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RIBELLE PER AMORE

Il 17 gennaio 2016, nei pressi della casa natale di don Antonio Seghezzi, in via Luini a Premolo, il noto artista tedesco Günter Demnig collocò la sua «pietra d’inciampo» (stolpesteine), per il momento l'unica nella Bergamasca, per tributare il doveroso omaggio alla sua memoria e impedire che l’incedere del tempo possa sbiadire il ricordo dell’opera encomiabile che svolse in quegli anni oscuri della seconda guerra mondiale sostenendo chi aveva scelto di opporsi a ogni sopruso e violenza nel tentativo di riconquistare la libertà conculcata dal regime fascista. L’iniziativa che prese l’avvio nel 1993 a Colonia, si è poi progressivamente diffusa in diversi paesi europei tra cui Germania, Austria, Ungheria, Ucraina, Cecoslovacchia, Polonia, Paesi Bassi e per l’appunto anche l’Italia, e consiste essenzialmente nel collocare nel selciato dei marciapiedi antistanti l’abitazione di un deportato nei campi di sterminio nazisti o nel luogo in cui fu fatto prigioniero dei blocchi in pietra della dimensione di un sampietrino muniti di una piastra in ottone sulla quale è inciso il nome, l’anno di nascita, la data, l’eventuale luogo di deportazione e la data di morte in risposta a chi voleva ridurre soltanto a numero tutte queste vittime innocenti perché, come recita una celebre massima talmudica «un essere Umano è dimenticato solo quando lo è il suo Nome».Ripercorrere a ritroso la storia di don Antonio Seghezzi ci costringe, inevitabilmente, a fare i conti con le responsabilità del fascismo e con l’evidente complicità con il suo principale alleato teutonico nella politica di persecuzione e di sterminio. …

Il 17 gennaio 2016, nei pressi della casa natale di don Antonio Seghezzi, in via Luini a Premolo, il noto artista tedesco Günter Demnig collocò la sua «pietra d’inciampo» (stolpesteine), per il momento l’unica nella Bergamasca, per tributare il doveroso omaggio alla sua memoria e impedire che l’incedere del tempo possa sbiadire il ricordo dell’opera encomiabile che svolse in quegli anni oscuri della seconda guerra mondiale sostenendo chi aveva scelto di opporsi a ogni sopruso e violenza nel tentativo di riconquistare la libertà conculcata dal regime fascista. L’iniziativa che prese l’avvio nel 1993 a Colonia, si è poi progressivamente diffusa in diversi paesi europei tra cui Germania, Austria, Ungheria, Ucraina, Cecoslovacchia, Polonia, Paesi Bassi e per l’appunto anche l’Italia, e consiste essenzialmente nel collocare nel selciato dei marciapiedi antistanti l’abitazione di un deportato nei campi di sterminio nazisti o nel luogo in cui fu fatto prigioniero dei blocchi in pietra della dimensione di un sampietrino muniti di una piastra in ottone sulla quale è inciso il nome, l’anno di nascita, la data, l’eventuale luogo di deportazione e la data di morte in risposta a chi voleva ridurre soltanto a numero tutte queste vittime innocenti perché, come recita una celebre massima talmudica «un essere Umano è dimenticato solo quando lo è il suo Nome».

Pietra d’inciampo per don Antonio Seghezzi

Ripercorrere a ritroso la storia di don Antonio Seghezzi ci costringe, inevitabilmente, a fare i conti con le responsabilità del fascismo e con l’evidente complicità con il suo principale alleato teutonico nella politica di persecuzione e di sterminio. Antonio venne alla luce alle prime luci dell’alba del 25 agosto 1906 a Premolo, nella contrada Lulini, da Romano e Modesta Seghezzi, una dignitosa e umile famiglia di lattai. Dopo aver frequentato con profitto le scuole dell’obbligo, il 5 novembre 1917, all’età di 11 anni, entrò nel Seminario vescovile di Bergamo, dove cominciò a frequentare la II ginnasiale e, nel 1927, si laureò in Scienze sociali presso l’Istituto cattolico di Studi sociali, appena due anni prima di ricevere l’ordinazione sacerdotale nella cattedrale di Bergamo dalle mani del vescovo monsignor Luigi Maria Merelli il 23 febbraio 1929 che subito lo destinò ad Almenno S. Bartolomeo, come coadiutore del parroco don Alessio Pezzoli che era piuttosto anziano.

don Antonio Seghezzi

Qui, tuttavia, rimase soltanto due anni perché, nell’ottobre del 1932, ricevette l’incarico di insegnare materie umanistiche presso il Ginnasio del Seminario vescovile di Bergamo, dove non mancò di farsi apprezzare dai suoi colleghi e alunni per l’amabilità e la giovialità del suo carattere, tanto da meritarsi l’appellativo di don Giovialino. Appena scoppiò la guerra d’Etiopia, per assecondare le mire espansionistiche di Mussolini tali da accaparrarsi il suo diritto a un posto al sole, dall’agosto del 1935 all’ottobre del ‘32, anche don Antonio Seghezzi si ritrovò, inaspettatamente, coinvolto nella dura esperienza bellica venendo destinato, in qualità di cappellano militare col grado di tenente, presso l’ospedale da campo 430 di Massaua con il compito di assistere i militari ammalati o feriti e tutti quei lavoratori al seguito della spedizione italiana. Al suo ritorno, nel marzo del 1937, assunse ufficialmente l’incarico di assistente diocesano della Federazione giovanile dell’Azione cattolica e segretario della giunta diocesana, che ricoprirà ininterrottamente fino al giorno del suo arresto per opera della Gestapo, il 4 novembre 1943, conquistandosi la stima e l’affetto di migliaia di giovani proprio in un momento in cui i fascisti avevano scatenato una poderosa offensiva – accompagnata spesso anche da deplorevoli episodi di efferata violenza – ai danni dell’Azione cattolica, ritenuta responsabile di attuare un inquadramento dei lavoratori contrapposto a quello dei sindacati fascisti e di riciclare ai vertici del movimento i vecchi esponenti del Partito popolare, che erano sempre rimasti ostili al regime. Profondamente turbato dal modus operandi dei fascisti e dai continui soprusi perpetrati ai danni dei suoi giovani, all’indomani della capitolazione di Mussolini e della successiva proclamazione dell’armistizio, in seguito all’occupazione tedesca del capoluogo orobico, senza alcuna esitazione, insieme ad altri confratelli, appoggiò i primi nuclei di resistenza, fornendo anche la necessaria assistenza a quella torma di giovani sbandati del disciolto esercito italiano che, disobbedendo al diktat dei nazisti erano riusciti a sfuggire ai rastrellamenti e alla deportazione in Germania. Per venire incontro alle loro esigenze, anche don Antonio Seghezzi ben presto, sapendo i gravi rischi a cui andavano incontro, comprese che a quel punto la semplice assistenza spirituale e materiale auspicata dal vescovo di Bergamo monsignor Bernareggi non bastava, si rendeva necessario garantire ai giovani un appoggio concreto alla lotta agli usurpatori nazifascisti; perciò, da quel momento in poi, si adoperò in ogni modo per aiutarli sia sotto l’aspetto organizzativo – svolgendo funzioni di supporto e di collegamento in particolare con Enzo e Giacinto Gambirasio impegnati con Betty Ambiveri nella banda Decò-Canetta di Seriate – sia fornendo informazioni anche di carattere militare e indicando dei rifugi sicuri per far perdere le loro tracce.

Il vescovo di Bergamo monsignor Adriano Bernareggi

Per questo motivo si avvalse della fattiva collaborazione di altri sacerdoti e laici delle principali organizzazioni assistenziali cittadine quali il fondatore del «Patronato S. Vincenzo» don Giuseppe Vavassori, don Agostino Vismara dell’Opera Bonomelli e don Antonio Crippa, direttore dell’Oratorio dell’Immacolata, dove si stava attivando una vera e propria organizzazione resistenziale.

Don Antonio non parlò mai né incitò alla resistenza attiva – dichiarerà don Mario Benigni che fu suo compagno di prigionia in Germania –, era invece ben chiara nei suoi intenti e indirizzi semplicemente una resistenza passiva, cioè consigliare e aiutare i nostri ragazzi a non presentarsi agli appelli e sfuggire alle ricerche naziste organizzando punti di riferimento e centri di raccolta ov’era possibile

Difatti, fin dal 17 settembre 1943, insieme al giovane curato di Palazzago, don Mario Benigni, di sentimenti apertamente antifascisti tanto che subito dopo la proclamazione dell’armistizio e l’occupazione nazista aveva organizzato un comitato di assistenza per agevolare la fuga in Svizzera di un gruppo di prigionieri di guerra, di fronte al grave sopruso dell’occupazione si mostrò determinato a promuovere una forma di resistenza passiva mediante l’allestimento di un’organizzazione volta ad aiutare tutti quei giovani che non intendevano sottostare al diktat dei nazisti, avendo sperimentato in prima persona fin da quando era coadiutore ad Almenno S. Bartolomeo la perfetta inconciliabilità tra i valori propugnati dal fascismo e gli ideali cristiani.

don Andrea Spada

Spesso, infatti, confidava al direttore dell’Eco di Bergamo, don Andrea Spada, mentre rincasavano al Patronato S. Vincenzo dove entrambi alloggiavano:

I miei giovani sono inseguiti sulle montagne io non posso stare che con loro. Non ho scelta. Che assistente sarei se non li assistessi in questo momento. Tu hai fatto il Cappellano militare come me, e sai che non si può stare nelle retrovie se si vuol avere il diritto di fare eventualmente il viaggio di ritorno con i propri soldati senza vergognarsi […] Non importa se i tedeschi potranno pensare che qui vi sia una centrale di smistamento, in certe ore si deve guardare solo dentro se stessi […]. Nessuna generazione è stata così tartassata, spinta sui limiti della disperazione. È l’ora in cui tutto sta perdendosi, apparentemente, ma è forse anche il momento in cui i giovani ci chiamano, noi sacerdoti, come non mai.

La situazione precipitò ulteriormente quando i nazisti, avendo cominciato a fiutare qualcosa, scoprirono l’attività clandestina di fiancheggiamento alle bande partigiane da parte di don Mario Benigni in seguito alle dichiarazioni di alcuni prigionieri di guerra serbi e inglesi catturati nel corso del rastrellamento effettuato ai Piani d’Erna il 18 ottobre 1943. Per giunta, nel corso dell’irruzione compiuta dalla polizia nazista il giorno successivo nella casa del Sacerdote, furono rinvenuti alcuni appunti compromettenti nei quali erano indicati espressamente i nomi delle persone coinvolte nella sua attività tra cui don Antonio Seghezzi, Enzo e Giacinto Gambirasio, il coadiutore di Ponte S. Pietro don Alessandro Ceresoli e Premoli, dirigente dell’industria Caproni specializzata nella produzione bellica.

Immediatamente la Gestapo si mise sulle sue tracce perquisendo da cima a fondo la sua camera del Patronato S. Vincenzo e del suo ufficio di via Paleocapa ma restò a bocca asciutta perché, evidentemente, qualcuno aveva provveduto a metterlo in guardia tant’è che era riuscito per un pelo a sfuggire all’arresto e, nascosto in un mucchio di paglia, era stato caricato su un camioncino dall’economo del Patronato, don Franco Ferrari, e condotto nell’ex-monastero benedettino di s. Paolo d’Argon, dove rimase, tuttavia, soltanto quella notte, poiché il mattino successivo si rifugiò presso il parroco di Montello, appena in tempo per sfuggire a una nuova perquisizione dei tedeschi, che avevano scoperto il suo nascondiglio. Era già tutto pronto per condurlo al sicuro in Svizzera a Mesocco presso i suoi parenti con l’ausilio di alcune guide quando, all’improvviso, sopraggiunse trafelato il coadiutore del Patronato S. Vincenzo, don Ambrogio Fiami, latore del messaggio del vescovo che implorava don Antonio di far presto ritorno a Bergamo per consegnarsi alle autorità tedesche che, altrimenti, avrebbero dato libero sfogo alla loro sete di vendetta, minacciando rappresaglie contro il clero e i dirigenti dell’Azione cattolica. Nel primo pomeriggio del 25 ottobre, infatti, era stato inviato un agente della Gestapo da Bernareggi che, in quella circostanza, annotava nel suo diario:

Mi dice che è ricercato don Seghezzi, che era scomparso appena mezz’ora prima che la polizia si recasse a ricercarlo al Patronato e in ufficio […] che non vi era nessun capo di accusa contro di lui, ma che l’autorità ha soltanto bisogno di interrogarlo su alcuni punti sui quali egli solo può rispondere, e che quindi gli si dà tempo 48 ore; l’agente guarda l’orologio e dice: sino alle 5 pomeridiane di mercoledì di presentarsi, altrimenti si sarebbero presi provvedimenti contro il clero.

Così, appena l’agente lasciò l’episcopio, come scrive egli stesso nel suo diario:

Ho mandato ad avvertire chi sapevo in rapporto con don Seghezzi perché fosse avvertito. Dissi che ritenevo suo dovere presentarsi, e meglio se addirittura nella giornata di domani. Veramente io sono stato fin dal principio del parere che fosse meglio presentarsi. La sua latitanza (diciamola così) poteva aggravare la sua posizione facendo pensare anche a ciò che non era, o a più che realmente non fosse. Poi era opportuno che egli scindesse la sua responsabilità da quella dell’Azione cattolica. D’altra parte fino a quando gli sarebbe riuscito di tenersi nascosto?

A tal proposito il rettore del Seminario bergamasco, monsignor Cesare Patelli, scriveva nel Cronicon: «Non riuscendo poi a trovare d. A. Seghezzi, [i Tedeschi] minacciano rappresaglie contro il clero; al che il Vescovo ha risposto: il clero non deve essere toccato non avendo colpe; se si vogliono fare rappresaglie, si facciano su di me».

don Giuseppe Vavassori

A quel punto a nulla valsero le pressioni esercitate nei confronti di don Antonio Seghezzi da parte dei confratelli don Giuseppe Vavassori, don Andrea Spada e Giuseppe Belotti a farlo recedere dalla decisione di consegnarsi ai tedeschi obbedendo, senza battere ciglio, alla richiesta che gli aveva rivolto il suo vescovo, nel timore che la sua fuga fosse il pretesto di rappresaglie a danno di innocenti. «Il pensiero che possa andarne di mezzo l’Azione cattolica e che magari qualche dirigente finisca a pagare per me, non mi dà pace. Farò il mio dovere», confidò in quella circostanza all’amico Belotti. Pertanto, la mattina del 27 ottobre, dopo un lungo colloquio nello studio di Bernareggi, si presentò alla polizia tedesca. Consapevole del grave rischio al quale, suo malgrado, aveva esposto il giovane Prete, il Prelato appena lo congedò costernato confidò alla suora delle Poverelle Sistina Cibien:

«Quel Sacerdote l’ho mandato a morire». In effetti il Vescovo di Bergamo, in quel momento, non si era reso conto che le minacce paventate dai nazisti erano un autentico bluff perché, come gli eventi successivi s’incaricheranno di dimostrare, non avevano a loro disposizione un numero sufficiente per poter mettere in pratica il loro piano dissennato, senza contare poi le ripercussioni negative in termini di immagine presso la popolazione che, a quel punto, di fronte allo scempio che si consumava sotto i propri occhi, certamente non sarebbe rimasta indifferente.

il Collegio Baroni

A ogni modo, dopo un estenuante interrogatorio, don Antonio fu rimesso in libertà. Appena ne fu informato Bernareggi tirò un lungo sospiro di sollievo sebbene era consapevole che la sua vicenda, purtroppo, non era affatto conclusa, considerato che per otto giorni di fila fu costretto a presentarsi, quotidianamente, alle autorità germaniche per essere sottoposto ad altri interrogatori che diventavano sempre più incalzanti presso il Collegio Baroni, un ex-pensionato di studenti requisito dai nazisti per essere adibito a carcere per gli indagati del Tribunale militare tedesco. Grazie alle prove schiaccianti raccolte dalla polizia investigativa tedesca dopo il suo fermo, infatti, pian piano, incominciò a emergere la sua complicità all’attività di fiancheggiamento alla «Resistenza» svolta insieme all’amico don Mario Benigni. La goccia che fece traboccare il vaso fu, poi, la dichiarazione resa proprio da quest’ultimo nel corso di un interrogatorio allorché affermò che:

Seghezzi mi incoraggiò ad agire perché nel bergamasco si erano formati già diversi gruppi di banditi ben armati. Durante la conversazione Seghezzi mi domandò se abbisognavo di denaro che io in quel caso potevo ottenere da Gambirasio a Seriate. Andai subito a Seriate e là incontrai Gambirasio Enzio [sic] che mi promise denaro e armi.

Di conseguenza anche don Antonio, la mattina del 4 novembre 1943, fu tratto in arresto definitivamente e, due giorni dopo, alle 14 in punto tradotto nelle carceri cittadine di S. Agata dove rimase fino alle 10 del 23 dicembre quando, dopo la sua condanna a cinque anni di lavoro forzato emessa dal Tribunale di Guerra del Comando militare di Bergamo, presieduto dal maggiore Körner con l’accusa di «complicità con bande armate irregolari», fu trasferito nel carcere di S. Mattia a Verona, in attesa di essere deportato in Germania il 31 dicembre successivo presso il carcere bavarese di Stadelheim. Da qui, il 15 febbraio 1944, fu inviato a Kaisheim, nella periferia nord di Monaco, dove gli fu assegnato il numero 411/43 e dopo un po’ il giovane Prete bergamasco cominciò ad avvertire i primi segni del suo decadimento psico-fisico alleviati soltanto dalla presenza di don Mario Benigni dal quale era stato separato fin dall’arrivo a Monaco.

Tuttavia, appena i medici del campo constatarono un lieve miglioramento, lo inviarono a lavorare in una fabbrica di munizioni a Löpsingen, dove rimase fino al 20 giugno allorché fu di nuovo trasferito nell’infermeria di Kaisheim in seguito alla comparsa improvvisa di un attacco tubercolare, prima di essere trasferito, il 23 aprile del 1945, nel famigerato lager di Dachau. Mentre si accingeva a partire un soldato della Gestapo, avendo notato che stringeva fra le mani un rosario, glielo strappò gettandolo per terra e intimandogli di calpestarlo. Al suo rifiuto lo assegnò, per punizione, alla compagnia di disciplina composta da detenuti comuni che, istigati dalla Ss, sfogavano i loro istinti violenti con calci e pugni nei confronti dei malcapitati che, come don Antonio, avevano la sventura di finire nelle loro grinfie. Da quel momento in poi le sue già precarie condizioni di salute peggiorarono ulteriormente fino a portarlo a una morte repentina nel pomeriggio di Pentecoste, il 20 maggio 1945, in seguito a un’emottisi, proprio alla vigilia del suo rientro in Italia. Dopo varie ricerche, la salma fu recuperata nel novembre del 1952 e sepolta nel paese natale di Premolo il 7 dicembre successivo dove riposa ancora oggi.

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Premolo museo dedicato a don Antonio Seghezzi (tratto da “Antenna 2 TV”)

© Giovanni Preziosi, 2020

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