L’ingegnoso escamotage di sr. Augustine Badetti per nascondere gli ebrei romani dopo il rastrellamento di Roma ad opera dei nazisti.
L’ingegnoso escamotage di sr. Augustine Badetti per nascondere gli ebrei romani dopo il rastrellamento di Roma ad opera dei nazisti.
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Qualche giorno fa, mentre mi accingevo a scrivere questo articolo, soprattutto alla luce delle sconvolgenti notizie provenienti dal Medio oriente, ho ripensato a quando, alcuni anni or sono, passeggiando lungo gli argini del Tevere, proprio in prossimità della Sinagoga, all’improvviso mi sono fermato per cercare di far scorrere nella mia mente – ammesso che ciò sia possibile – le scene di quel dramma davvero indescrivibile che fu il rastrellamento nel ghetto ebraico perpetrato dai nazisti il 16 ottobre di ottant’anni fa. Mentre camminavo, di soppiatto, il mio sguardo si è posato su quella strada e, improvvisamente ho sentito un brivido lungo la schiena. È come se, tutto d’un tratto, mi sembrava di percepire quelle grida di terrore che supplicavano i loro aguzzini di lasciarli andare. È come se un concerto di voci lacrimevoli s’innalzava al cielo in una preghiera sofferta. Non nascondo che ad un certo punto mi son chiesto, sgomento, cosa avrei fatto se mi fossi trovato anch’io tra quelle persone. Chissà, forse, lì per lì anch’io, in preda al panico, sarei scappato a gambe levate sotto l’incedere impetuoso dei cingolati tedeschi che irrompevano nelle strade circostanti. Oppure, come del resto hanno fatto tante altre persone semplici, mi sarei dato da fare per soccorrere tanti uomini, donne e bambini colpevoli soltanto di appartenere ad una religione e ad un popolo diversa da quello “ariano”.
A volte le storie che non riusciamo a raccontare sono proprio le nostre, ma se una storia non viene raccontata diventa qualcos’altro, una storia dimenticata. Quando una storia viene raccontata, non può essere dimenticata, diventa qualcos’altro. Il ricordo di chi eravamo, la speranza di ciò che possiamo diventare…
perché le parole non dette diventano ricordi sbiaditi dal tempo e destinati inesorabilmente all’oblio. Con queste toccanti parole inizia il film “La chiave di Sara”, tratto dall’omonimo romanzo di Tatiana De Rosnay, che rievoca il dramma vissuto dagli ebrei francesi nel luglio del 1942 sotto il regime collaborazionista di Vichy.
E allora proviamoci a raccontare questa struggente storia attraverso questo articolo pubblicato il 18 ottobre 2014 nelle pagine culturali de “L’Osservatore Romano” grazie ai documenti ed ai suggestivi ricordi di coloro che quel sabato di ottanta anni fa hanno vissuto sulla propria pelle l’oltraggio subito da quanti furono inopinatamente strappati dai loro affetti familiari e deportati negli orribili campi di sterminio nazisti dai quali, purtroppo, quasi tutti non fecero più ritorno.
Dopo aver subito il vile ricatto della consegna dei cinquanta chilogrammi d’oro imposta alla comunità ebraica romana dal comandante della Gestapo Herbert Kappler, in cambio della loro salvezza, il 16 ottobre 1943, alle prime luci dell’alba, un reparto speciale delle SS agli ordini del capitano Theodor Dannecker, iniziò una spietata caccia all’ebreo per tutti i quartieri della capitale rastrellando dalle loro case ben 1.259 persone tra uomini, donne e bambini. Per fortuna alcuni di loro, come la famiglia di Angelo Alatri ed Ester Ottolenghi, grazie all’imbeccata ricevuta da un loro amico, con le loro figlie Emma e Lea, riuscirono a salvarsi rifugiandosi dapprima, nell’appartamento dell’avvocato Rey in via dell’Arco de’ Ginnasi e poi, il 24 ottobre, insieme ad altri correligionari, presso il convento delle Suore di Notre-Dame de Sion, che ancora oggi sorge al civico 28 di via Garibaldi.
La madre superiora sr. Augustine (al secolo Virginie Badetti) e la sua assistente sr. Maria Agnesa (alias Emilia Benedetti), dopo la razzia nazista, col beneplacito del Vicariato subito avevano spalancato le porte della loro casa a ben 187 ebrei alla disperata ricerca di un rifugio per sfuggire alla deportazione.
Madre Augustine nacque a Istanbul il 29 maggio 1881. Dopo aver emesso i primi voti nel 1926, visse per la maggior parte del tempo nell’attuale provincia mediterranea: Turchia, Egitto, Tunisia. Nel 1942 fu inviata a Roma per diventare superiora della casa, sostituendo Madre Mariella, che era stata chiamata a Saint-Omer per seguire Madre Dora quando quest’ultima partì per Anversa.
Madre Augustine era disposta ad accoglierli in convento. Bisognava fare spazio per accogliere così tante persone e bisognava spostare alcuni mobili ingombranti. Per fortuna, il primo giorno, la maggior parte delle persone aveva portato qualcosa da mangiare. A causa della calorosa accoglienza che era stata loro riservata, le donne chiesero a Madre Augustine il permesso di far venire i loro mariti. La religiosa accettò, non senza prima chiedere il permesso al Vicariato. La sala da pranzo fu così ben presto trasformata in una stanza per dormire. L’intero spazio, anche il più piccolo, era occupato: lo spazio sotto le scale ospitava una famiglia di sette persone. Ma intere famiglie sono state accolte in questo modo, il che ha permesso loro di non essere separate. Gli ultimi ad arrivare trovarono riparo nella serra. Nella casa del portiere, invece, fu installato un campanello che fungeva da segnale d’allarme all’occorrenza: quando veniva suonato tre volte, tutti dovevano nascondersi rapidamente.
In un batter d’occhio fu allestita una grande camerata e, finanche le suore misero a disposizione le loro brande per donare un po’ di sollievo a tutta quella povera gente prostrata dal dolore.
Al di sotto dello scalone dell’ala sud, si erano sistemati i Ditava con nonna, figli e nipoti; la serra, invece, era divenuta il rifugio degli ultimi arrivati, mentre nel villino accanto, nell’ex casa del giardiniere, avevano trovato ospitalità le famiglie Panzieri e Fiorentini. In un altro angolo del convento alloggiavano Renata, Leone ed Elio Di Cori, Pietro Gay, il figlio dell’ex rabbino di Genova Ferruccio Sonnino e Roberto Modigliani insieme a sua madre Giuditta Tagliacozzo e sua zia Emma Ascarelli. Tra questi rifugiati spiccavano anche due profughi ebrei di Zagabria Ruth Musafia e suo zio Sasha Konforty, senza contare la signora Emilia Benelli, madre della celebre attrice cinematografica Evi Maltagliati. Dopo qualche giorno, «appreso che le loro famiglie si trovavano a Sion», ecco presentarsi improvvisamente altri tre ebrei travestiti da domenicani. Per garantire l’incolumità dei loro ospiti le religiose avevano persino escogitato un sottile sotterfugio, collocando nei pressi della cucina un grande armadio a muro all’interno del quale avevano inserito una porticina, cosicché ogni qualvolta scattava l’allarme, tutti i rifugiati si precipitavano in quel luogo e, attraverso quella botola, s’intrufolavano nella stanza accanto dove attendevano in rigoroso silenzio che la situazione volgesse al meglio. Il pericolo, infatti, era sempre in agguato anche perché, proprio in quel periodo, la Superiora ricevette alcune lettere anonime che le consigliavano di non ospitare altri ebrei, perché altrimenti la vendetta dei nazisti non si sarebbe fatta attendere. Un sacerdote, inoltre, le aveva riferito persino che, in seguito a qualche spregevole delazione, la casa di Notre-Dame de Sion era stata inclusa dalla Gestapo nella lista degli enti ecclesiastici che da un momento all’altro sarebbero stati perquisiti. Il sinistro presagio, puntualmente si materializzò il 1° giugno 1944, allorché una pattuglia di SS, cercò di fare irruzione nel convento per scovare gli ebrei segnalati.
Così dicendo, mostrò al comandante tedesco il documento di extraterritorialità rilasciato dal Vaticano che sr. M. Agnesa aveva ottenuto dalla Segreteria di Stato grazie a mons. Francesco Bellando. Nel frattempo il portiere aveva immediatamente provveduto a far scattare l’allarme, consentendo ai rifugiati di raggiungere il nascondiglio. Fiutando il pericolo, tre ebrei “più timorosi degli altri”, avevano pensato bene di intrufolarsi nella vicina Villa Spada che, per loro sventura, poco dopo fu circondata dai tedeschi i quali, in un batter d’occhio, li acciuffarono. Tuttavia, grazie ai documenti falsi di cui era in possesso l’anziano rabbino polacco riuscì a svignarsela, mentre gli altri due ebrei, Cava e Di Veroli, furono condotti in prigione dove, per fortuna, ci rimasero soltanto poche ore. Il 4 giugno, infatti, le truppe alleate facevano il loro ingresso trionfale nella capitale ormai liberata dal dominio nazista.
© Giovanni Preziosi, 2023
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