Gli ordini religiosi durante gli anni della Seconda guerra mondiale.
Gli ordini religiosi durante gli anni della Seconda guerra mondiale.
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Fiumi d’inchiostro sono stati scritti finora sulla Resistenza. Solo recentemente però sta emergendo un filone storiografico che tende a riscoprire tutte quelle forme di Resistenza non armata, fornendo una suggestiva rilettura delle fasi cruciali che hanno segnato questo periodo, assumendo come punto di osservazione i vari ordini religiosi, maschili e femminili che in quegli anni fecero registrare una vera e propria funzione “civile” del clero (talvolta interpretata in termini di supplenza). Funzione che si tradusse concretamente nell’offrire assistenza e ospitalità in ambienti ecclesiastici ai tanti perseguitati (ex gerarchi fascisti, ebrei e partigiani) per fornire loro un provvidenziale rifugio, indipendentemente dalla loro fede religiosa o dal loro colore politico, tanto da essere definita “l’ora della carità”.
Così, mentre nell’Italia del sud (già liberata) la lotta si svolgeva apertamente, nell’Italia centro–settentrionale occupata dai tedeschi, le organizzazioni partigiane erano costrette a muoversi nella più rigorosa clandestinità. È proprio quello che accadeva nel vicentino dove imperversavano una miriade di bande armate tra le quali spiccava la divisione Pasubio capeggiata dal famigerato Giuseppe Marozin, nome di battaglia Vero. Protagonista controverso della lotta di liberazione nelle valli al confine tra la provincia di Vicenza e Verona, Marozin si poteva considerare un personaggio a dir poco stravagante, dotato di un forte carisma unito a uno spiccato senso del comando che lo induceva a prediligere una forma di guerriglia autonoma rispetto a quella ciellenistica al punto che, a causa delle sue continue insubordinazioni, il Comitato di liberazione nazionale (Cln) di Vicenza fu costretto a spiccare nei suoi confronti addirittura la condanna a morte (novembre 1944).
Per sfuggirvi, dopo il ridimensionamento della sua banda scaturito in seguito all’operazione Pauke (“Timpano”) condotta tra il 12 e il 16 settembre dai reparti tedeschi col supporto di alcune unità repubblichine, ai primi di novembre, con un centinaio di uomini che gli erano rimasti fedeli, Marozin si trasferì a Milano, dove allacciò contatti con il tenente colonnello Vittorio Palombo del Comando generale del Cvl che, poco dopo, con il beneplacito di Sandro Pertini decise di aggregarli alle dirette dipendenze del Comando generale brigate Matteotti.
Braccato dai nazifascisti, dopo essere sfuggito miracolosamente a un’imboscata, il 23 ottobre 1944 Morazin decise di rivolgersi a don Antonio Fasani, parroco di Lughezzano (frazione vicino Verona), che subito chiese a madre Adele Adami, responsabile delle suore canossiane del luogo, di nascondere nella loro casa la moglie Rosa Ines Franchetti e la figlia Vera di appena due anni. La moglie del comandante partigiano, tuttavia, si fermò solo tre giorni in quella casa angusta e affollata, mandando a dire al marito che non poteva resistere lì rinchiusa. Tuttavia prima di darsi di nuovo alla macchia, raggiungendo il marito e i partigiani con una rocambolesca fuga, la donna affidò la figlia (che non poteva resistere al clima rigido delle valli vicentine) alle cure delle suore che la nascosero nelle loro case venete per tenerla lontana da occhi indiscreti.
Le cronache del 23 ottobre della Casa Madre San Zeno di Verona descrivono i particolari di questa vicenda:
I partigiani, infatti, avevano rapito Gina Legnaghi, maestra trentanovenne di Tregnago, accusata di essere un’informatrice dei tedeschi, avendo fatto la spia anche a discapito dei membri della Pasubio. Di conseguenza i fascisti, sapendo i rapporti idilliaci che intercorrevano tra i partigiani e don Fasani, per tutta risposta si erano piazzati fuori della chiesa, minacciando di uccidere il sacerdote se la maestra non fosse stata rilasciata. Poi, a un tratto, rompendo ogni indugio, i miliziani delle Brigate Nere fecero irruzione nella chiesa e costrinsero il parroco a interrompere la messa e a seguirlo in piazza, dopodiché lo caricarono su di un camion e lo condussero a Verona dove fu sottoposto a un pressante interrogatorio: sospettavano che proteggesse partigiani e giovani imboscati.
Vedendo che la situazione stava precipitando, una suora che si trovava nei paraggi finse un malore per farsi accompagnare a casa nel timore che i fascisti, dopo aver puntato le mitragliatrici contro la chiesa, potessero prendere di mira anche la casa canossiana dov’era nascosta la bimba, che strillava e piangeva continuamente. Dopo poco, a causa del continuo andirivieni dei fascisti che stazionavano nei dintorni della casa delle canossiane, la bambina fu trasferita alla Casa Madre di Verona e in seguito a quella di Costermano dove, dal novembre 1909, le suore possedevano un piccolo orfanatrofio diretto dalla superiora Giuseppina Rigotti. Lì rimase fino al termine della guerra.
Le suore ritennero opportuno darle un nome fittizio cercando di persuaderla che si chiamava Gabriella e, per precauzione, le insegnarono a dire perfino: «Papà fascista; fascisti bravi».
Come tempo fa ha riferito a chi scrive la compianta madre Giulia Pozza, protagonista di questi avvenimenti, Vera Marozin, era molto sveglia e, seppur di appena due anni e mezzo, pronunciava bene il suo nome e diceva che il padre era «il capo bibelli». Fu un bene perché i fascisti non tardarono a venire in paese, ad arrestare e prelevare don Antonio Fasani, «a perquisire la casa e a fare altre gravi minacce.
Al termine della guerra, il comandante Marozin si recò a Costermano con la moglie a riprendere la figlia, mostrandosi molto riconoscente per le attenzioni che le avevano riservato e per quanto le suore avevano fatto anche per garantire la loro incolumità. In segno di gratitudine favorì il viaggio da Roma a Verona della madre generale Antonietta Monzoni, ansiosa di visitare le case del Nord per accertarsi dei danni prodotti dalla guerra.
Il nome di Giuseppe Marozin, tuttavia, resta legato ad alcuni episodi, come quello della morte di Osvaldo Valenti e Luisa Ferida (che pagò con la vita la relazione con il celebre attore), fucilati a Milano alle 23.35 del 30 aprile 1945 proprio dai partigiani della Brigata Pasubio per l’adesione di Valenti alla X Flottiglia Mas, la collaborazione con i tedeschi nonché le loro frequentazioni della Villa Triste dove la banda Koch sottoponeva a feroci sevizie quanti finivano nelle sue grinfie. Ma del resto si sa che in quei tempi stava cominciando a prendere il sopravvento una spiccata revanche antifascista e i Saint-Just, purtroppo, pullulavano un po’ dappertutto. Il nome di Giuseppe Marozin, tuttavia, resta legato ad alcuni episodi, come quello della morte di Osvaldo Valenti e Luisa Ferida (che pagò con la vita la relazione con il celebre attore), fucilati a Milano alle 23.35 del 30 aprile 1945 proprio dai partigiani della Brigata Pasubio per l’adesione di Valenti alla X Flottiglia Mas, la collaborazione con i tedeschi nonché le loro frequentazioni della Villa Triste dove la banda Koch sottoponeva a feroci sevizie quanti finivano nelle sue grinfie. Ma del resto si sa che in quei tempi stava cominciando a prendere il sopravvento una spiccata revanche antifascista e i Saint-Just, purtroppo, pullulavano un po’ dappertutto.
Anche questa fu la Resistenza, combattuta imbracciando al posto dei fucili le armi della carità che, grazie al sacrificio di tanti uomini e donne, contribuì a scrivere una delle pagine eroiche della storia italiana, restituendo ai cittadini la libertà proditoriamente conculcata da un regime dittatoriale.
© Giovanni Preziosi, 2023
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