“Prima di addormentarmi mia madre mi faceva ripetere ogni sera il mio nuovo nome: Roberto Pistolesi”.
La storia della famiglia Piperno ospitata presso il Monastero delle Suore Bethlemite a Piazza Sabazio. «Mio padre – racconta il prof. Roberto Piperno –, anche per il suo lavoro di commerciante di tessuti, aveva avuto frequenti contatti con il Vaticano e inoltre l’amico che ci ospitava era un buon cattolico. Così fu possibile ottenere che una parte della famiglia – cioè le donne, mia madre, mia sorella di tre anni più grande di me, le due nonne ed io – fosse ospitata presso il Monastero delle Suore Bethlemite a Piazza Sabazio, non lontana dalla zona di Viale Regina Margherita, dove viveva la famiglia amica. Invece mio padre e mio nonno si trasferirono presso la Basilica di san Giovanni.».
Il 27 gennaio del 1945 le truppe sovietiche della Prima Armata del Fronte Ucraino agli ordini del maresciallo Ivàn Koniev, spalancano i cancelli del lager nazista di Auschwitz e davanti allo sguardo inorridito e sgomento dei militari sovietici, scorrono come in un film le immagini macabre dello sterminio del popolo ebraico, perpetrato dalla follia di un uomo, Adolf Hitler. Proprio in quella circostanza l’umanità ha preso consapevolezza fin dove la malvagità può giungere e le orribili nefandezze che un uomo è capace di commettere in spregio della vita altrui. Da quel giorno, dunque, il 27 gennaio di ogni anno, per non dimenticare, anche il Parlamento italiano – con la legge n. 211 del 20 luglio 2000 – ha deciso di istituire il “Giorno della Memoria”, in “ricordo dello sterminio e delle persecuzioni del popolo ebraico e dei deportati militari e politici italiani nei campi nazisti”.
Una riflessione più approfondita su quanto accaduto in quegli anni convulsi ci viene offerta attraverso il circostanziato racconto della vicenda che riguardò la sua famiglia dal prof. Roberto Piperno, ospitato presso il Monastero delle Suore Bethlemite a Piazza Sabazio.
Il 16 ottobre del 1943 è una data che non può passare inosservata perché rappresentò uno dei giorni più drammatici della nostra storia, segnato da un’onta d’infamia e di lutto, a causa del vile rastrellamento degli ebrei di Roma ad opera della brigata S.S. “Einsatzgruppen” agli ordini del capitano Theodor Dannecker, che seguì l’esatto copione sperimentato con successo a Parigi nel luglio del 1942 in occasione di quella che passò tristemente alla storia come la rafle du Vél d’hiv, allorché la polizia arrestò ben 13.152 ebrei.
In realtà la decisione di estendere anche all’Italia la “soluzione finale”, così come stabilito nel corso della Conferenza di Wannsee del gennaio 1942, era stata presa a Berlino già dal 24 settembre 1943, quando fu emanato l’ordine perentorio di «catturare e trasferire nel Nord Italia», mediante un’azione a sorpresa, tutti «gli 8.000 ebrei che viv[evano] a Roma» per essere “liquidati”. Il 6 ottobre 1943, scrive infatti il comandante dell’Aussenkommando Rom der Sicherheitspolizei und des SD a Roma Herbert Kappler al suo diretto superiore Karl Wolff:
«L’Ufficio Centrale per la Sicurezza del Reich ha mandato il capitano Dannecker per catturare tutti gli ebrei in un’azione lampo e spedirli in Germania. A causa dell’atteggiamento della città e di incerte condizioni, l’azione non può essere condotta a Napoli. I preparativi dell’ufficio per l’azione a Roma sono stati conclusi».
Dunque, come si evince da questo documento, nei piani accuratamente predisposti dai tedeschi il primo rastrellamento in grande stile doveva essere sferrato nel capoluogo partenopeo, ma ciò non fu possibile a “causa del clima ostile della città” e per il tempestivo ripiegamento delle truppe tedesche verso Nord ordinato dal colonnello Walter Schöll, che si rese indispensabile già a partire dal 30 settembre 1943 in seguito all’insurrezione della popolazione napoletana. Inoltre, l’11 ottobre successivo, i servizi segreti britannici intercettarono anche un messaggio radio criptato che il capo dell’Ufficio Centrale per la Sicurezza del Reich, Ernst Kaltenbrunner, aveva inviato a Kappler, per sollecitarlo a scatenare la spietata caccia agli ebrei.
«È precisamente esattamente l’immediata e completa eliminazione degli ebrei in Italia – sosteneva l’alto ufficiale nazista – che è nell’interesse dell’attuale situazione politica e, in generale, della sicurezza in Italia. Rinviare l’espulsione degli ebrei fino al completamento delle operazioni di disarmo dell’Arma dei carabinieri e dell’esercito italiano, è un’ipotesi che non può essere presa più in considerazione, così come quella di destinarli sotto la direzione delle autorità italiane. Più a lungo si ritarderà e più gli ebrei – che sono indubbiamente al corrente delle misure previste per la loro deportazione – hanno l’opportunità di trasferirsi nelle case degli italiani filoebraici e di scomparire completamente. L’Italia è stata istruita a eseguire gli ordini del comandante delle SS, ovvero a procedere con gli arresti degli ebrei senza ulteriori ritardi».
Gli Alleati, dunque, avrebbero potuto avvertire tempestivamente gli ebrei italiani del pericolo che incombeva su di loro, ma non lo fecero perché altrimenti avrebbero irrimediabilmente compromesso la sofisticata rete spionistica che avevano infiltrato all’interno dell’intelligence nazista. A quel punto, dunque, la sorte degli ebrei romani era ormai segnata. Difatti, intorno alle 5,30 del mattino di quel triste sabato del 1943 – mentre si accingevano a celebrare il terzo giorno della festa di Sukkot – 365 soldati tedeschi armati di tutto punto, al comando del capitano Theodor Dannecker, muniti di appositi elenchi con nomi e indirizzi delle famiglie ebree forniti dall’Ufficio Demografia e Razza del Ministero dell’Interno, coadiuvati anche da circa venti agenti di Pubblica Sicurezza della Questura di Roma e da alcuni interpreti scelti tra i carcerieri di via Tasso, circondarono il Portico d’Ottavia dando il via a quella scellerata operazione denominata Judenaktion, durante la quale i militari tedeschi fecero irruzione in ogni casa dove secondo i loro schedari abitavano gli ebrei, prelevando intere famiglie in gran parte sorprese ancora nel sonno con una tale protervia e disprezzo della dignità umana da far rabbrividire. Non ebbero alcun riguardo neanche per gli infermi, come Beniamino Philipson che soffriva del morbo di Parkinson, il quale fu prelevato dalla sua abitazione in via Flavia 84 e trascinato via senza alcun ritegno sulla sedia a rotelle. Nessun quartiere della città fu risparmiato: il maggior numero di arresti si registrò a Trastevere, Testaccio e Monteverde. Appena terminata questa operazione capillare, alle 14 in punto, questi 1.259 malcapitati finiti nelle grinfie dei nazisti – tra cui 363 uomini, 689 donne e perfino 207 bambini – furono immediatamente condotti verso il centro di raccolta nei pressi dei ruderi del teatro Marcello, prima di essere trasferiti nel Palazzo Salviati, sede del cosiddetto collegio militare in via della Lungara, dove rimasero per ben trentasei ore. Quindi, dopo un esame minuzioso delle carte d’identità e di altri documenti, il capitano Dannecker decise di rilasciarne 237, tra cui vi erano i coniugi e i figli di matrimoni misti, i coinquilini e il personale di servizio non ebrei che al momento del rastrellamento si trovavano nelle case dei ricercati i quali, non credendo ai loro occhi per ciò che stava accadendo, in un lampo fecero ritorno alle loro abitazioni. Alle prime luci dell’alba del 18 ottobre, in una livida giornata d’autunno, i 1.022 ebrei romani furono caricati su un convoglio ferroviario dato in consegna al macchinista Quirino Zazza che, verso le ore 14, lasciò Roma dalla Stazione Tiburtina diretto ad Auschwitz, dove giunse dopo ben sei giorni e sei notti di viaggio. Alla fine della guerra di tutte queste persone ne ritornarono, purtroppo, soltanto 16 tra cui: Sabatino Finzi, Leone Sabatello, Lello Di Segni, i fratelli Efrati e Settimia Spizzichino.
Qualcuno, tuttavia, durante la retata riuscì a salvarsi trovando rifugio nei vari istituti religiosi disseminati nei dintorni di S. Bartolomeo all’Isola Tiberina, mentre altri, come Roberto Piperno e la sua famiglia, grazie alla generosità dei loro vicini di casa non ebrei, furono ospitati provvisoriamente nelle loro abitazioni. Rievocando quei momenti così carichi di tensione, il prof. Piperno, attraverso il suo racconto, ci aiuta a comprendere meglio cosa significò per un bambino di appena cinque anni ritrovarsi all’improvviso nel bel mezzo della Shoah e vivere sulla propria pelle le nefandezze della persecuzione nazista.
«Il ricordo di quei nove mesi – esordisce il prof. Piperno –, è inciso stabilmente nel mio cuore e in parte nella mia memoria. A settembre del ‘43 io avevo già compiuto cinque anni: troppo piccolo per comprendere ciò che stava avvenendo nella Storia, ma già abbastanza grande per partecipare a quelle esperienze. Rientrati a Roma da Frascati dove ci eravamo nascosti in un casolare di mio zio, mio padre trovò accoglienza per tutta la famiglia (io, mia sorella, mia madre e mio padre) presso un amico, nella speranza che l’esercito alleato arrivasse a Roma presto. Ma a ottobre, prima la raccolta dell’oro da parte dei nazisti e poi la razzia del 16 ottobre, cambiò la prospettiva. Il 16 ottobre noi eravamo nascosti nell’abitazione degli amici di mio padre, i signori Clelia e Alberto Ragionieri (insigniti, in seguito, dell’onorificenza di “Giusti fra le Nazioni”) in Via Arno, ma i nonni (Angelo e Elena Disegni) erano nelle loro case, perché si pensava che i nazisti non erano interessati a prendere anziani che non erano in grado di lavorare. Fortunatamente il caso li salvò – cosa che non avvenne per un cugino di mia madre denunciato da un inquilino mentre scendeva le scale –: i nazisti non passarono alla casa un po’ più isolata dei miei nonni materni, mentre mia nonna paterna fu salvata da una coinquilina che vide entrare i soldati nazisti, comprese il rischio, con l’ascensore salì da mia nonna al IV piano e la nascose nel suo appartamento al II piano, mentre i soldati salivano le scale a piedi. Nell’appartamento dove viveva mia nonna trovarono la cognata, che era però l’unica cattolica della famiglia: i nazisti la portarono via al carcere di Regina Coeli, ma fortunatamente il Parroco di San Crisogono, di fronte alla casa dove abitava fu informato, si precipitò là e riuscì a convincere i carcerieri che zia Giulia era cattolica e non ebrea: così la riportò a casa e si salvò. La sera stessa, come ben ricordo, i tre nonni – i nonni materni Angelo e Elena Disegni e la nonna paterna Rachele Toscano Piperno – ci raggiunsero nella casa dove eravamo nascosti e così, la famiglia di quattro persone, che ci ospitava, si trovò ben sette persone da nascondere».
Tuttavia, visto che gli Alleati, dopo l’operazione Avalanche, che com’è noto scattò sulle coste salernitane nel settembre del 1943, non erano ancora riusciti a raggiungere la capitale, per non mettere in pericolo anche la famiglia che li ospitava, nel dicembre successivo fu escogitata un’altra soluzione.
«Mio padre – racconta, con dovizia di particolari, il prof. Piperno –, anche per il suo lavoro di commerciante di tessuti, aveva avuto frequenti contatti con il Vaticano e inoltre l’amico che ci ospitava era un buon cattolico. Così fu possibile ottenere che una parte della famiglia – cioè le donne, mia madre, mia sorella di tre anni più grande di me, le due nonne ed io – fosse ospitata presso il Monastero delle Suore Bethlemite a Piazza Sabazio, non lontana dalla zona di Viale Regina Margherita, dove viveva la famiglia amica. Invece mio padre e mio nonno si trasferirono presso la Basilica di san Giovanni. Poi fu deciso di ricongiungerci tutti a San Giovanni. Ma, proprio la stessa sera che noi arrivammo, si seppe che i nazisti erano entrati nella Basilica di San Paolo ed avevano portato via molte persone. Così dopo una notte insonne – continua nel suo appassionante racconto il prof. Piperno –, sempre vestiti per fuggire, mio padre e mio nonno rientrarono nella casa della famiglia amica e noi ritornammo presso le Suore Bethlemite, dove trascorremmo tutti i successivi mesi fino alla liberazione del 4 giugno del 1944, in uno scantinato presso il portone di accesso del Monastero, dove dormivo stretto con mia madre e mia sorella, mentre sull’altro lato del locale c’erano altre due brande per le due nonne».
Subito dopo il loro arrivo presso questo istituto religioso, Alberto Ragionieri, su sollecitazione della Madre Superiora, Suor Evelina Foligno, per celare la vera identità della famiglia Piperno e garantire loro un’adeguata sicurezza, riuscì a procurarsi dei documenti falsi sui quali fu impresso il nome di tal Pistolesi, grazie ai quali furono in grado di acquistare perfino gli alimenti di cui avevano bisogno, considerato il rigoroso razionamento in vigore all’epoca. Per maggiore precauzione, e contenere i rischi, anche involontari, l’unica persona che ufficialmente era al corrente della vera identità della famiglia Piperno era la Madre Superiora, mentre per quasi tutte le altre suore erano degli sfollati provenienti da Napoli.
«Prima di addormentarmi – ricorda a tal proposito il prof. Roberto Piperno – mia madre mi faceva ripetere ogni sera il mio nuovo nome: Roberto Pistolesi. Così prima di addormentarmi mi sdoppiavo ogni sera, ripetendo il mio nuovo cognome, da usare se fossi stato in contatto con altre persone. Naturalmente lo sdoppiamento della persona non era solo nel cognome, ma anche nel comportamento. Infatti, essendo noi, ufficialmente, degli sfollati napoletani cattolici, tutte le domeniche ci recavamo nella chiesa del Monastero. Così dalle suore appresi via via le preghiere cattoliche ed anche occasionalmente, mi pare a Pasqua, partecipai al breve corteo interno nella chiesa. Ricordo anche che il giorno precedente la Domenica, mi capitò qualche volta di trovarmi presso il giardinetto interno dove una suora preparava le ostie per la messa; ed una volta mi dette dei pezzetti di ostia spezzettati, non ancora consacrati, rimasti sul tavolinetto. Ricordo in particolare, ancora con speciale simpatia, una giovane suora di nome Rita (ormai deceduta), con la quale con mia sorella ci incontravamo nel Monastero o nel giardinetto: era sempre così affettuosa ed umana. È stata l’unica persona con la quale una mattina di primavera sono uscito, dovendosi lei recare a fare alcuni acquisti nelle immediate vicinanze. Sono esperienze indimenticabili – conclude, con un filo di emozione, Roberto Piperno –, tanto più che durarono tanti mesi, e dalle quali non ti liberi mai più. Sul piano dei rapporti umani non ho un ricordo triste del periodo trascorso nel monastero, che era tenuto bene dalle suore gentili, sorridenti e disponibili. Certamente il comportamento umano delle suore verso questo bambino, unico maschietto nel Monastero, rese possibile non solo la salvezza, ma rese anche più accettabile quella continua condizione di prigionia e paura: e anche di questo sono ancora grato».
Del resto è ormai fin troppo noto che, soprattutto in quel periodo, l’accoglienza negli ambienti ecclesiastici non conobbe riserve, tanto è vero che la Città del Vaticano e numerosi ordini religiosi, sprezzanti del pericolo che correvano, si prodigarono per offrire riparo a tutti coloro i quali correvano il rischio di essere acciuffati dalle S.S. e spediti nei vari campi di concentramento. Anche il pontefice, appena fu messo al corrente di ciò che stava accadendo nel ghetto ebraico dalla principessa Enza Pignatelli Aragona Cortés, immediatamente si attivò per cercare di porre fine a quello scempio che si stava consumando proprio sotto le sue finestre. Tuttavia, sapeva fin troppo bene che occorreva lasciarsi guidare dalla prudenza e non dall’emotività del momento così, per non compromettere ulteriormente la situazione ed esasperare gli animi già fin troppo esacerbati e particolarmente suscettibili dei nazisti – come era accaduto appena un anno prima in seguito alla denuncia dell’episcopato olandese – ritenne più opportuno intavolare una trattativa, attivando una fitta rete di canali diplomatici. Difatti convocò immediatamente – tramite il segretario di stato Maglione – l’ambasciatore tedesco presso la Santa sede Ernst von Weizsäcker, per esprimere tutto il suo disappunto in merito agli arresti indiscriminati perpetrati dai nazisti, esortandolo a fare tutto il possibile per persuadere lo stato maggiore tedesco a porre fine a quella infamia.
Non pago di ciò, Pio XII decise di interpellare finanche il suo intermediario più fidato con le autorità germaniche, ovverosia il superiore generale dei Salvatoriani padre Pancrazio Pfeiffer, al quale affidò il delicato incarico di contattare, con la dovuta cautela e senza destare alcun sospetto, il comandante militare di Roma, gen. Rainer Stahel, per consegnargli una lettera di protesta ufficiale da parte della S. Sede scritta dal rettore del Pontificio Collegio Teutonico di “S. Maria dell’Anima”, mons. Alois Hudal, da far pervenire a Himmler per indurlo ad ordinare l’immediata sospensione dei rastrellamenti (per i particolari di questa vicenda si rimanda a quanto già scritto nell’articolo “La lista di Pfeiffer”, 16 ottobre 2011, pag. 5). La protesta del Vaticano alla fine sortì gli effetti sperati, come riferisce in un dispaccio del 31 ottobre 1943, inviato al suo governo, il ministro plenipotenziario rappresentante del Regno Unito presso la Santa Sede, Francis D’Arcy Godolphin Osborne, il quale si esprimeva in questi termini:
«Non appena seppe degli arresti di ebrei a Roma, il Cardinale Segretario di Stato diresse e formulò all’Ambasciatore tedesco una [sorta?] di protesta. L’Ambasciatore si mosse immediatamente con il risultato che gran parte di loro fu rilasciata. L’intervento vaticano sembra dunque esser stato efficace nel salvare un certo numero di queste sfortunate persone. Ho chiesto di sapere se potessi io riferir questo e mi fu detto che avrei potuto ma solo per nostra conoscenza e non per darne pubblica ragione, poiché ogni pubblicazione d’informazioni condurrebbe probabilmente a nuove persecuzioni».
Ecco come descrive, con dovizia di particolari, la sua vicenda il prof. Roberto Piperno.
Entrai nel Convento delle Suore Betlemite alla metà di dicembre del 1943. Ero nato alla fine del maggio del 1938 ed avevo cinque anni e mezzo: troppo piccolo per sapere e capire ciò che stava avvenendo, troppo grande per non rendermi conto del cambiamento e per non comprendere che eravamo in fuga dalla nostra precedente vita.
In precedenza, per sfuggire dalla caccia agli ebrei dei nazisti, dalla metà di settembre ero stato nascosto presso la famiglia Ragionieri, amica di mio padre, con papà, mamma e mia sorella Marina, di tre anni più grande di me. Ma dopo la retata degli ebrei compiuta dai nazisti a Roma il 16 ottobre, anche i miei tre nonni, fortunosamente salvatisi, erano arrivati in questa casa ospitale e protettiva: i genitori di mia madre e la mamma di mio padre.
Ma i tempi si allungavano e gli Alleati, pure sbarcati già ad Anzio, non arrivavano a Roma; la casa che ci ospitava era troppo piccola per accogliere sette persone, troppe anche per il rischio di dare nell’occhio degli abitanti di altri appartamenti di Via Arno.
Così a Dicembre, grazie alle precedenti amicizie di mio padre, ci spostammo tutti nella Basilica di San Giovanni, territorio vaticano, giacché dopo il 16 ottobre il Papa aveva aperto i conventi agli ebrei che volessero nascondersi dai nazisti. Ma proprio lo stesso giorno- come seppi dopo – i nazisti erano entrati nella Basilica di San Paolo per prendere persone, forse politici, là nascosti. Ricordo benissimo la notte passata a San Giovanni, in una camerata dove c’erano anche molte altre persone,specialmente uomini maturi, forse del mondo della politica italiana. Ricordo bene perché, con mia sorpresa, mia madre non mi fece spogliare e rimanemmo tutta la notte vestiti, con la luce accesa, pronti a scappare se fossero arrivati i nazisti: una notte insonne e misteriosa per un bambino di cinque anni. Il giorno dopo tornammo nella casa della famiglia Ragionieri. Mio padre e mio nonno erano andati via più presto da San Giovanni per non fare un gruppo troppo visibile in strada e rivedo mia madre, mia sorella e le nonne a piazza San Giovanni in trepidante attesa del tram che non arrivava, mentre si avvicinava l’ora del coprifuoco.
Ma non rimanemmo nella casa degli amici a lungo. Dopo qualche giorno avvenne il trasferimento dalle Suore Betlemite, mentre gli uomini, mio padre e mio nonno materno rimasero presso i Ragionieri. Dunque io con le quattro donne (mia madre, mia sorella,e le due nonne) ci trasferimmo in questo Convento a piazza Sabazio, che non era lontano da Via Arno.
Il signor Alberto Ragionieri ci aveva potuto procurare delle identità false: ora eravamo una famiglia profuga dell’area di Napoli e il nostro nome era Pistolesi. Io mi chiamavo Roberto Pistolesi e, naturalmente, ero divenuto anche un bambino cattolico: mia madre si preoccupava spesso di ricordarmi questa mia doppia identità, raccomandandomi di non scordare quel nuovo nome o ad esempio facendomi dire una preghiera in ebraico la sera prima di addormentarmi, ma preoccupandosi di portarmi in chiesa la domenica. D’altronde, come seppi dopo, anche le suore, salvo la Madre Superiora, non erano al corrente del nostra identità ebraica e perciò dovevamo in tutti i modi evitare di manifestarla, per impedire che, anche in modo del tutto casuale, si potesse sapere che eravamo nascosti lì, per salvarci dai nazisti. Inoltre il Monastero accoglieva in quei mesi anche altri ebrei: ma questo l’ho saputo a distanza di decenni perché ogni ospite stava separato dagli altri e la riservatezza, la segretezza delle vere identità era essenziale per la salvezza di tutti. Questa situazione di isolamento e di doppia identità anni è ancora scolpita nella mia mente dopo sessantacinque anni e certamente ha avuto un profondo effetto psicologico sul resto della mia vita.
Cominciò così un lungo periodo di permanenza nel Convento delle Suore Betlemite, che durò fino alla Liberazione di Roma, il 4 giugno del 44. Come passava il tempo? E’ difficile a dirsi: il ricordo è stato soppresso dalla paura, dalla monotonia, dalla fragile incertezza di quei mesi. Ricordo che noi cinque eravamo tutti in una stanza nel sottoscala, poco distante dal portone d’ingresso del Monastero. Qui erano state messe quattro brande, dove dormivamo e c’era solo un mobile dove si tenevano i pochi abiti. La luce penetrava attraverso le inferriate, che si trovavano al livello del marciapiede esterno. Rammento anche che contro l’inferriata della finestra c’erano dei sacchetti di sabbia per impedire che dalla strada si potesse guardare con facilità dentro la stanza. Per andare al bagno bisognava invece salire al piano superiore.
E’ strano ma non ricordo bene come si mangiasse: mi pare che ci fosse un tavolino dove ci appoggiavamo e dove ci portavano, in quel temo di carestia per tutti, qualcosa di cucinato. Si mangiava, ricordo, molta verdura lessa, soprattutto broccoletti il cui sapore certo non mi entusiasmava. Il signor Ragionieri ogni tanto veniva a trovarci e ci portava qualcosa da mangiare che si procurava in campagna. Ma il ricordo è quello di un cibo povero e privo di sapori, un fedele ritratto delle nostre condizioni di vita in quei mesi, che al di là della paura ero troppo piccolo per capire. Il mio compito principale era quello di essere ubbidiente, di non dare fastidio, di non fare rumore, di non sporcarmi.
Ricordo anche che accanto alla nostra stanza c’era un’altra stanza, che fungeva da magazzino, con dei grandi mobili: a volte mia sorella ed io ci spostavamo lì per poterci muovere appena un po’ di più e giocare un po’, come ragazzini, ad esempio con le carte. Una volta Alberto Ragionieri mi portò da parte di mio padre un libricino per bambini piccoli con dei disegni: una gioia raramente provata negli anni successivi.
Quando arrivammo al Convento la bella novità fu il giardino interno e la scuola elementare che si trovava sul lato opposto del giardino. Le suore consentirono a me e a mia sorella di entrare nella scuola e seguire le lezioni. Era la mia prima elementare con una gentile suora come maestra. Ricordo ancora con quanto desiderio cercavo di imparare a scrivere. Ma questa grande novità positiva durò pochi giorni. Una mattina mia madre, attraversando il giardino per portarci alla scuola, alzando lo sguardo vide sporgersi da un balcone di un palazzo di fronte una persona che conosceva. Preoccupata giustamente di potere essere identificata, sia pure casualmente, ci proibì di andare in giardino e a scuola. Così terminò in pochi giorni la mia prima classe elementare e la possibilità, sia pure sotto falso nome, di stare in compagnia con altri bambini, di frequentare le suore maestre o di stare in giardino. In pratica diventammo sempre più prigionieri di quella unica modesta stanza nel sottoscala, salvo qualche incontro saltuario sulle scale con qualche suora, che manifestava sempre una grande gentilezza verso di noi, unici bambini nel Convento. Così non mi sono mai dimenticato che la suora, che preparava le ostie per la domenica, ci chiamava per darci dei pezzettini residui. E in particolare ricordo il giorno di Pasqua di essere stato in chiesa e, come bambino, fui messo dalle suore davanti a tutti lungo il percorso della Via Crucis, all’interno della chiesa del Convento.
Proprio per la condizione di grande isolamento di quei mesi, non ho mai dimenticato quel giorno quando mia madre mi concesse di uscire da solo con Suor Rita, una giovane suora che di tanto in tanto ci veniva a trovare e ci parlava. Quel pomeriggio addirittura uscii per mezz’ora con lei soltanto, perché lei si doveva recare ad un negozio di biancheria poco distante e mi chiese di farle compagnia per farmi uscire: per me è stato un episodio indimenticabile. Né mia sorella né io abbiamo mai dimenticato Suor Rita, anche a distanza di decenni e mia sorella l’andò a trovare, quando era già assai anziana, ad un Convento di Napoli dove era stata trasferita.
Ricordo anche qualche rara domenica mattina primaverile in cui uscivo dal Convento con mia madre e mia sorella per dirigerci verso Via Arno, dove stava mio padre, ed incontrarlo in strada, in modo fugace e sempre attenti a non dare nell’occhio e a non farsi riconoscere da nessuno.
Ma tra i ricordi c’è anche quello di una sera quando verso le 22,30 bussarono con insistenza al portone del Convento, proprio sopra il nostro nascondiglio. Il terrore si sparse tra di noi perché a quell’ora soltanto i soldati potevano essere in giro. Poi sapemmo che erano state delle persone conosciute dal Convento e in cerca di aiuto.
Così passarono quei quattro mesi e mezzo, mai dimenticati e finalmente venne il 4 giugno, il giorno della Liberazione. Quelle ultime ventiquattro ore sono legate ad un altro ricordo: all’inizio della notte, nel silenzio sepolcrale della città di quei tempi, improvvisamente fummo svegliati dallo stridìo furioso di macchine che attraversavano a tutta velocità la curva della piazza Sabazio a poca distanza dalle inferriate della nostra stanza: un rumore da farci a lungo rabbrividire. Solo dopo comprendemmo che erano state macchine dell’esercito nazista in fuga per il prossimo arrivo degli Alleati. Così la liberazione dai fascisti e dai nazisti è per me, ancora oggi, innanzi tutto quel suono stridulo, lacerante, in cui il terrore si affianca alla gioia della libertà, quando il giorno dopo vedemmo sfilare a Viale Regina Margherita i carri armati alleati che entravano a Roma.
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