In un articolo apparso il 7 ottobre dello scorso anno sul quotidiano torinese “La Stampa” firmato da Ariela Piattelli dal titolo controverso e per certi versi fuorviante, “Il cardinale Fossati: niente aiuti agli ebrei, sono turbolenti e hanno già fin troppo”, si adombrò, a dire il vero anche piuttosto maldestramente, l’atteggiamento antisemita assunto dall’allora arcivescovo di Torino, il card. Maurilio Fossati.Mediante una lettera rinvenuta di recente, “quasi per caso”, dalla ricercatrice dell’Associazione Italia-Israele Giulietta Weisz, inviata dall’arcivescovo di Torino card. Maurilio Fossati il 31 marzo 1946, a monsignor Ferdinando Baldelli della Pontificia opera di assistenza per “rispedire al mittente” un assegno di 100 mila lire offerto dalla Santa Sede per aiutare i mille ebrei scampati ai campi di sterminio nazista, ospitati nel campo profughi di Grugliasco 100.000 lire perché avrebbe giudicato questo atto di carità superfluo considerato che gli ebrei del campo erano «in massima parte soggetti turbolenti, trattati troppo bene e che abusano vendendo al mercato nero quello che sovrabbonda, che lasciano molto a desiderare quanto a moralità, donne in soli calzoncini succinti».Ci lascia perplessi questo modo di ricostruire gli eventi storici in modo parziale, mettendo in risalto un particolare che può suscitare un certo scalpore nel lettore meno avveduto, lasciando da parte altri aspetti piuttosto importanti che non si prestano ad avvalorare la propria tesi spacciata per “straordinaria”.Ma tant’è…Tuttavia, per dimostrare la parzialità di questo documento basta far rilevare che, proprio tra settembre e ottobre del ’43, il cardinale Fossati si prodigò a favorire il salvataggio degli ebrei consentendo anche la distribuzione dei fondi della DELASEM nella propria diocesi, …
In un articolo apparso il 7 ottobre dello scorso anno sul quotidiano torinese “La Stampa” firmato da Ariela Piattelli dal titolo controverso e per certi versi fuorviante, “Il cardinale Fossati: niente aiuti agli ebrei, sono turbolenti e hanno già fin troppo”, si adombrò, a dire il vero anche piuttosto maldestramente, l’atteggiamento antisemita assunto dall’allora arcivescovo di Torino, il card. Maurilio Fossati.
Mediante una lettera rinvenuta di recente, “quasi per caso”, dalla ricercatrice dell’Associazione Italia-IsraeleGiulietta Weisz, inviata dall’arcivescovo di Torino card. Maurilio Fossati il 31 marzo 1946, a monsignor Ferdinando Baldelli della Pontificia opera di assistenza per “rispedire al mittente” un assegno di 100 mila lire offerto dalla Santa Sede per aiutare i mille ebrei scampati ai campi di sterminio nazista, ospitati nel campo profughi di Grugliasco 100.000 lire perché avrebbe giudicato questo atto di carità superfluo considerato che gli ebrei del campo erano «in massima parte soggetti turbolenti, trattati troppo bene e che abusano vendendo al mercato nero quello che sovrabbonda, che lasciano molto a desiderare quanto a moralità, donne in soli calzoncini succinti».
Ci lascia perplessi questo modo di ricostruire gli eventi storici in modo parziale, mettendo in risalto un particolare che può suscitare un certo scalpore nel lettore meno avveduto, lasciando da parte altri aspetti piuttosto importanti che non si prestano ad avvalorare la propria tesi spacciata per “straordinaria”.
Ma tant’è…
Tuttavia, per dimostrare la parzialità di questo documento basta far rilevare che, proprio tra settembre e ottobre del ’43, il cardinale Fossati si prodigò a favorire il salvataggio degli ebrei consentendo anche la distribuzione dei fondi della DELASEM nella propria diocesi, impartendo precise direttive al suo segretario, don Vincenzo Barale, il quale fu incaricato di allacciare i contatti proprio con la DELASEM e con don Francesco Repetto, segretario dell’arcivescovo di Genova card. Boetto, allestendo – fin dai principi di ottobre – una capillare rete di aiuti agli ebrei, soprattutto stranieri, sparsi in varie località piemontesi. Del resto, proprio per questa sua attività assistenziale, don Vincenzo Barale, il 3 agosto 1943, fu tratto in arresto dai nazisti, insieme ad altri cinque sacerdoti, per questa attività in favore degli ebrei e riuscì a riacquistare la libertà soltanto grazie al provvidenziale intervento dell’arcivescovo di Milano Schuster.
Persino l’orfanotrofio israelitico affidò al cardinale Fossati i suoi bambini, che furono posti sotto la protezione dei Salesiani. Don Barale, in quel periodo, infatti si adoperò in mille modi chiedendo la collaborazione anche di altri sacerdoti diocesani, tra cui va annoverato soprattutto il viceparroco di Santa Maria della Scala a Moncalieri, don Michele Lusso. Inoltre si preoccupò anche si sistemare presso famiglie e cascinali una sessantina di ebrei fuoriusciti. A tal proposito don Giuseppe Pollarolo scrive in modo inequivocabile, nel suo memoriale
«Mons. Barale mi ha più volte chiamato a collaborare per la sistemazione di ebrei, singoli e famiglie, in pericolo di persecuzione. A suo nome ho sistemato ebrei presso il convento delle Suore Carmelitane in Val San Martino, dove in quel tempo ero anch’io ospite. Ho avviato e qualche volta ho trasportato in macchina ebrei in altre case, fuori Torino, dell’Opera Don Orione. Non ho mai ricevuto denaro neanche come rimborso spese».
Difatti, per fugare ogni sospetto in merito all’aiuto a beneficio degli ebrei perseguitati avallato dal card. Fossati, basta far riferimento ad un altro documento in nostro possesso, che concerne le cronache stilate durante gli anni della seconda guerra mondiale proprio dalle Suore Terziarie Carmelitane di Val San Martino a cui si faceva poc’anzi riferimento, in cui si afferma – in modo incontrovertibile – che:
Nel frattempo essendo infierita la persecuzione contro gli Ebrei ed avendo nella casa parecchi locali vuoti, Mons. Barale, Segretario dell’Em.mo Cardinale (Fossati, ndr), ci pregò di offrire segreta ospitalità ad alcuni di essi. Ricoverammo tre famiglie (esclusi però i bambini), due Signorine, una Signora, un vecchietto e un giovane padre discendente di Ebrei, ma nato da famiglia cattolica. Erano persone molto perbene, riservate e prudenti. Non ci diedero mai la minima noia, ci edificarono assai col loro contegno e soprattutto con la loro rassegnazione alla dura prova a cui Dio li sottoponeva. Due entrarono verso la metà di dicembre (1943), altri in febbraio, marzo, luglio (1944) e quasi tutti vi rimasero fino al 5 agosto 1944 quando, cioè, in seguito all’arresto di mons. Barale per l’opera che egli svolgeva a favore degli Ebrei, ricevemmo da S.E. il Cardinale l’ordine di licenziarli,
evidentemente per non esporre loro e la comunità religiosa a pericoli maggiori, considerato che ormai la rete di assistenza clandestina era stata scoperta dai nazifascisti. Nelle pagine successive la Cronaca ci fornisce altre notizie sugli Ebrei in occasione dell’arresto di don Pollarolo, avvenuto il 26 giugno 1944, che fin dal 12 marzo 1943 era ospitato nel noviziato delle suore:
Il 26 giugno, verso le ore diciotto, i Repubblicani arrestarono il M. Rev. Don Pollarolo, per accuse politiche, e lo tennero in carcere (Caserma di via Asti) fino al 12 luglio. Oh la sera del 26 giugno! Erano quasi le 21 e 30 e noi stavamo per andare in chiesa a recitare le commemorazioni dei nostri santi, quando giunse l’ingegner Guala, chiamò la Madre Priora , le comunicò la triste notizia e la consigliò di licenziare immediatamente i signori Ebrei, perché c’era probabilità che tra poche ore la casa fosse oggetto di perquisizione da parte della polizia. E’ facile immaginare la dolorosa impressione che tale notizia produsse nel cuore di ogni suora e soprattutto in quello dei nostri infelici pensionanti! In men che non si dica si prepararono ciascuno il suo fagottino e… partirono in cerca di un ricovero per la notte, che era già incominciata, e per i giorni seguenti. Per quella sera andarono dalle nostre suore in Corso Farini; il giorno dopo alcuni andarono in casa Madre e altri in Clinica Pinna-Pintor. Dopo una settimana, essendo scomparso ogni pericolo, ritornarono. Noi ci fermammo fino alle 23 per mettere un po’ d’ordine nelle loro camere […]. Quattro giorni dopo, 30 luglio (sic!) [ma giugno], verso le nove antimeridiane, si presentarono alla porta due individui i quali, in nome della polizia, chiesero di perquisire la camera di Don Pollarolo. Li accompagnarono ed assistettero la Rev. Madre generale e la M. Priora. Rovistarono nei cassetti per circa mezz’ora, presero alcuni fogli stampati, poi se ne andarono, dandoci buona speranza che presto il reverendo sarebbe lasciato in libertà. La cosa veramente non fu così breve, perché durò 17 giorni; comunque grazie a Dio, finì bene e Dio, che sa ricavare il bene dal male, da questa circostanza ne ricavò un po’ anche per noi!.
Inoltre, per suffragare ulteriormente quando andiamo dicendo, basta rileggere quanto scriveva, con dovizia di particolari, in una relazione inviata al card. Fossati, la superiora della sezione femminile del carcere torinese Le Nuove, suor Giuseppina De Muro che dimostra, al di là di ogni dubbio, come il prelato fosse costantemente informato della sorte degli ebrei nella sua diocesi.
«In un mattino piovoso arriva un tedesco con l’ordine di prelevare urgentemente 15 detenute: intima l’apertura delle loro celle, rivoltella in pugno. Le riunisce e le spinge, così impreparate e nello stato in cui si trovavano, su di un autocarro che le aspetta sotto la pioggia. Sono dirette alla Caserma, Nizza Cavalleria per essere inviate in Germania come “Volontarie” lavoratrici! Senza porre indugio, faccio raccogliere le loro povere robe, vi aggiungo provviste di vestiario e di alimenti e con un’automobile di persona amica, accorro con alcune mie Consorelle alla Caserma dove possiamo distribuire ogni cosa alle poverette che ci abbracciano e ci benedicono, riconfortate, purtroppo avviate ad un dolorosissimo destino!»
Con il precipitare degli eventi, infatti, anche la curia torinese – sotto la sapiente guida del card. Maurilio Fossati – corse immediatamente ai ripari per cercare di aiutare anche gli ebrei a sfuggire alla deportazione allestendo una ramificata rete clandestina di assistenza che permise di nascondere, all’interno dei vari conventi e istituti religiosi della diocesi, tutti coloro che erano ferocemente braccati dalla Gestapo. Il pericolo, tuttavia, era sempre in agguato perché i nazifascisti si avvalevano spesso di spie e delatori per scovare gli ebrei. Così, quando qualcuno veniva acciuffato e finiva nel famigerato primo braccio a Le Nuove, ci pensava suor Giuseppina, d’intesa con l’arcivescovo di Torino, ad escogitare qualche sottile stratagemma per salvarli perché, come era solita ripetere «la Carità non può sopportare con indifferenza i loro patimenti».
È il caso del piccolo ebreo Massimo Foa di appena nove mesi che, dopo essere stato arrestato a Canischio, nei presi di Cuorgnè, dai militi della Xa MAS, il 9 agosto del 1944, insieme ai suoi genitori Guido ed Elena Recanati, era finito in cella con la madre. Qui, dopo otto giorni di reclusione, sr. Giuseppina riuscì a farlo uscire di nascosto dalla prigione, avvolto in un fagotto di biancheria sporca delle detenute che veniva consegnata ad alcune lavandaie esterne, tra le quali c’era una signora di Cuorgnè, Clotilde Roda Boggio, alla quale fu affidato su espressa richiesta della madre.
«Le donne che hanno maggiormente bisogno e che sento degne di aiuto e particolare comprensione sono le israelite, le più maltrattate – scriveva sr. Giuseppina nella sua relazione il 22 febbraio del 1946 –. Ne ho conosciute 138, prive di tutto, ho conosciuto persino una mamma di 89 anni…»
Tra i tanti episodi che vide protagonista l’audace suora vincenziana merita di essere annoverato anche quello che riguardò la salvezza del famoso violinista ebreoMario Zargani e di sua moglie Eugenia Tedeschi, caduti in un’imboscata in seguito ad una spregevole delazione e reclusi nel penitenziario torinese. I loro due figli, invece, riuscirono rocambolescamente a sfuggire all’arresto perché, fin dal 1° dicembre del 1943, erano stati affidati dal padre al card. Fossati il quale subito li aveva messi al sicuro, lontano da occhi indiscreti, nel collegio salesiano di Cavaglià, dove giunsero in treno accompagnati da don Baraleche li consegnò al Rettore don Vittorio Cavasin il quale, per prudenza, li registrò col nome di Roberti. Quando i due poliziotti che stavano conducendo i genitori dalla questura a Le Nuove, riconobbero il padre cercarono di rassicurarlo dicendogli:
Speriamo che ci sia una persona. Perché se c’è forse potrete essere salvi». La loro speranza non andò delusa tant’è che, appena entrati nell’ufficio matricole, il poliziotto subito si accostò a sr. Giuseppina sussurrandole qualcosa all’orecchio. Senza alcun indugio la religiosa si fece largo tra i numerosi ufficiali presenti e, con fermezza, esclamò:«Datemi pure quella donna, è di quelle solite… Anche quell’uomo è il solito delinquente che si fa prendere in tutti i momenti!
In tal modo riuscì ad evitare che fossero assegnati al primo braccio.
Ebbi più volte notizie del pericolo che io correvo dai miei stessi Superiori che mi riferirono parole significative e mi misero in guardia – scrive sul filo della memoria la religiosa –: vidi farsi a più riprese più intensa la vigilanza attorno a me. […] “La mia vita è votata alla carità – concludeva risolutamente – e come dunque potrei rimanere insensibile alle sofferenze dei detenuti, alle lacrime amarissime dei parenti?
Dopo un po’ l’astuta suora vincenziana, d’intesa con il card. Fossati, riuscì perfino ad ottenere dal comandante del servizio di Polizia di Sicurezza Tedesca Sipo-SD, il capitano Alois Schmidt, che i partigiani e gli ebrei in precarie condizioni di salute, fossero ricoverati in ospedale per essere curati. Tra i primi ad usufruire di questa concessione furono proprio i coniugi Zargani. A quel punto scattò la seconda fase del piano. Appena venne a sapere che dovevano essere sottoposti ad una visita medica, sr. Giuseppina procurò a Mario Zargani la radiografia di un uomo appena deceduto di tubercolosi. Quando il medico si ritrovò fra le mani quella lastra che segnalava la malattia ad uno stadio avanzato, ritenendo che ormai gli restava poco da vivere, dispose che non fosse incluso nella lista dei deportati.
Per la moglie, invece, riuscì a coinvolgere le detenute. Una sera lasciò, insolitamente, le celle aperte in modo tale che tutte potessero darsi da fare per ricercare i mozziconi di sigarette, dai quali ricavarono del tabacco che fecero ingoiare alla donna accompagnato da un buon bicchiere di liquore. Così, quando il medico la visitò, il cuore le andava talmente su di giri, che dispose anche per lei il ricovero presso l’Ospedale San Giovanni Vecchio. Durante il viaggio, due poliziotti, istruiti a dovere da sr. Giuseppina, con una scusa si allontanarono consentendo ai due coniugi ebrei di darsela a gambe levate. Poi, grazie all’aiuto del direttore della filarmonica di Torino, Massimo Bruni, che aveva rapporti con i partigiani del Biellese, giunsero a Bioglio dove furono ospitati nell’Istituto delle Suore del Cottolengo fino alla Liberazione.
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