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SINDONA E IL VATICANO

Il rapporto di Michele Sindona col Vaticano fu in realtà il suo rapporto con Giovanni Battista Montini, che egli conobbe nel 1954. Nel 1960, però, Sindona negò a don Pasquale Macchi, segretario di Giovanni Battista Montini, una forte somma per l’acquisto di opere di arte moderna. Da quel momento in poi tra i due nacque e si consolidò una forte inimicizia. Fu Sindona ad aiutare Calvi a creare quella rete di consociate straniere che poi portò Calvi alla rovina. Fu Sindona a creare le basi dell’impero di Calvi e i presupposti perché diventasse direttore dell’Ambrosiano. I due crearono il Banco Ambrosiano Holding in Lussemburgo e la Cisalpine Overseas Nassau Bank delle Bahamas, che tanta parte avrebbero avuto nel futuro catastrofico della finanza italo vaticana.

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Il rapporto di Michele Sindona col Vaticano fu in realtà il suo rapporto con Giovanni Battista Montini, che egli conobbe nel 1954, quando lo aiutò a celebrare tranquillamente Messa nelle fabbriche dell’hinterland milanese, bloccando le contestazioni dei comunisti fomentati da Pietro Secchia. L’amicizia, favorita dall’Arcivescovo di Messina, si consolidò fino al 1959, grazie anche ai 2400000 dollari versati da Sindona alla Curia ambrosiana per le sue opere buone, ma non fu Montini a presentare Sindona a Massimo Spada, l’aristocratico romano Delegato dello IOR – il cui prestigio era una calamita fortissima per tanti che volevano conoscerlo – bensì monsignor Amleto Tondini, insigne latinista di Curia e cognato di una cugina del banchiere siciliano. L’incontro fu proficuo: Sindona voleva coprirsi del prestigio del Vaticano e Spada cercava qualcuno che lo aiutasse a fare dello IOR  un mediatore finanziario. Sindona conosceva Ernesto Moizzi, fondatore e proprietario della Banca Privata Finanziaria, che svolgeva attività di mediazione finanziaria su tutto il territorio nazionale per una speciale concessione del governo, nonostante le sue piccole dimensioni. Moizzi voleva vendere le sue azioni allo IOR e Spada acconsentì ad acquistarle per il 60%, lasciando il restante 40% a Sindona stesso, perché lo dividesse con Franco Marinotti, capo della maggior industria tessile italiana, la SNIA Viscosa, e alto papavero di Confindustria, così che egli portasse molti clienti alla Banca. Iniziarono così le relazioni tra Sindona e lo IOR. Sindona poi vendette metà della sua quota a Tito Carnelutti, che possedeva una quota rilevante della Finabank di Ginevra. Carnelutti tuttavia fomentò involontariamente rivalità personali tra Massimo Spada e il cardinale presidente dello IOR, Alberto Di Jorio, il quale gli ingiunse di rivendere il pacchetto della Privata Finanziaria, il cui acquisto non aveva autorizzato, e che fu acquistato proprio dalla FASCO AG di Sindona, per sollecitazione dello stesso Spada, che sperava che prima o poi l’investimento potesse essere rifatto. Spada rimase nel CdA della Privata Finanziaria e Marinotti rimase in società con lui.

Nel 1960, tuttavia, Sindona negò a don Pasquale Macchi, segretario di Giovanni Battista Montini, una forte somma per l’acquisto di opere di arte moderna. Tra i due nacque e si consolidò una forte inimicizia. L’anno dopo, assieme alla Hambros Bank di Londra e alla Continental Illinois Bank, acquistò la Finabank, della quale lo IOR rimaneva socio al 30%. Nel 1963 Giovanni XXIII morì e Giovanni Battista Montini gli succedette come Paolo VI.

Paolo VI ed il segretario don Pasquale Macchi

Nella sua riforma della Curia Romana, Paolo VI aveva il progetto di coordinare tutti gli organismi economici con una sola persona. Il nome che però venne fatto, quello di Mario Brini, già membro della segreteria di Montini quando questi era Sostituto della Segreteria di Stato e poi Nunzio Apostolico in Egitto, suscitò forti resistenze nello IOR e nell’APSA, che non volevano perdere la loro indipendenza, e il Papa fece cadere sia lui che il progetto. Era il 1966. Nel 1968 Paolo VI lo realizzò creando la Prefettura degli Affari Economici della Santa Sede – ma lasciando lo IOR indipendente come richiesto da Di Jorio e dal suo collaboratore Luigi Mennini, succeduto a Spada nel 1964 – e affidandola al cardinale Egidio Vagnozzi, anch’egli diplomatico di carriera, il quale fu subito coinvolto nell’affare della Cedolare, ossia di quell’imposta sui dividendi dei titoli azionari dalla quale Mussolini, nel 1942, aveva esentato il Vaticano in Italia e che ora il Governo Leone voleva imporgli, applicandogli la legge che in materia era stata fatta nel 1963 e dalla quale, fino a quel momento, era stato esentato per sua precisa richiesta. Una nota diplomatica vaticana, firmata dal segretario di stato cardinale Amleto Cicognani, che protestava per quel progetto con il governo italiano non ebbe alcuna risposta. Vagnozzi fu mobilitato per arginare la minaccia e riuscì quasi a convincere il governo italiano a far pagare la cedolare solo allo IOR, ma la propaganda elettorale socialcomunista e la necessità, per la DC, di imbastire trattative col PSI per formare l’ennesimo esecutivo di centrosinistra sotto la guida di Aldo Moro, fece sì che Paolo VI decidesse di pagare la cedolare su tutte le partecipazioni italiane del Vaticano, di sei miliardi e mezzo, purché rateizzata.

Card. Alberto di Jorio
Aldo Moro e Pietro Nenni

Il Papa decise anche di cogliere l’occasione per dismettere gli investimenti italiani del Vaticano e dislocarli in Stati esteri che garantivano la completa esenzione fiscale al patrimonio degli enti religiosi e culturali. Questa decisione venne rafforzata dalla notizia che, nel 1967, il pacchetto di controllo della società Molini e Pastificio Generale di Pantanella, appartenente alla Santa Sede, aveva perso un miliardo e settecento milioni, tanto che, non appena il titolo risalì un poco, essa decise di venderla ad un prezzo simbolico, nell’aprile del 1970. Anche la Ceramica Pozzi, appartenente al Vaticano, al 31 dicembre 1968, aveva accumulato 6 miliardi e 856 milioni di perdite. Tutte queste società, collegate alla Società Generale Immobiliare, anch’essa appartenente al Vaticano per il 30%, andavano dismesse assieme ad essa e alla Società Condotte d’Acqua, anche perché le richieste gestionali dei laici che lo rappresentavano nei CdA non potevano essere eseguite e i rischi delle lotte sindacali sotto le finestre di Piazza San Pietro erano troppo alti. Le richieste di aumento di capitale della SGI erano sempre onerose per il Vaticano, nonostante essa fosse il più grande polo immobiliare europeo. L’incarico venne affidato a monsignor Sergio Guerri, segretario della Seconda Sezione dell’APSA, appunto quella per i beni mobili, il quale chiese consiglio a Massimo Spada, sebbene in pensione. Questi si rivolse a diversi imprenditori e finanzieri, che gli risposero picche. A quel punto, pensò a Michele Sindona, padrone della Privata Finanziaria, della Finabank e di una quota modesta dell’Immobiliare delle Assicurazioni Generali.

Michele Sindona

Anche un mediatore di monsignor Giovanni Benelli, sostituto della Segreteria di Stato, si rivolse a Sindona, il quale si dimostrò disponibile. Nella primavera del 1969 Sindona concluse l’accordo in casa di Spada, ma senza avvalersi della sua mediazione. Il Siciliano fece all’inizio la richiesta di un aumento di capitale della SGI e delle Condotte d’Acqua per 100 miliardi e di  un prestito bancario di altrettanti, ma Guerri ammise che il Vaticano non ne aveva la possibilità. Convintosi che i vantaggi dell’affare con la Santa Sede si sarebbero visti in seguito, come diceva Massimo Spada, Michele Sindona alla fine concluse la trattativa: comprava le quote vaticane dell’Immobiliare e delle Smalterie Genovesi a 600 lire l’una, rateizzando il pagamento in due anni; acquisiva le azioni della Ceramica Pozzi al costo di una lira l’una ottenendo l’opzione per l’acquisto di quelle della Società Condotte d’Acqua. Avrebbe poi fuso la Pozzi con le Smalterie. Nell’affare Sindona coinvolse anche la Hambros Bank, nella cui sede londinese si era appositamente recato con JohnMcCaffery e con lo stesso Massimo Spada, per incontrarvi il presidente Jocelyn O. Hambro, che si lasciò persuadere dai vantaggi futuri dell’accordo con la Santa Sede. La Hambros e Sindona presero per sé le Condotte d’Acqua e il 95% della quota di controllo della SGI. L’alta finanza inglese entrava in affari col Papa e lo arruolava nel capitalismo anticomunista. La Distributor Holding SA, una società per azioni lussemburghese appartenente per metà a Sindona e per metà alla Hambros, fece la transazione per 50 milioni di dollari. Pochi sapevano chi c’era dietro la Hambros, ma tra costoro vi  era Enrico Cuccia, che per il momento non poteva fare nulla per impedire la penetrazione anglosassone in Italia mediante Sindona e il Vaticano.

Mons. Benelli con Paolo VI

Tuttavia i dirigenti delle società e i rappresentanti vaticani nei CdA protestarono energicamente per le decisioni prese senza consultarli e criticarono Sergio Guerri. L’inchiesta sul valore di mercato delle imprese messe in vendita che fu realizzata per l’occasione persuase monsignor Benelli a stoppare tutto. Fu Eugenio Cefis, presidente dell’ENI e amico di Benelli, ad allertarlo, su consiglio di Cuccia. Cefis fu talmente persuasivo che Benelli dimenticò di aver precedentemente approvato e siglato l’accordo con Sindona, del quale temeva improvvisamente l’insolvenza. Aveva forse sospetti politici? In ogni caso Sindona fu avvisato che avrebbe trattato nuovamente con monsignor Giuseppe Caprio, anch’egli proveniente dalla diplomazia e ora nuovo Segretario della Seconda Sezione dell’APSA, visto che Guerri era diventato Cardinale e Presidente del Governatorato dello Stato della Città del Vaticano. Benelli non voleva più eliminare tutte le partecipazioni, ma solo quelle in perdita, tanto quanto però Sindona mirava alle aziende sane e non alle malate. Egli mirava a fondere l’Immobiliare con la Società dei Beni Stabili, per poi rivenderla agli americani della Equity Found di Los Angeles nel 1971, e voleva le Condotte d’Acqua. Caprio gli obiettò che i prezzi pattuiti non corrispondevano al valore di mercato. Sindona gli rinfacciò la falsificazione dei bilanci, avvenuta alle spalle dell’APSA, da parte dei CdA delle aziende in vendita.

monsignor Giuseppe Caprio

Il Papa in persona seguiva la trattativa. A lui Vagnozzi aveva detto che il prezzo pattuito con Sindona non era conveniente e che il pagamento in due anni non dava garanzie. Erano gli stessi timori di Caprio. Sindona allora avvicinò Paul Marcinkus, che dal 1968 era diventato Segretario dello IOR e che, tramite monsignor Pasquale Macchi, segretario di Paolo VI, poteva influire su di lui. I due si erano conosciuti quando lo IOR aveva acquistato la quota di minoranza che la famiglia Feltrinelli aveva nella Banca Unione. Marcinkus cercò di far incontrare Sindona con Paolo VI, ma il leggendario incontro notturno tra i due, raccontato dalla stampa anglosassone, non avvenne mai, perché monsignor Benelli lo impedì. Fu lui infatti a condurre le trattative, anche se nel corso del colloquio Benelli accompagnò Sindona da Paolo VI. Le azioni dell’Immobiliare e delle Condotte d’Acqua vennero vendute al prezzo pattuito, anche se il Vaticano tenne per sé l’1% delle quote. La Pozzi e le Smalterie Genovesi sarebbero state anch’esse vendute a Sindona al prezzo pattuito. Il Banchiere mantenne i suoi impegni e pagò regolarmente le rate dal 1969 al 1972, rifiutandosi alla fine di pagare solo i titoli della Pozzi, che erano precipitate al valore complessivo di 32 milioni. Caprio registrò così una perdita di 17 miliardi che però compensò con nuovi investimenti all’estero.

Sindona e Roberto Calvi

Fu sempre nel 1969 che Giuliano Magnoni, consuocero di Sindona, gli presentò Roberto Calvi, allora funzionario del Banco Ambrosiano. Questi chiese a sua volta di essere presentato a Massimo Spada, al quale Sindona prospettò i vantaggi di una alleanza col Banco Ambrosiano. Fu Sindona ad aiutare Calvi a creare quella rete di consociate straniere che impressionò tanto Alexander Alexevitch Soldatov, gran maestro del terrorismo internazionale e spia di altissimo livello del KGB in Italia e Inghilterra, tanto da farlo confidare con Licio Gelli, che gli garantì che mai esse sarebbero state usate contro l’URSS. Quella rete di consociate che poi portò Calvi alla rovina. Fu Sindona a creare le basi dell’impero di Calvi e i presupposti perché diventasse direttore dell’Ambrosiano. I due crearono il Banco Ambrosiano Holding in Lussemburgo e la Cisalpine Overseas Nassau Bank delle Bahamas, che tanta parte avrebbero avuto nel futuro catastrofico della finanza italo vaticana.

In quanto alla SGI in mani sindoniane, trasformata in società per azioni, nel 1970 si fuse con la consociata canadese della Gulf & Western, per cui il suo presidente Charlie Bludhorn, ebreo, entrò nel CdA, non senza essere stato presentato da Sindona stesso a Giuseppe Caprio, che così entrava in relazione anche con la finanza ebraica. In un secondo momento ricomprò le azioni della SGI in quota alla Gulf & Western, in piena crisi di liquidità, e rilevò anche le quote della Hambros Bank. In quanto alle Condotte d’Acqua, coinvolte in un sistema tangentizio che Sindona non voleva sovvenzionare, dovevano essere vendute, dopo una buona ricapitalizzazione mediante appalti in Iran con lo Shah, all’impresa britannica di costruzioni di Taylor Woodrow, presentato al banchiere da Jocelyn Hambro. Tuttavia Raffaele Mattioli, presidente della COMIT, rivelò a Sindona che la società in vendita era esposta con le banche dell’IRI, le quali reclamavano l’acquisto a un prezzo inferiore a quello offerto da Woodrow. La Hambros Bank dovette accettare di essere estromessa e anche Sindona si piegò. La COMIT, tramite l’amministratore delegato Carlo Bombieri, creò una cordata che acquistò le Condotte d’Acqua. Fu così che la penetrazione del grande capitale britannico in Italia venne arginata da un composito schieramento politico economico che voleva salvaguardare il sistema misto tipico del nostro paese. Era lo stesso schieramento che aveva impedito, contestualmente, a Sindona di diventare il dominus della finanza italiana, deludendo le attese riposte in lui dal capitalismo d’Oltremanica, che da quel momento lo abbandonò. Ciò avrebbe implicato il declino di Sindona, anche se non prestissimo, e una ricaduta sul Vaticano.

Paul Casimir Marcinkus (Cicero, 15 gennaio 1922 – Sun City, 20 febbraio 2006)

Tornando alle trattative con quest’ultimo, Sindona, che di fatto aveva avuto tutto quel che voleva, intensificò le relazioni con Marcinkus, diventato nel 1971 Presidente dello IOR, per i buoni uffici di monsignor Macchi che, in effetti, gli avevano accompagnato tutta la carriera. Marcinkus si fece presentare a Sindona da Mark Antinucci, un uomo d’affari americano che viveva a Roma, perché non voleva avere più relazione con lui solo tramite Massimo Spada, Luigi Mennini e Pellegrino de Strobel, ispettore dello IOR  e membro del comitato direttivo della Finabank. Il neo Presidente ebbe presto bisogno dell’aiuto di Sindona, perché aveva affidato parte del denaro della sua banca ad un agente di cambio californiano che aveva commesso parecchie illegalità. Sindona lo mise in contatto con la Continental Illinois Bank e lo ammonì dal continuare operazioni spericolate di esportazioni illegali di capitali, specie dopo l’inasprimento della legge italiana, ma Marcinkus non gli diede molta retta Marcinkus e Luigi Mennini, stimato da Sindona, vennero poi coinvolti dal carisma del Siciliano e dagli alti profitti fatti negoziando titoli su mercati esteri grazie a lui, almeno stando a quanto disse il cardinale Vagnozzi. Tramite la Finabank, la Franklin Bank e la Banca Unione, Sindona movimentò i capitali dello IOR, della COMIT e del Credito Italiano. Tuttavia in quegli anni l’impero sindoniano franò su se stesso per i crack della Franklin Bank e della Privata Finanziaria nel 1974. Lo tsunami, sulla cui origine mi sono dilungato precedentemente su queste colonne, raggiunse tutti i nemici dell’URSS, che probabilmente lo aveva provocato e che ora lo usava a scopi propagandistici anticattolici: Nixon, Andreotti e il Vaticano, il quale si affannò a puntualizzare di aver subito solo minime perdite per la partecipazione del 5% nel patrimonio azionario della Banca Unione – confluita nella Privata Finanziaria – e per quella minoritaria nella Finambro, anch’essa messa in liquidazione. In realtà, la Santa Sede corse un rischio maggiore quando, nel 1975, William Lynch, del Dipartimento di Giustizia, incaricato della lotta alla criminalità organizzata, assieme a due funzionari dell’FBI, avvisò personalmente monsignor Benelli che Sindona e lo IOR erano complici nella vendita di falsi titoli. Marcinkus aveva comprato 1500000 di dollari di falsi titoli, pari alla loro metà, e la Handels Bank di Zurigo e il Banco di Roma avevano svolto la funzione intermediatrice, smascherata dalla Banker Association di New York. L’affare era iniziato due anni prima con il finanziere austriaco Leopold Liedl, che aveva coinvolto l’ex Re del Burundi e che era arrivato, tramite Mario Foligni e Carlo Pesenti, a Michele Sindona, oramai prossimo alla canna del gas. Marcinkus negò tutto, mentre il Vaticano ancora non aveva in mano il dossier che poteva smentirlo.

Marcinkus rimase così al suo posto, mentre Sindona, arrestato nel 1976, rimase negli USA fino al 1984, quando l’omicidio dell’avvocato Ambrosoli rese impossibile evitare l’estradizione in Italia. Lo scandalo in effetti gettò la sua ombra su Paolo VI stesso, che la stampa comunista e massonica fu concorde nell’avvicinare alla mala gestione di Sindona. Questi aveva presentato Roberto Calvi a Marcinkus già dal 1968 e il primo aveva preso il posto del Siciliano nelle grazie del Presidente dello IOR. Marcinkus e Calvi sedevano insieme nel CdA della Cisalpine Overseas Nassau Bank, mentre lo IOR aveva accresciuto la sua partecipazione azionaria nel Banco Ambrosiano, che a sua volta aveva acquistato le quote della Banca Cattolica del Veneto dalla fiduciaria vaticana ad un prezzo (60 miliardi) maggiore di quello a cui esso le aveva ricomprate ai Vescovi del Triveneto (400 milioni), dopo avergliele donate.

Umberto Ortolani

Sindona non gradì i tradimenti dei suoi vecchi protetti. Nel 1980 i capi di imputazione contro di lui in America si accrebbero e il banchiere chiese al cardinale Sergio Guerri di testimoniare a suo favore. Egli accettò di farlo, assieme a Giuseppe Caprio, anch’egli insignito della porpora da Giovanni Paolo II. Alla vigilia della deposizione, che sarebbe stata registrata in Vaticano e che sarebbe stata resa anche da Marcinkus, il Segretario di Stato Agostino Casaroli proibì ai tre prelati di renderla, avendo capito la posta in gioco politica della questione, ossia il rischio dello scandalo sul Vaticano. Sindona addebitò questa scelta all’influenza di Marcinkus su Casaroli, ma sbagliava. I due infatti erano agli antipodi politici e lo IOR già si preparava a finanziare Solidarnosc con l’aiuto dell’Ambrosiano, cosa che il Segretario di Stato non voleva affatto. Sindona aveva rancore anche verso Gelli e la P2, alla quale si era inutilmente avvicinato dal 1975, dopo i suoi due disastrosi crack. Gelli aveva ascoltato il consiglio di Sindona di penetrare finanziariamente in America Latina e, dato che il siciliano era fuori gioco, si era affidato a Calvi e a Umberto Ortolani. Fu forse grazie a Sindona che le liste della P2, presentate dai magistrati milanesi ad Arnaldo Forlani, presidente del Consiglio, arrivarono alla stampa, tramite alcuni deputati socialisti, che ruppero il riserbo che avvolgeva quei delicati documenti e segnarono la fine della Loggia gelliana ma anche il prodromo dell’attentato a Papa Wojtyła.

© Gianvito Sibilio, 2023

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