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Quella notte di terrore nell’Abbazia di San Paolo fuori le Mura

Il blitz all’interno della Basilica di San Paolo fuori le Mura perpetrato, tra il 3 e il 4 febbraio 1944, dal reparto speciale di Polizia della RSI, diretto dal famigerato tenente Pietro Koch, con la complicità di un centinaio di uomini messi a sua disposizione dal nuovo questore di Roma Pietro Caruso. A finire nelle grinfie dei fascisti furono anche nove ebrei, tra cui i fratelli Arturo e Umberto Soliani che neanche la tessera rilasciata loro dall’Osservatore Romano riuscì a salvarli.

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Dopo aver portato a termine con successo il blitz all’interno del complesso extraterritoriale di Santa Maria Maggiore, tra il 3 e il 4 febbraio 1944, con il favore delle tenebre, il reparto speciale di Polizia della RSI, diretto dal famigerato tenente Pietro Koch, con la complicità di un centinaio di uomini messi a sua disposizione dal nuovo questore di Roma Pietro Caruso, senza il benché minimo rispetto degli accordi sanciti nel Trattato lateranense, fecero improvvisamente irruzione anche nell’abbazia benedettina di S. Paolo fuori le mura.

Abbazia S. Paolo fuori le Mura all’arrivo degli Alleati

Autentico deus ex machina di quest’operazione fu anche un ex giovane frate vallombrosano, che da poco era stato sospeso a divinis proprio per aver aderito alla banda Koch, il ventottenne don Ildefonso Troya – meglio noto negli ambienti spionistici dell’epoca anche con lo pseudonimo di Elio Desi – il quale, con una sottile astuzia, aveva adescato in una trappola l’ignaro portinaio, fra Vittorino che, dopo qualche istante di esitazione, cedendo alle sue insistenze, aveva aperto il portone d’ingresso centrale dell’abbazia. Ma ecco come viene descritta, con dovizia di particolari, questa irruzione dal cronista del monastero camaldolese di “S. Gregorio al Celio”:

Il famigerato questore di Roma Caruso con una banda di bravacci […] riesce a varcare la soglia del monastero e vi mette per una nottata il regno del terrore. Tagliati i fili telefonici e ogni comunicazione coll’esterno tiene con i fucili mitragliatori puntati sul petto per 12 ore tutti i monaci rinchiusi in una sala mentre si cerca e si rovista in ogni parte. I monaci sono nel modo più indegno insultati e il monastero è da questi ufficiali dell’ordine saccheggiato. Una sessantina di rifugiati sono tratti in arresto, ebrei, soldati, ufficiali tra i quali il generale Monti che volevano. Tutti i giornali ne parlano e ne sparlano a lungo narrando gesta e fatti, travisando il vero. Si grida contro la S. Sede che ospita in case extraterritoriali e religiose uomini e cose sottratte al saccheggio tedesco. 

Ten. Maurizio Giglio

In un batter d’occhio gli sgherri di Koch, s’intrufolarono nel monastero mettendo letteralmente a soqquadro tutte le celle dei monaci e gli appartamenti dei novizi. Poi, sotto la minaccia delle armi, trassero in arresto ben 67 persone, per la maggior parte renitenti alla leva e finanche 9 ebrei giunti alla spicciolata sin dal giorno dell’armistizio, tra cui spiccava il generale Adriano Monti, sorpreso in abito talare e immortalato perfino in una foto scattata dai fascisti con una piccola macchina fotografica sequestrata all’agente di collegamento dell’OSS, il Tenente ausiliario Maurizio Giglio, infiltrato nella divisione Speciale di Polizia. La stampa fascista non si lasciò sfuggire la ghiotta occasione di utilizzare propagandisticamente questa foto, per sferrare un duro attacco alla S. Sede rivolgendo frasi ingiuriose perfino nei confronti di Pio XII, apostrofato con epiteti poco lusinghieri perché, a loro avviso, permettendo «queste cose si rende[va] traditore».

Arturo Soliani

A finire nelle grinfie dei fascisti furono anche nove ebrei, tra cui i fratelli Arturo (nato a Lugano, in Svizzera, il 9 luglio del 1912)e Umberto Soliani (nato a Lugano il 7 febbraio 1916) che, sorpresi nel sonno nella loro cella, tentarono invano di divincolarsi, ma durante la colluttazione furono brutalmente malmenati dagli scherani di Koch, al punto che il giorno successivo, quando i familiari ricevettero i loro indumenti notarono che il pigiama era intriso di sangue. Appena l’Italia era entrata in guerra, i Soliani si erano precipitosamente trasferiti nella capitale insieme ai loro bambini – Alessandro di 4 anni e Angelo di uno – e alle consorti Lina ed Elvira Terracina, perché braccati dal crudele questore di Brescia Manlio Candrilli, che si era messo sulle loro tracce fin da quando avevano aperto nel bresciano a Gardone Riviera un negozio di bigiotteria, pelletterie e oggetti da regalo denominato “Alla bomboniera”. In questa località, infatti, si erano stabiliti fin dal 1938, quando entrarono in vigore le vituperanti leggi razziali, prendendo un appartamento, rispettivamente, in Corso Zanardelli 7 e in corso Vittorio Emanuele II 51 (ora corso della Repubblica 57). Difatti, prima di trasferirsi nel nord Italia, nel 1938Arturo si unì in matrimonio con Lina Terracina, e dalla loro unione nacquero nel 1939 Sandro e nel 1942 Angelo.

Umberto Soliani

Il fratello Umberto, invece, si sposò nel 1940 con la sorella di Lina, Elvira Terracina, dalla quale ebbe Alessandro Massimo nel 1941 e, nel maggio 1944, proprio nel periodo più tragico della loro triste vicenda, il secondogenito Angelo che, purtroppo, non avrà la gioia di conoscere mai. Entrambi i fratelli Soliani parlavano fluentemente il tedesco ed il loro negozio era quasi esclusivamente frequentato dalla ricca clientela straniera che gravitava nei dintorni del lago di Garda. Tuttavia, con l’incedere degli eventi bellici, il 31 agosto 1943, sono costretti a chiudere i battenti ed a cedere la loro attività per far ritorno nella capitale – dove entrambe le loro mogli avevano dei parenti – con la speranza che il fronte alleato, da poco sbarcato in Sicilia, avrebbe rapidamente liberato e zone centro-meridionali che erano sotto il giogo dei nazifascisti. Appena giunsero a Roma, però, quella loro flebile speranza si affievolì definitivamente allorché l’11 settembre la città fu occupata dai tedeschi che, il 16 ottobre successivo, sferrarono un violento rastrellamento degli ebrei romani. A quel punto bisognava rapidamente correre ai ripari per sfuggire a quella barbara persecuzione, ed è proprio quello che fecero anche i fratelli Soliani.

Nel frattempo, però,  il 7 gennaio 1944, era pervenuta un’informativa della compagnia dei carabinieri di Salò con la quale si avvertiva che “gli ebrei in oggetto hanno lasciato Gardone Riviera verso la fine di luglio, a quanto pare diretti a Roma, via Galvagni 33 b”. Sarà proprio grazie a questa segnalazione che le prefetture di Roma, Milano e Como, si mettono sulle tracce dei Soliani dopo aver raccolto tutti i loro dati e perfino dove era ubicata la loro abitazione nella capitale.

Arturo ed Umberto erano riusciti a trovare ospitalità presso l’abbazia di San Paolo insieme ad ufficiali italiani fedeli al governo italiano, mentre Lina ed Elvira, con i rispettivi figli, si erano nascoste all’interno di un monastero di suore in via Merulana. Le due donne avvertivano forte il peso della responsabilità che gravava su di loro anche perchè avevano con loro tre bambini sotto i quattro anni ed Elvira era incinta di Angelo. Purtroppo ogni precauzione, alla fine, si rivelò vana; perfino una tessera rilasciata ad Arturo e a Umberto appena giunti nel cenobio benedettino dalla S. Sede, con l’emblema Vaticano, che attestava essere entrambi due giornalisti alle dipendenze de L’Osservatore Romano. Purtroppo, né questa precauzione, né l’extraterritorialità della basilica riuscirà a salvarli.

Tessera de “L’Osservatore Romano”
rilasciata ad ARTURO SOLIANI

Ma ecco come ci viene descritto il blitz nell’abbazia di San Paolo fuori le mura ad opera degli sgherri di Koch da una fonte di prima mano, l’abate Ildebrando Vannucci il quale, così scrive nella sua relazione che poi consegnerà alle autorità competenti della S. Sede il 6 febbraio successivo:

Verso mezzanotte e mezzo venni svegliato da ripetuti colpi alla porta della camera e compresi subito che qualcosa di grave succedeva in monastero. Mi vestii in fretta e, uscito sul corridoio, un converso mi avverte che erano entrati vari poliziotti per arrestare il generale Monti, zio di un nostro monaco, D. Bernardo Mollari, che da qualche mese dimorava in San Paolo […] Un gruppo di agenti aveva scavalcato il muro di cinta dell’orto, penetrando per la scala delle soffitte della Basilica, in un corridoio del monastero, sfondando una porta e minacciando con le rivoltelle in pugno i fratelli conversi che dormivano nelle loro celle […] Intanto era incominciata l’invasione del monastero e molti poliziotti bussavano violentemente alle celle dei monaci ordinando di uscire. Sono state fatte perquisizioni in varie celle […] sia abitate da monaci […], sia specialmente abitate da ospiti […] Una delle prime accuse che c’è stata fatta è stata quella di aver trovato manifesti e giornali comunisti […] nelle celle dei monaci e degli ospiti. I monaci e gli ospiti venivano costretti ad andare nei saloni della portineria. Nei saloni fu fatto l’interrogatorio degli ospiti […], i monaci furono lasciati nel primo salone e non interrogati. Mentre si faceva questo interrogatorio, continuavano queste perquisizioni in monastero […] devastando ed esportando oggetti, cibarie e biancheria. Sono poi entrati, sempre con violenza, nel salone della parrocchia, dove erano alloggiate circa una cinquantina di persone e, sparando alcuni colpi di rivoltella, hanno ingiunto con insulti e minacce di seguirli nelle sale del parlatorio […] Questi rifugiati furono schiaffeggiati, colpiti da staffilate e da calci in modo che molti sanguinavano […] Riassumendo: la polizia entrò con violenza e con inganno senza presentare nessun mandato che, del resto, non potevano avere. Furono aggrediti monaci e conversi a mano armata, mentre ancora dormivano nelle loro celle; anche i monaci furono fatti scendere in parlatorio come requisiti, gli ospiti furono trattati con violenza, con insulti e con minacce […] L’Abate, mentre sembrava che volessero usargli qualche riguardo, venne apostrofato con insulti. Le accuse non hanno alcun fondamento […] L’accusa di banda comunista non è appoggiata da nessuna prova. Gli ospiti erano o parenti di monaci o sfollati o ebrei o persone della parrocchia che si ritenevano più sicuri in monastero.

La gravità dell’accaduto, con la palese violazione del diritto di extraterritorialità sancito dai Patti lateranensi, suscitò com’è ovvio l’indignazione della S. Sede che, appena fu messa al corrente di questa triste vicenda dal parroco di “Gesù Buon Pastore”, don Pier Luigi Occelli, immediatamente elevò vibrate proteste presso le autorità competenti italiane e tedesche, non esitando a far pubblicare persino un circostanziato fondo su L’Osservatore Romano del 10 febbraio successivo, rispondendo per le rime ad un articolo apparso qualche giorno prima sul giornale fascista “La Tribuna”. Difatti la stampa fascista non aspettava altro per sferrare un duro attacco alla S. Sede come fece anche il “Piccolo” che, nell’edizione del 9-10 febbraio scriveva:

L’art. 22 del Trattato dice infatti: “La Santa Sede consegnerà allo Stato italiano le persone che si fossero rifugiate nella Città del Vaticano, imputate di atti commessi nel territorio italiano, che siano ritenuti delittuosi dalle leggi di ambedue gli Stati”… (poiché) ora le leggi italiane dichiarano gli ebrei “nemici della Patria”.

L’Osservatore Romano del 10 Febbraio 1944

La smentita dei nazisti non bastò a placare l’irritazione delle gerarchie vaticane tant’è che, il 5 febbraio successivo, tramite il nunzio a Berna mons. Bernardini, fu incaricato don Giustino Pancino di esortare Mussolini a prendere gli opportuni provvedimenti in modo da evitare il reiterarsi di questi spiacevoli inconvenienti. Difatti, la Santa Sede aveva immediatamente provveduto ad elevare una formale protesta presso le autorità competenti per l’accaduto perché,  come sottolineava L’Osservatore Romano nell’edizione del 7-8 febbraio 1944:

Nella notte tra il tre e il quattro febbraio guardie armate, qualificate come reparti della polizia repubblicana, al comando del dottor Pietro Caruso – del quale i giornali italiani pubblicarono alcuni giorni fa la nomina a Questore di Roma – penetrarono di viva forza negli edifici della Patriarcale Basilica di San Paolo, violando i diritti di extraterritorialità garantiti da solenne Trattato.

Appena Lina ed Elvira appresero ciò che era accaduto presso l’abbazia di S. Paolo, temendo per la sorte dei loro congiunti, non vollero darsi per vinte tant’è che quest’ultima, sebbene fosse agli ultimi mesi di gravidanza, sfidando il destino, tentò il tutto per tutto, recandosi personalmente, dapprima, dal direttore del carcere romano di Regina Coeli, Donato Carretta – che proprio pochi giorni prima aveva favorito l’evasione di Pertini e di Saragat –, il quale subito si mostrò indulgente, palesando la possibilità di liberare il marito ed il cognato dietro una lauta ricompensa che gli avrebbe permesso di fuggire in Svizzera lontano da occhi indiscreti per non subire la prevedibile ritorsione dei nazi-fascisti. La promessa era allettante, ma dove avrebbe potuto racimolare una cifra così ingente visto che ormai il tempo stringeva?

A quel punto non le restava altro che giocarsi l’ultima carta e rivolgersi direttamente al perfido questore Caruso. Di certo il coraggio ad Elvira non le mancava tant’è che, senza pensarci su due volte, si precipitò in questura chiedendo di essere ricevuta da un alto funzionario. Costui appena la vide, la fulminò con uno sguardo e, senza sentire ragioni, le intimò di lasciare immediatamente quel luogo altrimenti l’avrebbe fatta arrestare seduta stante perché era ebrea.

Dopodiché soggiunse, con piglio risoluto, che doveva ringraziare la creatura che portava in grembo se non aveva già dato disposizioni in tal senso. Non c’era più nulla da fare, purtroppo. Ogni strenuo tentativo per salvarli dalle grinfie dei propri aguzzini naufragò miseramente e con esso anche la speranza di poterli un giorno riabbracciare.

Difatti, insieme agli altri ebrei catturati presso la Basilica di S. Paolo, verso la metà di febbraio, furono trasferiti dapprima a Verona, poi nel campo di transito di Fossoli e da qui, il 16 maggio 1944, ad Auschwitz a bordo del convoglio n. 10 da dove non avrebbero fatto mai più ritorno.

Difatti, a distanza di molti anni, nel 1965 grazie alla Croce Rossa le rispettive consorti riusciranno a sapere con certezza quale era stato il triste destino dei loro mariti. Umberto morì il 15 marzo 1945 nel lager di Dachau, mentre per il fratello Arturo la ricostruzione della sua vicenda risulta più complessa: di certo si sa che dopo aver lasciato Auschwitz fu registrato prima a Gross Rosen e, successivamente, il 25 febbario 1945, a Flossembürg.

Tuttavia da altre fonti si è poi appreso che Arturo in seguito sarebbe stato trasferito al campo di Buchenwald e infine, il 20 marzo, a quello di Bergen-Belsen. Un destino cinico e baro, considerato che soltanto poche settimane dopo gli internati in quegli orribili lager furono liberati dagli alleati.

Il 20 gennaio 2021, nel comune di Gardone Riviera, su iniziativa promossa dalla Cooperativa Cattolico Democratica di Cultura, dall’ANED Brescia (Associazione nazionale ex deportati politici nei campi nazisti «Andrea Trebeschi»), dall’ANPI Brescia col patrocinio dell’ufficio anagrafe del comune bresciano sono state poste due pietre d’inciampo ad opera dell’artista tedesco Gunter Demnig in memoria di Arturo e Umberto Soliani.

La pietra in memoria di Umberto Soliani

Con le tre pietre d’inciampo posizionate a Gardone Riviera – hanno sottolineato i funzionari del municipio – si vuole dare conto delle vittime dei campi di sterminio, per dar loro un nome e un volto e ricomprendere il loro ricordo nel tessuto sociale nel quale hanno vissuto.

L’articolo che pubblicai su L’Osservatore Romano il 3-4 febbraio 2014

© Giovanni Preziosi, 2023

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