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Partito Popolare, Azione Cattolica, Santa Sede e l’emergenza del fascismo

Relazione tenuta nel corso del Convegno di studio promosso dall’Anppia in collaborazione con l’Istituto romano per la storia d’Italia dal fascismo alla Resistenza in occasione del Centenario della marcia su Roma.

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Venerdì 21 ottobre, si è tenuto a Roma, presso la sede della Città Metropolitana di Roma Capitale, in via IV novembre 119/a, il convegno di studi sul tema:

“A CENTO ANNI DALLA MARCIA SU ROMA. UNA RIFLESSIONE STORICA E CIVILE”.

Questo evento è stato promosso dall’Associazione Nazionale Perseguitati Politici Italiani Antifascisti, in collaborazione con l’Istituto romano per la storia d’Italia dal fascismo alla Resistenza per ricordare a cento anni di  distanza questo  evento, come atto di nascita di un  regime dittatoriale che, sin dal suo esordio, e prima ancora con lo squadrismo, si caratterizzò per l’uso della violenza, della persecuzione, dell’intolleranza verso chi manifestava idee diverse, assume un significato particolare.

L’incontro patrocinato dalla Città Metropolitana di Roma Capitale e dal Forum delle Associazioni antifasciste e della Resistenza, ha inteso stimolare una riflessione sull’avvento al potere del fascismo in Italia, con particolare riferimento al rapporto tra Stato e società e al complesso di fattori e di soggetti politici e sociali che interagirono nel periodo compreso tra la “grande guerra” e la crisi finale dello Stato liberale.


Partito Popolare, Azione Cattolica, Santa Sede e l’emergenza del fascismo

Relazione del Prof. Carlo Felice Casula

Prima d’iniziare il mio intervento, essendo questa sala intitolata a don Luigi Di Liegro, del quale ricorre, quest’anno, il 25° della sua scomparsa, è doveroso per me che ho avuto il dono di conoscerlo e amarlo, ricordare, soprattutto per i numerosi studenti presenti, la sua esemplare figura di sacerdote. Don Luigi Di Liegro ha speso tutta la sua vita per la difesa rigorosa dei diritti e della dignità degli ultimi, dai senza casa, agli immigrati, ai malati di aids, suscitando e mettendo a frutto la collaborazione fattiva di tanti volontari e pungolando con coraggio le istituzioni ecclesiastiche e civili, attenendosi sempre al principio riassunto emblematicamente nel suo slogan: meno carità e più giustizia.

Avvio il mio intervento con una lunga citazione di un denso articolo di padre Giovanni Sale, A cento anni dalla Marcia su Roma, pubblicato sull’ultimo numero della rivista dei Gesuiti, La Civiltà Cattolica

Si legge nel paragrafo Il fascismo e la Santa Sede:

«Quale atteggiamento assunse la Santa Sede, e in particolare il neoeletto pontefice Pio XI, nei confronti del nuovo governo fascista? Possiamo affermare che essa, pur non assolvendo il fascismo per le violenze commesse, cercò di dare fiducia a Mussolini, nella speranza che riuscisse a “cristianizzare” il partito che si credeva dominato dalla massoneria e, partendo dalla sua posizione di forza, riuscisse a dare uno sbocco soddisfacente alla “Questione Romana”.

La Chiesa insomma si aspettava da Mussolini una politica nuova nei confronti della Santa Sede. Inoltre, Pio XI non riconobbe più al Partito popolare italiano, che avrebbe lasciato il governo nell’aprile del 1923, come protesta contro la Legge Acerbo “la delega” a rappresentare in sede politica gli “interessi cattolici”.

Il partito, dal canto suo, si definiva aconfessionale e, quindi, autonomo nell’azione  politica, dalle direttive della gerarchia cattolica, preferendo che le questioni più propriamente ecclesiastiche fossero trattate direttamente dalla Santa Sede con i vertici dello Stato.

Pio XI, pur non sconfessando apertamente il Ppi, permise ai cattolici, come cittadini, di “fiancheggiare” anche con altre formazioni politiche, il nuovo regime dal quale si aspettava sostanziali concessioni in ambito religioso. Come sappiamo, più che i singoli partiti politici Pio XI sostenne e incoraggiò con tutti i mezzi l’Azione Cattolica, la quale aveva il compito di formare e disciplinare il laicato cattolico, inquadrandolo compattamente sotto la vigilanza e la direzione della gerarchia. Questo “esercito” del Papa poteva essere utilizzato all’occorrenza anche come mezzo di pressione politica per indurre il regime a prendere in considerazione le richieste della Santa Sede in materia religiosa.

La Chiesa, che fin dall’inizio aveva condannato – attraverso i suoi organi ufficiali o ufficiosi di stampa – le dottrine professate dal movimento – poi partito – fascista, nonché la pratica della violenza da questo utilizzata come mezzo di lotta politica, in quell’occasione tacque, aspettando prudentemente l’evolversi degli eventi. Sappiamo però che prima della Marcia su Roma ebbe assicurazioni che un governo fascista non avrebbe toccato la religione, ma che anzi l’avrebbe sostenuta».

(Giovanni Sale S. J. , A cent’anni dalla marcia su Roma (La Civiltà Cattolica,  quaderno 4135, 1-15 ottobre 2022, pp. 19-21.

Rinviando alla documentata ricostruzione di Alberto Guasco,  Cattolici e fascisti La Santa Sede e la politica italiana all’alba del regime (1919-1925) (Il Mulino, Bologna 2012), cito una relazione della Segreteria di Stato – interloquendo con gli studenti, ricordo che la Segreteria di Stato è l’organo di governo della Santa Sede –

Il Vaticano vuole sapere quali siano gli intendimenti dei fascisti verso la Chiesa. La risposta è pienamente tranquillizzante: il rispetto più assoluto. È sulla base di queste generiche assicurazioni (date certamente da Mussolini) che vanno comprese le rassicuranti parole dette, pochi giorni dopo la formazione del nuovo governo, dal cardinale Gasparri, segretario di Stato, a un giornalista francese sulla situazione politica nazionale: “questo movimento [il fascismo] è diventato una necessità. L’Italia andava all’anarchia e il re ha saggiamente agito, perché comandare ai soldati di sparare era ugualmente dannoso.  Infatti, spiegava il cardinale se i soldati avessero obbedito a un eventuale ordine di aprire il fuoco contro gli insorti, sarebbe stata la guerra civile. Se invece non avessero obbedito all’ordine, per lo Stato sarebbe stato ugualmente grave.

E pochi giorni dopo l’ascesa al potere di Mussolini, il segretario di Stato, parlando del nuovo capo dell’esecutivo, così si espresse in una conversazione con l’ambasciatore del Belgio presso la Santa Sede:

Mussolini ha mandato a dire di essere un buon cattolico e che la Santa Sede non ha nulla da temere da lui. Per cominciare gli ha chiesto la presenza di tutti i suoi colleghi del governo e quella del medesimo re alla messa celebrata il 4 novembre a Santa Maria degli Angeli per l’anima dei soldati morti in battaglia. Davanti al monumento del Milite Ignoto,  continuava, Mussolini è rimasto un intero minuto in preghiera: tempo che sarà sembrato infinito a molti liberi pensatori presenti ma tutti hanno spiegato le ginocchia.​  Il cardinal Gasparri terminava affermando. “diamogli ancora qualche mese di tempo prima di esprimere un giudizio sul colpo di stato rivoluzionario che gli ha magistralmente messo a punto. Ciò che noi sappiamo di lui è che è un grande organizzatore  – il fascismo ne è la prova – e un carattere forte.​

Lo sbocco della crisi – durante la quale, come ha scritto  Artuto Carlo Jemolo, nel suo magistrale libro, Chiesa e Stato in Italia, «la gerarchia ecclesiastica restò assente e col cuore in sospeso», giungeva in contemporanea a una seconda Lettera apostolica che Pio XI, dopo quella di agosto, scelse di indirizzare ai vescovi d’Italia con un appello alla «pacificazione degli animi» tornava a invocare la pace, e insieme a essa il «tanto desiderato ordine sociale».  Commentando l’intervento del papa, su L’Osservatore Romano del 31 ottobre il direttore Giuseppe Dalla Torre scriveva che al suo appello erano sembrati corrispondere «i propositi dei supremi poteri», che avevano impedito il degenerare della situazione politica «in sanguinosi conflitti fratricidi», richiamato «al rispetto di tutti i diritti civici, gli autori di deplorate violenze» e avviato la «collaborazione governativa» tra «uomini d’ogni parte».

Giorgio Campanini a proposito dei rapporti tra Chiesa e fascismo ha definito il periodo 1919-1922 come gli “anni della diffidenza”, ai quali seguiranno quelli “dell’attenzione” (1922-1929), e quelli “del consenso” (1929-1936).

Il passaggio dalla diffidenza all’attenzione, corrisponde per molti aspetti anche all’inizio del nuovo pontificato di Pio XI che succede a Benedetto XV nel febbraio del 1922. Nonostante la continuità sia un’indubbia connotazione della storia del papato, le differenze tra Giacomo della Chiesa e Achille Ratti sono rilevanti. Il primo, appartenente a una nobile famiglia genovese di solide tradizioni risorgimentali, dopo la fine della Grande guerra da lui fortemente condannata come “inutile strage”, e per questo diventato inviso alle autorità italiane, aveva,  nelle prospettiva del superamento del pluridecennale conflitto Stato-Chiesa, visto con favore la partecipazione dei cattolici alla vita politica e la nascita del Partito popolare, scommettendo, in fondo sulla democrazia.

Pio XI, nel primo decennio del suo pontificato sottovaluta il progetto di eversione delle istituzioni democratiche del Fascismo e solo nella seconda metà degli anni Trenta gli ultimi comprenderà la sua natura totalitaria. Al momento ha un’indubbia capacità di seduzione l’esibito abbandono da parte di Mussolini delle pregiudiziali antireligiose e la prospettata possibilità di giungere a una riconciliazione tra Stato e Chiesa senza le impuntature dei liberali e le velleità dei popolari.

Al riguardo è emblematico il titolo di un recente libro di Valerio De Cesaris: Seduzione fascista. La Chiesa Cattolica e Mussolini 1919-1923 (Edizioni San Paolo 2020). 

Pesano indubbiamente l’indifferenza-diffidenza nei confronti del sistema politico liberale e la radicata paura per il socialismo percepito non più come il fantasma che si aggirava per l’Europa, agitando i sonni dei potenti e riempiendo il sogni dei diseredati, ma lo spettro del Bolscevismo, del socialismo che si era fatto Stato, che trovava adesione e seguito anche fuori dalla Russia sovietica.

Per di più una parte importante della curia ha indubbie simpatie per il Fascismo: basti pensare al cardinale Pietro Gasparri, il segretario di Stato, che sarà il firmerà per la santa Sede i Patti del Laterano, a mons. Giuseppe Pizzardo, Sostituto della Segreteria di Stato, che si occupa delle questioni italiane.  Mons. Francesco Borgoncini Duca, segretario degli Affari ecclesiastici straordinari (il Ministero degli Esteri della Santa Sede) interloquendo con il plenipotenziario inglese a ridosso della marcia su Roma, pur non avendo “cattivi presentimenti”, definiva la “rivoluzione fascista” come “totalmente incostituzionale”  e “usurpazione dell’attività dello Stato”, facendosi interprete di riserve e apprensioni pur presenti in Segreteria di Stato.

In Segreteria di Stato negli anni Venti lavorano anche mons. Giovanni Battista Montini e (Giovanni Sale S. J., A cent’anni dalla marcia su Roma (La Civiltà Cattolica,  quaderno 4135, 1-15 ottobre 2022, pp. 19-21.: sono ancora “minutanti”, ma destinati entrambi a un grande avvenire ecclesiastico. Sono anche nominati da Pio XI, nonostante la loro giovane età, assistenti ecclesiastici il primo della Federazione degli universitari cattolici, la Fuci, il secondo della Gioventù cattolica italiana, le due branche più autorevoli dell’Azione Cattolica, la prima elitaria, la seconda popolare.

Entrambi con stili diversi ma con convergente sensibilità, con la collaborazione di diversi intellettuali cattolici e, in particolare di don Giuseppe De Luca – nel dopoguerra sarà amico e interlocutore di Franco Rodano e Palmiro Togliatti –  portano avanti un lavoro d’intensa formazione religiosa e animazione culturale lontana dai linguaggi e dai modelli fascisti. Pietro Scoppola e Renato Moro al riguardo hanno coniato la categoria dell’afascismo.

Non a caso nel 1931 il primo conflitto tra Chiesa e Regime si ebbe proprio sulla questione dell’educazione dei giovani, per la quale il Fascismo voleva avere il monopolio e, nel secondo dopoguerra una parte della classe dirigente democristiana e non solo si era formata appunto con Tardini e Montini, a partire da Aldo Moro. Rinvio al riguardo al bel libro di Piero Pennacchini, La Santa Sede e il fascismo in conflitto per l’Azione cattolica (Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2012)

Sono sufficienti questi cenni  per constatare che è schematico e parziale lo schema interpretativo, contenuto già nel titolo, del brillante  e fortunato libro pamphlet di Ernesto Rossi, Il manganello e l’aspersorio, pubblicato bel 1958 da Parenti e di recente rieditato da Kaos con un’introduzione di Mimmo Franzinelli, che di recente ha curato il volume, L’insurrezione fascista. Storia e mito della marcia su Roma (Viella, 2021)

La Chiesa è però anche la realtà diffusa e capillare delle parrocchie e sopra di esse delle diocesi – oltre 300 negli anni Venti e, nonostante gli auspici del Concordato, il Fascismo non riuscirà a ridurle e a farle coincidere con le province. Per comprendere gli atteggiamenti e gli umori di queste articolazioni periferiche più che ai grandi quotidiani cattolici – sono ancora 21 nel 1926 e ne sopravvivono solo 5 negli anni Trenta – occorrerebbe prendere in esame  i giornali diocesani. Dipendenti dai vescovi ne riflettono le sensibilità e il timore, dopo il ‘22, di essere percepiti come ostili al governo e, ancor più, di essere nostalgici del Partito popolare, progressivamente inviso anche alla santa Sede. In linea di massima, quindi, non si esprime preclusione di fondo al passaggio della guida del governo al Partito fascista  liberato dalle sue connotazioni anticlericali e ricondotto alla normalità istituzionale. Precedentemente non era rara l’indulgenza nei confronti dei metodi violenti dei fascisti, presentati talvolta come reazione alle violenze dei socialisti.Non mancano le eccezioni: Ne cito una per personale orgoglio: L’Ortobene della mia diocesi di Nuoro, fondato da mons, Maurilio Fossati, noto per la sua avversione al Fascismo, aveva tra i suoi collaboratori esponenti antifascisti e si attenne sempre a una linea redazionale che minimizzava gli eventi promossi da regime in ambito nazionale e locale.

È doveroso ricordare, come ha documentato Giorgio Spini nel libro, Italia di Mussolini e protestanti (Claudiana 2007), nei nel periodo convulso che intercorre tra la Marcia su Roma e il delitto Matteotti, i giornali, La Luce dei Valdesi e i metodisti episcopali con L’Evangelista e i Battisti con Il Testimonio, espressero con coraggio critiche nei confronti del Fascismo, anche se, dopo il 1924, queste si attenuarono fino quasi a scomparire.

Sul terreno politico, con la fondazione nel 1919, a seguito dell’Appello ai liberi e forti di don Luigi Sturzo, il Partito popolale italiano riesce a coagulare e rappresentare le diverse precedenti esperienze, con una non semplice convivenza di due tendenze; un’ala destra e un’ala sinistra, come le chiamò lo stesso Mussolini. La destra conservatrice nel ’22 si schierò a favore di un’alleanza con il Partito fascista, mentre l’ala sinistra furono contrari. Mussolini in particolare collocò Sturzo in questa componente, accusandolo di essere antifascista e ritenendolo il maggiore ostacolo al conseguimento di un’intesa con la Chiesa e i mondo cattolico nel suo insieme, col proposito, pienamente raggiunto, con il suo esautoramento e forzato esilio, nell’ottobre del 1924, di togliere al Partito popolare il ruolo di portavoce delle istanze cattoliche e di referente privilegiato della santa Sede.

Tra i popolari contrari all’alleanza con i fascisti occorre ricordare Giuseppe Donati, uno dei più stretti collaboratori di Sturzo che nel 1922-23 dirige il quotidiano Il Popolo, cui impresse un netto carattere antifascista, don Giulio De Rossi, Igino Giordani, Francesco Luigi Ferrari e lo stesso segretario che successe a Sturzo, Alcide De Gasperi, che trovarono sostegno e rifugio in Vaticano, continuando a denunciare la natura anticristiana del Fascismo e, più velatamente, anche i cedimenti e le compromissioni della Chiesa. De Gasperi, tuttavia, assieme a Giovanni Gronchi e Filippo Meda nel novembre del ’22, quando si costituì il governo di coalizione formato da fascisti, demosociali e popolari, aveva votato la fiducia.

Un altro soggetto del mondo cattolico merita attenzione: la Confederazione italiana dei lavoratori, più nota con il suo acronico, CIL, la cui fondazione, nel marzo del 1918, precede di un anno quella del Partito popolare italiano di don Luigi Sturzo. La CIL, la Confederazione delle cooperative, fondata nel 1920, e l’Università cattolica, fondata nel 1921, costituiscono il punto d’arrivo di un pluridecennale, tormentato, percorso di affermazione dei cattolici nella vita sociale, politica e culturale italiana, anche se, con il consolidarsi del regime fascista, solo l’Università cattolica di padre Agostino Gemelli non subì un arresto, anzi si rafforzò, grazie anche alle sue non celate simpatie fasciste.

La CIL anche nel nome rivendica la sua identità di sindacato non confessionale, pur nel riferimento convinto alla dottrina sociale della Chiesa a partire dall’enciclica Rerum Novarum di Leone XIII. Si dichiara anche autonomo dai partiti, anche se ha un rapporto forte con il Partito popolare, del quale sono fondatori alcuni dei suoi massimi dirigenti, da Giovanni Battista Valente a Giovanni Gronchi a Achille Grandi.

Ricomponendo e coordinando le decennali esperienze sindacali delle unioni popolari e delle leghe bianche la nuova confederazione la CIL nel 1920 raggiunse 1.200.000 iscritti divisi per categorie. Gran parte degli iscritti sono lavoratori agricoli, dagli affittuari ai piccoli coltivatori. Così come nel Partito popolare all’interno della CIL convivono anime molto diverse, moderate, propense a declinare in chiave interclassista e corporativista il solidarismo cristiano, e quelle radicali e combattive, fino ai cosiddetti bolscevichi bianchi di Guido Miglioli, che, costretto anch’egli all’esilio e, poi al confino, divenne uno dei dirigenti del Krestintern, collocandosi Con Roma e con Mosca, come dal titolo di un suo libro autobiografico famoso.

Rigorosamente antifascista fu anche Achille Grandi, il terzo segretario della CIL, contrario a ogni compromesso con il Fascismo, che negli anni del regime, visse in povertà a Milano, contribuendo alla rinascita della Democrazia Cristiana e firmando a Roma liberata nel 1944, con Giuseppe Di Vittorio e Emilio Canevari il Patto di Roma che diede vita alla Cgil unitaria.

Di Achille Grandi occorre ricordare che declinò nel dicembre del 1945 la proposta di De Gasperi, neo presidente del Consiglio, di assumere la guida del ministero del Lavoro, come “tecnico”, mentre accettò con entusiasmo la carica di vicepresidente dell’Assemblea costituente, perché sembrò a lui e a Giuseppe Di Vittorio, che in questo modo si cominciava a dare riconoscimento e attuazione al principio, poi formalizzato solennemente nel testo costituzionale (“L’Italia è una repubblica fondata sul lavoro”), che la cittadinanza partecipata e solidale, nel nuovo stato democratico sociale trovava il suo fondamento non più nell’essere proprietario, ma nell’essere lavoratore e lavoratrice.

© Carlo Felice Casula, 2022

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