mercoledì, 16 Ottobre 2024
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Quando Cunardo salvò una famiglia ebrea ricercata dai nazifascisti

A distanza di 74 anni sono tornati nel luogo della loro salvezza per ricevere la cittadinanza onoraria quei due fratellini ebrei, Lea e Daniele Nissim, rispettivamente di 4 anni e di un mese, che all’epoca insieme al padre appena trentacinquenne, il Rabbino capo della comunità ebraica di Padova Paolo Nissim, la madre Ada Levi, nonna Gemma Levi e zia quindicenne Anna, ferocemente braccati dai nazifascisti solo perché erano ebrei.La tragedia della Shoah è qualcosa che è ancora dentro ognuno di noi – hanno dichiarato ancora visibilmente commossi Daniele e Lea –. Oggi però siamo contenti di poter raccontare la nostra testimonianza e non possiamo che ringraziare Calogero Marrone, Anna Sala, chi ci ha ospitato per 18 mesi e la comunità di Cunardo ai quali dobbiamo le nostre vite.Daniele e Lea erano originari di Padova e, tra il 1943 e il 1945, riuscirono a sfuggire alla cattura ed ai campi di concentramento, trovando rifugio nell’abitazione di una famiglia di Cunardo, un piccolo paese del varesotto adagiato tra le valli prealpine, grazie ai documenti d’identità falsi procurati dalla studentessa universitaria Anna Sala – “staffetta” partigiana del movimento “Giustizia e Libertà” – conosciuta qualche anno prima, durante il suo soggiorno a Venezia durante i suoi studi universitari presso Ca’ Foscari, ricevuti dal Capo dell’Ufficio Anagrafe del Comune di Varese Calogero Marrone poi arrestato dai tedeschi il 7 gennaio 1944 e morto di stenti a Dachau il 15 febbraio 1945.Proprio per questi gesti di esemplare umanità, Anna Sala e Calogero Marrone, rispettivamente nel 2000 e nel nel …

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A distanza di 74 anni sono tornati nel luogo della loro salvezza per ricevere la cittadinanza onoraria quei due fratellini ebrei, Lea e Daniele Nissim, rispettivamente di 4 anni e di un mese, che all’epoca insieme al padre appena trentacinquenne, il Rabbino capo della comunità ebraica di Padova Paolo Nissim, la madre Ada Levi, nonna Gemma Levi e zia quindicenne Anna, ferocemente braccati dai nazifascisti solo perché erano ebrei.

La famiglia Nissim

La tragedia della Shoah è qualcosa che è ancora dentro ognuno di noi – hanno dichiarato ancora visibilmente commossi Daniele e Lea. Oggi però siamo contenti di poter raccontare la nostra testimonianza e non possiamo che ringraziare Calogero Marrone, Anna Sala, chi ci ha ospitato per 18 mesi e la comunità di Cunardo ai quali dobbiamo le nostre vite.

Daniele e Lea Nissim

Daniele e Lea erano originari di Padova e, tra il 1943 e il 1945, riuscirono a sfuggire alla cattura ed ai campi di concentramento, trovando rifugio nell’abitazione di una famiglia di Cunardo, un piccolo paese del varesotto adagiato tra le valli prealpine, grazie ai documenti d’identità falsi procurati dalla studentessa universitaria Anna Sala – “staffetta” partigiana del movimento “Giustizia e Libertà” – conosciuta qualche anno prima, durante il suo soggiorno a Venezia durante i suoi studi universitari presso Ca’ Foscari, ricevuti dal Capo dell’Ufficio Anagrafe del Comune di Varese Calogero Marrone poi arrestato dai tedeschi il 7 gennaio 1944 e morto di stenti a Dachau il 15 febbraio 1945.

Calogero Marrone

Proprio per questi gesti di esemplare umanità, Anna Sala e Calogero Marrone, rispettivamente nel 2000 e nel nel dicembre 2012, sono stati insigniti dell’alta onorificenza di “Giusto fra le Nazioni”, il massimo riconoscimento civile che lo Stato di Israele conferisce a chi, a repentaglio della propria vita non ha esitato a salvare individui di un’altra religione, ingiustamente perseguitati solo perché erano ebrei. Grazie a questo provvidenziale stratagemma Paolo Nissim divenne Ugo Marinelli “sfollato” proveniente da Campobasso, Gemma Levi divenne Ida Rovelli vedova Torneamenti di Caserta, Ada e Anna Levi rispettivamente Ada e Anna Torneamenti, mentre Lea e Daniele Nissim assunsero la nuova identità di Lea e Daniele Marinelli. Tutte località sicure perché essendo occupate dagli Alleati i nazifascisti non avrebbero potuto effettuare dei controlli.

Avevo quattro anni – ricorda sul filo della memoria Lea Nissim – e giocavo con le vicine di casa più grandi di me, eravamo arrivati in paese da poco, ricordo ancora la notte in cui qualcuno scese le scale, con la candela e le ombre lunghe che mettevano paura. Le amiche mi chiedevano di dove fossi, e io rispondevo: “Di Padova, ma mamma e papà hanno detto di dire che sono di Caserta”.

Appena giunti a Varese in treno la famiglia di Lea e Daniele Nissim si sistemò soltanto temporaneamente presso l’Albergo Magenta. Poi, il giorno successivo, furono costretti a trovarsi un altro alloggio in seguito all’improvvisa perquisizione compiuta dalle SS che, tuttavia, non riuscirono a scoprirli nella camera dell’ultimo piano che era stata loro assegnata.

Visto che non erano più nelle condizioni di raggiungere la Svizzera in seguito all’arresto al Gaggiolo della guida che avrebbe dovuto accompagnarli, a quel punto Paolo Nissim decise di rivolgersi all’ingegner Giacinto De Grandi il quale, considerato il pericolo che incombeva su di loro, non esitò a mettere a loro disposizione un appartamento che possedeva a Cunardo, per la precisione all’angolo tra via Roma e via Ariosto al civico 26, dove giunsero poco dopo a bordo di un taxi.

Inoltre, proprio grazie al loro status di “sfollati” riuscirono ad ottenere perfino delle tessere annonarie e postali procurate loro dal futuro Capo di Stato Maggiore del CVL Luciano Comolli, il quale poteva contare sulla complicità del padre, che lavorava presso l’Agenzia delle Poste di Sant’Ambrogio Olona, neanche a farlo apposta proprio dove abitava la giovane Anna Sala.

La nuova sistemazione si rivelò davvero provvidenziale perché in questa nuova veste Anna Levi, senza mai destare alcun sospetto. Per un certo periodo, riuscì perfino a svolgere il lavoro di infermiera presso lo Studio medico dentistico del dottore varesino Giancarlo Bonazzola.

Ma ecco come ricorda quei tragici momenti Ada Levi Nissim, che, in una testimonianza rilasciata nel gennaio del 2011, descrive con dovizia di particolari come andarono  effettivamente le fasi salienti di quella autentica operazione di salvataggio:

Daniele e Lea Nissim

Il 25 luglio 1943, con l’arresto di Mussolini, ci illudemmo che Daniele sarebbe nato in regime di libertà, ma l’illusione durò poco, perché il 9 settembre entrarono a Padova le truppe tedesche e allora fu chiaro che l’unica via di salvezza era la fuga.
Un’altra illusione era che le truppe alleate, già insediate in Sicilia e in Italia meridionale, sarebbero risalite rapidamente lungo la penisola e il periodo di occupazione tedesca sarebbe stato breve; perciò gli ebrei giovani, che erano più esposti al pericolo di arresto o di costrizione, decisero di scendere verso il sud in bicicletta per poi passare le linee: anche Paolo partì il 19 settembre 1943 e io rimasi sola con mia mamma e con mia figlia Lea con l’unico pensiero di trovare un luogo relativamente sicuro per far nascere Daniele.
Sconsigliata di entrare nell’ospedale locale, pensai di andare in provincia e in particolare a Piove di Sacco dove abitava una mia scolara privata, Graziella Vallini, figlia del comm. Giuseppe Vallini, che accettò di accogliere Lea, mentre io e mia mamma Gemma entrammo in quell’ospedale. Era il 26 settembre e la sera del giorno dopo mi avvertono che c’era una visita: era Paolo che, raggiunto con gli altri cinque amici il meridione , resosi conto che l’arrivo degli alleati non sarebbe stato cosi’ rapido come ripensava, era risalito in treno, aveva organizzato un alloggio per noi a Roma, dove pensava di portarci a parto avvenuto. (…)
Dimessa dall’Ospedale, dove potevo andare? La nostra casa di Padova era stata segnalata ai tedeschi. Decidemmo di andare in una casa di contadini a Piazzola sul Brenta, dove avevamo portato precedentemente un po’ di masserizie in vista di un eventuale sfollamento. Finché il 16 ottobre avvenne a Roma la retata degli ebrei del ghetto e il treno che li portava in Germania sostò a Padova e i padovani che si trovavano in stazione ebbero modo di rendersi conto che i treni piombati e gli ebrei ammassati, affamati e assetati non era una favola, ma una tragica realtà; e allora la paura si trasformò in panico e ci convincemmo che per tentare di salvare la vita non c’era che nascondersi. Una ragazza figlia di un antifascista di Varese, Anna Sala, venne a proporci la fuga in Svizzera. La mamma Gemma, e noi quattro Nissim ci mettemmo in viaggio con valigie e valigette su un treno superaffollato diretto a Milano da dove si doveva proseguire poi per Varese. Ci disperdemmo uno qua e uno là, io con la preoccupazione che un bambino così piccolo non potesse salvarsi da quella folla, Lea con il suo cronico mal di viaggio, la mamma con la preoccupazione per i bagagli, Paolo col timore che ci chiedessero i documenti.
Dopo un numero imprecisato di ore arrivammo in piena notte e ci trasferimmo alla stazione delle Varesine, occupando il tempo per ridurre il più possibile i bagagli.
Giunti a Varese verso mezzogiorno, si doveva attendere la sera per incontrarsi con chi ci avrebbe portato oltre il confine svizzero. Per far riposare i due bambini pensammo di prendere una stanza in albergo (Magenta) consegnando delle carte d’identità che Anna Sala ci aveva procurato con nomi fittizi per l’eventualità che ci fossero richiesti i documenti. Nella stanza mangiammo qualcosa, ci rinfrescammo, i bambini dormirono. Ma a una certa ora bisognò svegliarli e fu un’impresa difficile.
Lea che era stata disturbata tutta la notte ed aveva ancora bisogno di riposo si rifiutava di alzarsi e abbiamo dovuto trascinarla piangente fuori dall’albergo sotto gli occhi meravigliati del personale che la sentiva gridare: “mi portate a morire!”.
Giungemmo in ritardo all’appuntamento con il proprietario di un camioncino di una fabbrica di formaggi che dopo averci fatto salire, decise che era troppo tardi, che non avremmo più incontrato la guardia di confine con cui era stato preso l’accordo e che bisognava rimandare la fuga a un’altra sera.
Spaventati, storditi, cosa potevamo fare? Siamo tornati in quell’albergo quantunque avessimo la sensazione che tutti i presenti avessero capito chi eravamo e perché ci trovavamo lì.
Poco dopo l’albergo fu circondato dai soldati tedeschi e iniziò una perquisizione in tutte le stanze. Presi dal panico, ci liberammo di tutti i documenti che dimostravano la nostra appartenenza alla religione ebraica, documenti che sarebbe stati necessari per essere accettati in Svizzera (e quasi intasammo il gabinetto), poi cercavamo di ricordarci i dati delle carte d’identità che si trovavano depositate nell’ufficio dell’albergo e che avevamo guardato solo di sfuggita, pensando che non ci sarebbero più servite. Tutti segni della nostra appartenenza alla religione ebraica (catenelle al collo, filatteri, mezuzot) finirono nel materasso del letto.
È difficile dire quanto durò quell’attesa: eravamo al terzo piano e per fortuna la perquisizione fu interrotta al secondo avendo i tedeschi arrestato il padrone dell’albergo sospettato di date aiuto ai perseguitati. Demmo un sospiro di sollievo, ma per poco, perché venimmo a sapere che il gruppo che aveva tentato la fuga la sera prima con lo stesso sistema che avremmo usato noi, era stato arrestato alla frontiera e deportato. Siccome era formato dallo stesso numero di persone che formavano il nostro gruppo, si sparse la voce tra gli amici e i parenti che ci aspettavano oltre il confine che eravamo stati arrestati noi e lo credettero fino alla fine della guerra. Era evidente che era stata scoperta tutta la rete e che ormai, alla fine
del novembre 1943 da quella parte, in Svizzera, non si passava più. Allora sempre quella Anna Sala ci propose di nasconderci in una stanza di una casa di contadini a Cunardo casa che apparteneva a un capo antifascista e così nel buio del sabato sera, entrammo in questo ambiente che per diciotto mesi ci servì da camera da letto, da cucina, da stanza da soggiorno, insomma da rifugio.
La prima cosa che Paolo fece fu di radersi la barba, onde corrispondere alla fotografia che figurava nella fittizia carta d’identità che da allora divenne il documento regolare. Secondo questi falsi documenti noi tutti eravamo nativi di Caserta, rifugiati nel nord per sfuggire alla guerra e quindi probabili fascisti, con nomi diversi dai nostri e che faticavamo a ricordare, con una parlata veneta inconfondibile! Qualche volta Lea scendeva nel cortile e si incontrava con delle persone ma noi dalla finestra la seguivamo tremando perché quando le domandavano dove sei nata, lei rispondeva: a Padova ma adesso si chiama Caserta.
Nel letto matrimoniale dormivamo in quattro, dormivamo per modo di dire perché i materassi erano infestati di pulci e ogni notte si vedeva la luce della pila con la quale mia mamma tentata di dar loro la caccia. E poi si sentiva il rumore della pipì che scendeva dall’alto in una vaschetta di zinco perché bisognava che Daniele bagnasse il meno possibile i suoi pannolini perché bisognava andare a lavarli alla fontana in strada dove l’acqua era sempre gelida. Una notte un convoglio dell’esercito tedesco entrò a Cunardo: nel buio e nel silenzio della notte, distesi immobili con gli occhi aperti, sentimmo il rumore dei carri armati e dei mezzi di trasporto avvicinarsi, arrestarsi e …finalmente proseguire.
Anna Sala, che fu onorata nel 2000 del titolo di “Giusta tra le nazioni”, per averci salvati, arrivava ogni tanto con qualche preziosa provvista, ma anche con tristi notizie di deportazioni e di torture. Passò l’estate, passò un altro inverno e venne quel 25 aprile 1945 in cui i partigiani liberarono Milano: alla notizia, tale fu l’entusiasmo che Paolo si mosse con tale impeto da battere malamente il dito medio contro un tavolo e da procurarsi una frattura che lo tormentò poi per parecchio tempo.
Da quanto è a nostra conoscenza, siamo l’unica famiglia ebrea sopravvissuta in tutta la zona al confine tra Italia e Svizzera. Tornati a Padova, trovammo la nostra casa vuota, e per lunghi mesi ci seguì l’incubo della persecuzione. Gran parte della comunità ebraica di Padova era stata deportata. Nel novembre 1945 Daniele fu finalmente circonciso.

Testimonianza rilasciata da Ada Levi Nissim nel gennaio del 2011

© Giovanni Preziosi, 2017

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