Il 10 febbraio di settantasei anni fa, dopo essere stato arrestato dalla Gestapo nel suo appartamento di via Pomerio, si spegneva ad appena 35 anni nel campo di concentramento di Dachau l’ex questore reggente di Fiume Giovanni Palatucci. Il 26 febbraio 1944, un civile e un agente delle SS si erano presentati presso la sua abitazione in via Pomerio al civico 29 per chiedere informazioni alla proprietaria dell’appartamento in cui Palatucci viveva in affitto, la signora Adolfina Malner, su questa misteriosa radio Marelli che l’ebrea Rosina Elena Weisz gli aveva affidato prima della sua partenza da Fiume. In quel clima arroventato da veleni e sospetti, il giovane poliziotto irpino era osservato con sospetto sia dai nazisti che dai fascisti più ortodossi per cui non è da escludere che questa “visita” improvvisa mirava a verificare se c’era qualcosa di più compromettente per poterlo incastrare. Ecco uno stralcio di un capitolo contenuto nella Seconda Edizione di imminente pubblicazione “La rete segreta di Palatucci. Fatti, retroscena, testimonianze e documenti inediti che smentiscono l’accusa di collaborazionismo con i nazisti”.
Il 10 febbraio di settantanove anni fa – anche se in realtà la data ufficiale è il 9 febbraio –, dopo essere stato arrestato dalla Gestapo nel suo appartamento di via Pomerio, si spegneva ad appena 35 anni nel campo di concentramento di Dachau l’ex questore reggente di Fiume Giovanni Palatucci. Si sarebbe potuto salvare se solo avesse ceduto alle forti pressioni esercitate nei suoi confronti da alcuni amici, ma non lo fece perché, come scriveva egli stesso ai genitori l’8 ottobre 1941 aveva ancora la «possibilità di fare un po’ di bene», rappresentando, evidentemente, in quel momento l’unica ancora di salvezza per tanti perseguitati.
Proprio per questi motivi, fin da quando svolgeva le funzioni dapprima di responsabile dell’Ufficio Stranieri e poi – dal 5 aprile 1944 – di reggente della Questura fiumana, il giovane poliziotto irpino era osservato con sospetto sia dai nazisti che dai fascisti più ortodossi. Lo testimonia il fatto che, pochi mesi prima del suo arresto, per la precisione il 26 febbraio 1944, all’improvviso Palatucci vide presentarsi nel suo ufficio un sottoufficiale della polizia tedesca e un interprete di sua fiducia con un ordine di citazione per il giorno successivo presso il comando di polizia di Sušak, allo scopo di accertare per quale motivo aveva preso in consegna la radio di una donna ebrea che rispondeva al nome di tal Rosina Elena Weisz, originaria di Tapolca, una città dell’Ungheria nord-occidentale, dove era nata il 30 giugno 1918. Dal suo fascicolo personale custodito nell’Archivio di Stato di Fiume risulta che era «cittadina italiana per matrimonio» e viveva a Fiume in via Mario Asso al civico 4 fin dal 30 giugno 1938 col marito Adalberto Ermolli[1], che aveva sposato proprio in quello stesso anno a Tapolca.
Evidentemente, proprio in quel periodo, il legame di amicizia con il giovane funzionario dell’Ufficio Stranieri si era talmente consolidato al punto che, proprio mentre i coniugi Ermolli si apprestavano a lasciare Fiume per recarsi nei luoghi d’internamento a cui Adalberto era stato destinato, il 10 marzo 1941, Palatucci aveva deciso di prendere in custodia il loro apparecchio radio Marelli, che poi sarà puntualmente restituito ai legittimi proprietari quando entrambi fecero di nuovo ritorno brevemente nella città quarnerina. Il 21 luglio 1943, infatti, come si legge nel verbale di riconsegna, la signora Weisz dichiarava alle autorità di P.S.:
La radio in questione, probabilmente, gli serviva per poter ascoltare clandestinamente i messaggi “speciali” diffusi da Radio Londra redatti dagli Alti comandi alleati destinati alle unità della resistenza italiana che, dall’entrata dell’Italia in guerra con apposito decreto-legge n. 765 del 16 giugno 1940, era diventato illegale[2].
Anche questo episodio, del resto, non fa altro che suffragare quanto abbiamo cercato di dimostrare nella Seconda Edizione data alle stampe nel maggio dello scorso anno del volume “La rete segreta di Palatucci. Fatti, retroscena, testimonianze e documenti inediti che smentiscono l’accusa di collaborazionismo con i nazisti”, ovverosia l’esistenza di un legame piuttosto confidenziale con determinate persone che, in seguito all’introduzione delle leggi razziali e dell’entrata in guerra dell’Italia fascista al fianco dell’alleato teutonico – inopinatamente, da un giorno all’altro, erano diventati degli autentici “nemici” e, di conseguenza, selvaggiamente braccati dai nazifascisti. Ben sapendo il pericolo al quale erano esposti, Palatucci si adoperò, per quanto gli era possibile, di procurare loro documenti e rifugi adeguati, lontano da occhi indiscreti, in grado di garantire una certa sicurezza.
Proprio per questo motivo, con il pregevole ausilio di alcuni amici e colleghi di provata fedeltà, aveva messo in piedi una sofisticata rete segreta per il loro trasferimento in alcune zone dove poteva contare sull’aiuto di amici e conoscenti. Difatti, quella stessa mattina, solo un paio di ore prima, approfittando della sua assenza, un civile e un agente delle SS si erano presentati presso la sua abitazione in via Pomerio al civico 29 per chiedere informazioni su questa radio alla proprietaria dell’appartamento in cui Palatucci viveva in affitto, la signora Adolfina Malner e, non è da escludere, dare un’occhiata per verificare se c’era qualcosa di più compromettente per poterlo incastrare definitivamente. In questa circostanza Palatucci si era difeso affermando che l’apparecchio, al momento non funzionante, gli era stato regalato tempo addietro dalla madre.
Del resto, che questo modus operandi adoperato dai tedeschi nei confronti di un dirigente della polizia italiana fosse quanto meno discutibile ed irriverente, lo testimonia la lettera di protesta che il reggente della Questura di Fiume, dottor Roberto Tommaselli, fece pervenire qualche giorno dopo, il 29 febbraio, al consigliere germanico per la provincia del Carnaro Karl Pachnek e, per conoscenza, al prefetto di Fiume Alessandro Spalatin, esprimendosi in questi termini:
Come gli eventi successivi s’incaricheranno di dimostrare fu anche questo episodio che contribuì ad alimentare i sospetti di “connivenza col nemico” che già da un po’ le autorità tedesche avevano incominciato a nutrire nei confronti del responsabile dell’Ufficio Stranieri della Questura fiumana. Del resto, fin dal 21 dicembre 1942, Palatucci aveva talmente preso a cuore la vicenda dei coniugi Ermolli che, in una circostanziata lettera inviata allo ziovescovo di Campagna, così scriveva per sollecitare la loro richiesta:
Compulsando attentamente le fonti archivistiche in nostro possesso, infatti, si può concludere che la “signora Elena Weits” – rectius Rosina Elena Weisz – a cui allude uno dei più stretti collaboratori di Palatucci, il brigadiere Americo Cucciniello, in realtà sia proprio la consorte di Adalberto Ermolli. Proprio in virtù di questa interessante documentazione, nella seconda edizione del volume di imminente pubblicazione “La rete segreta di Palatucci. Fatti, retroscena, testimonianze e documenti inediti che smentiscono l’accusa di collaborazionismo con i nazisti”, siamo riusciti a riscostruire – con dovizia di particolari – il rocambolesco tragitto seguito dai coniugi Ermolli per sfuggire ai propri aguzzini con l’aiuto dello stesso Palatucci che, in seguito, dopo averli nascosti presso alcuni amici di sua fiducia di Ravenna, si adoperò per agevolarne la fuga oltre il confine elvetico con l’ausilio del suo fedele braccio destro Americo Cucciniello, del commissario Carmelo Mario Scarpa, allora in servizio presso la Questura di Bergamo, e dell’audace francescano P. Enrico Zucca.
Difatti, come riferisce nella sua testimonianza Americo Cucciniello, proprio in quel periodo aveva ricevuto l’incarico di recarsi a Ravenna per prelevare Rosina Elena Weisz e suo marito Adalberto Ermolli e condurli in luoghi più sicuri. Difatti, come ha dichiarato in anni recenti il brigadiere Cucciniello, proprio su espressa richiesta di Palatucci
Appena giunse nel capoluogo bergamasco, con estrema circospezione, Cucciniello affidò il marito, ovvero Adalberto Ermolli, all’intraprendente funzionario di P.S. dott. Carmelo Mario Scarpa che, come concordato in precedenza con Palatucci, grazie all’ausilio di alcune persone di sua fiducia tra cui il frate francescano Milanese Enrico Zucca, si preoccupò di metterlo al sicuro al di là della frontiera elvetica. Rosina Elena Weisz, invece, fu sistemata presso alcuni amici di Torino dove rimase fino al termine della guerra.
Stando a quanto scrive il commissario Scarpa, i primi contatti che Palatucci allacciò con lui risalirebbero con precisione all’inverno del 1944 (presumibilmente tra gennaio e febbraio) allorché, appena ricevuto l’oneroso incarico dall’amico di Fiume, subito si attivò per portare a termine nel migliore dei modi la delicata missione che gli era stata affidata rivolgendosi ad un audace frate francescano, tale padre Enrico Zucca, che conosceva fin dal lontano 1938. In quel tempo, infatti, dirigendo l’Ufficio competente della Questura di Milano, aveva avuto modo di apprezzare le sue doti «di patrono di perseguitati razziali» per sottrarli dalle grinfie dei loro feroci aguzzini.
Qualche rigo più avanti il commissario Scarpa aggiunge anche altri particolari che, proprio alla luce del vespaio di polemiche sollevato qualche anno fa, assumono un significato ancora più suggestivo. Ma lasciamo, dunque, la parola al protagonista che scrive, riferendosi ai due ebrei provenienti dalla città quarnerina:
L’audace frate francescano, infatti, tra gli anni ’30 e ’40 aveva iniziato a tessere una fitta rete coinvolgendo finanche le famiglie più influenti e facoltose dell’aristocrazia e dell’imprenditoria milanese per contribuire a trarre in salvo numerose persone, anche di religione ebraica, che correvano il rischio di essere acciuffate dai loro aguzzini e deportate negli orribili lager allestiti dai nazisti.
Al termine della guerra Adalberto Eichenbaum – questo il suo cognome originario che poi era stato italianizzato in Ermolli – dopo aver ottenuto l’annullamento del precedente matrimonio con Rosina Elena Weisz (che si unirà con un signore di Torino), il 27 luglio 1949, sposerà a Monza in seconde nozze Amalia Ada Hocke, con la quale il 3 gennaio 1975 si trasferirà definitivamente a Roma.
NOTE
[1] Del resto, compulsando attentamente le fonti archivistiche in nostro possesso, abbiamo appurato che Adalberto Eichenbaum – italianizzato in Ermolli con decreto emesso dalla Prefettura di Fiume l’11 dicembre 1933 – figlio di Samuele e di Regina Löwenbein[1], era nato il 27 maggio 1900 a Lednice, un comune che all’epoca apparteneva alla Cecoslovacchia facente parte del distretto di Břeclav, in Moravia Meridionale adagiata sul fiume Dyje al confine con l’Austria[1]. Si era stabilito a Fiume, con i propri genitori.
[2] Dai documenti conservati sia nei National Archives londinesi che in quelli americani di Washington risulta, infatti, che gli inglesi erano a conoscenza del moto autonomista presente a Fiume.
[3] F.G.P.M., cit.,Lettera di Giovanni Palatucci allo zio mons. Giuseppe M. Palatucci, 21 dicembre 1942. In precedenza, per la precisione il 21 aprile 1942, presentò un’istanza «con cui, invocando le sue precarie condizioni di salute, chiede[va] il trasferimento in un comune da cui proviene di Padova, Vicenza, Verona». Naturalmente, anche questa richiesta fu appoggiata dal commissario Palatucci che aggiungeva: «In considerazione del suo stato di salute, [che] in effetti, è quello risultante dall’allegato certificato medico, pare opportuno che, fermo restando il divieto di far ritorno in questa provincia, sia destinato a località più salubre, comunque meglio conforme alle sue condizioni di salute. Nel richiamare la Prefettizia del 0124917 del 16-9 u.s., si comunica che nulla osta da parte di questo Ufficio all’accoglimento dell’istanza» (HR-DARI-53, R. Questura di Fiume, Ufficio Gabinetto (A1), Fascicolo personale di Adalberto Ermolli, Nota dell’Ufficio Stranieri della Questura di Fiume al Ministero dell’Interno e.p.c. alla R. Prefettura di Teramo, 21 aprile 1942).
[4] F.G.P.M., Testimonianza di Americo Cucciniello, Brescia, 13 novembre 1998 citata in M. Bianco – A. De Simone Palatucci, Giovanni Palatucci un giusto e un martire cristiano, op. cit., pag. 499.
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