il governo repubblicano presenterà al Vaticano. Alle ore una circa siamo presso il capitano Schutze che si complimenta caldamente e mi porge il suo elogio. Alle 3 siamo in albergo. Si stabiliscono dei turni di sorveglianza. Anche qui – conclude – l’Eccellenza tenta di spogliarsi. Con dolce ma ferma violenza gli viene proibito».
Lo scopo era proprio quello di trovare un pretesto per smascherare l’attività clandestina che svolgevano tanti religiosi su indicazione della S. Sede, divertendosi a mostrarlo in giro con la tonaca francescana. Dopo essere stato doverosamente schedato dalle SS, Koch lo condusse con sé a Firenze presso Villa Triste, in via Bolognese 67, sede della Banda Carità e successivamente lo affidò nelle mani delle SS che lo rinchiusero dapprima nell’ex convento dei Carmelitani scalzi a Verona, trasformato in prigione dopo l’incameramento napoleonico dei beni ecclesiastici, poi in quelle di Venezia e infine nel penitenziario di Brescia, dove fu processato e condannato alla pena capitale dal Tribunale speciale fascista, sulla base del suo memoriale che aveva stilato proprio durante il suo periodo di clandestinità, rinvenuto nel corso della perquisizione del suo rifugio dalla banda Koch. Questa pena, tuttavia, fu poi commutata in 15 anni di carcere perché era mutilato di guerra e, in seguito, grazie agli assidui contatti del generale Caracciolo con gli esponenti della Resistenza, tramite reclusi politici e cappellani delle carceri, il 25 aprile del 1945 riacquistò la libertà grazie al provvidenziale intervento dei partigiani.
L’arresto del generale Caracciolo, come era prevedibile, ebbe grande eco sulla stampa, soprattutto di matrice fascista, che non si lasciò sfuggire la ghitta occasione per sbeffeggiare il sedicente fra Mario Santelli e persino la Santa Sede rea di occultare questi personaggi invisi al regime all’interno di strutture ecclesiastiche, tant’è che La Stampa di Torino così scriveva in un circostanziato articolo pubblicato sulla prima pagina del 5 gennaio 1944:
«È stato arrestato, come è noto, il generale d’Armata Caracciolo di Feroleto. Egli, dopo la capitolazione, trovò asilo nel convento dei Frati Francescani a Roma e prese il nome di padre Francesco Mario Salpelli [Santelli, rectius]. Scovato da Camicie Nere della legione di Firenze, è stato deferito al Tribunale Speciale per la difesa dello Stato. Il gen. Caracciolo dovrà rendere conto di quanto ha fatto della sua Annata che, secondo le sue stesse ammissioni scritte, contava al 15 luglio 1943 ben 500 mila uomini inquadrati in trenta divisioni, disponeva di 1500 cannoni, di migliaia di mitragliatrici e armi portatili. Due mesi dopo, sempre secondo le dichiarazioni del gen. Caracciolo, nulla restava di questa poderosa Armata, all’infuori del comandante e del suo attendente».
In realtà fu proprio grazie a questa brillante operazione a segnare il destino di Pietro Koch tant’è che, nel gennaio del 1944, ricevette l’autorizzazione dal capo della Polizia della RSI, Tullio Tamburini, di costituire, con l’aiuto del fedele avvocato folignese Augusto Trinca Armati, il cosiddetto “Reparto speciale di Polizia della Questura di Roma”, che in seguito assumerà la denominazione di “Reparto speciale di Polizia del Lazio” alle dirette dipendenze della R.S.I., composto da circa una settantina di persone, che stabilì il proprio quartier generale dapprima presso la pensione Oltremare, situata in via principe Amedeo 2 e, successivamente, dal 21 aprile 1944, nel signorile palazzo della pensione Jaccarino, in via Romagna 38. A spianare la strada all’imperversare della banda di Pietro Koch contribuì certamente anche la nomina “con pieni e assoluti poteri”, il 3 febbraio del 1944, a reggere le sorti della Questura di Roma dell’ineffabile Pietro Caruso che, avvalendosi di questa carica, diede il suo pieno appoggio ai rastrellamenti organizzati dalla Banda Koch, allo scopo di acciuffare gli antifascisti rifugiati nelle varie case religiose, in palese violazione del diritto di extraterritorialità. Difatti, come ricorderà lo stesso Koch nel suo diario fu subito «messo alle sue dipendenze con il duplice incarico di reggente l’Ispettorato generale del Lazio e di dirigente del Reparto tecnico di polizia politica di Roma».
© Giovanni Preziosi, 2022
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