La comunità tiberina dei Fatebenefratelli nell’ora delle tenebre. La difesa degli ebrei romani.
La comunità tiberina dei Fatebenefratelli nell’ora delle tenebre. La difesa degli ebrei romani.
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S’intitola emblematicamente “Sindrome K – Il virus che salvò gli ebrei”, l’interessante documentario che andrà in onda questa sera alle ore 21.25 su Nove e Discovery+, nel quale l’ormai ottuagenario Gabriele Sonnino, rievoca – sul filo della memoria – l’episodio che salvò la vita ad almeno un centinaio di ebrei romani nascosto tra le mura dell’Ospedale Fatebenefratelli, per sfuggire ai loro aguzzini nazifascisti che, all’indomani della stipulazione dell’armistizio dell’8 settembre 1943, già imperversavano nella capitale seminando terrore e sofferenze.
Questa rocambolesca vicenda fu descritta, con dovizia di particolari, nel corso di un interessante simposio, che si svolse il 20 novembre 2019, promosso dalla Comunità religiosa San Giovanni Calabita di Roma, presso la Sala Assunta dei Fatebenefratelli, coordinato dal direttore del Polo Didattico presso l’Ospedale S. Giovanni Calibita Dora Vassallo, sul tema: “1943 – 1944. L’ultima resistenza. La comunità tiberina dei Fatebenefratelli nell’ora delle tenebre. La difesa degli ebrei romani”.
In quel drammatico autunno del ’43, all’indomani della firma dell’armistizio tra l’Italia e gli Alleati, un’encomiabile opera assistenziale a beneficio degli ebrei fu svolta anche dagli Ospedalieri di S. Giovanni di Dio[1] – meglio noti come Fatebenefratelli –, che allestirono una sofisticata rete di assistenza a beneficio di tutti coloro che erano selvaggiamente perseguitati dai nazi-fascisti e per questo costretti a passare alla clandestinità mettendosi sotto le ali protettive della Santa Sede.
In tal modo, la comunità dei Fatebenefratelli si adoperarono per sottrarre gli ebrei alla deportazione nei lager nazisti nascondendone una parte nel loro ospedale all’Isola Tiburtina, che rappresentò una vera e propria oasi di salvezza, affidandoli alle amorevoli cure dei religiosi e dei medici come il primario Giovanni Borromeo ed il suo collaboratore, il partigiano e psichiatra Adriano Ossicini. Difatti, circa 61 persone trovarono ricetto nell’ospedale all’isola Tiberina[2], come riferisce a chi scrive Fra Giuseppe Magliozzi, il quale all’epoca dei fatti qui narrati si trovava proprio nella città capitolina.
Dalla buon’anima di p. Clemente Petrillo, che era Maestro dei Novizi all’Isola Tiberina, sentii raccontare, ma non ricordo nomi, dei molti nascosti da noi come falsi pazienti, magari con ingessature fasulle. Ricordo anche l’amarezza con cui egli ci raccontava che, finita la guerra ed usciti ebrei e comunisti, nascosero dei fascisti ed un giorno si videro arrivare una squadra di perlustrazione guidata proprio da uno di quelli che era rimasto nascosto all’Isola fino alla Liberazione di Roma e per il quale evidentemente l’odio ai fascisti era più grande che la gratitudine per chi l’aveva salvato.
Ho anche sentito dire che in Israele hanno piantato un albero alla memoria dei frati dell’Isola Tiberina che aiutarono tanti ebrei a nascondersi. […]
Come piccolo ricordo finale e personale, mio padre, che era funzionario di Polizia a Roma, ci diceva che in un cassetto aveva conservato documentazione di molta gente che aveva salvato dai tedeschi, ma quando fu la Liberazione il suo Capo, prima che entrassero nel Commissariato, distrusse ogni possibile documento, anche quelli che mio padre aveva nel suo cassetto personale. Ricordo comunque che in Casa c’era un attestato degli Alleati che ringraziava mio padre per quello che aveva fatto[3].
Tutto ciò trova puntuale conferma anche dalla testimonianza di Fra Fabiano Secchi, che proprio sul finire del 1943 si apprestava ad iniziare il suo periodo di noviziato in questo ordine religioso presso l’isola Tiberina, secondo il quale:
In quei mesi vennero molti ebrei: erano uomini, per lo più adulti, di modeste condizioni economiche. Alcuni potevano essere ricoverati, finché c’era posto. Si attribuivano loro nomi di ex degenti, si procuravano le radiografie e le cartelle cliniche, per essere preparati alle ispezioni. Venivano fasciati e bendati, e si fermavano alcuni giorni, finché durava il maggior pericolo. Camuffati tra gli altri, talora andavano persino a fare la comunione. Alcuni si travestirono da frati. […]
Il padre maestro dei novizi, Clemente Petrillo, era anche consigliere provinciale e fu il diretto responsabile di tale ospitalità. Aveva varie conoscenze in Vaticano, poiché prima era stato nella farmacia vaticana. Qualche volta era un sacerdote a raccomandare degli ebrei. Molto spesso era anche la signora Lella, la sorella di Aldo Fabrizi, che aveva una pensione vicina a noi e all’ospedale degli ebrei, e conosceva il maestro[4].
Per ricordare il contributo dei Fatebenefratelli nel salvataggio di decine di ebrei durante le persecuzioni naziste, il 21 giugno 2016, l’Ospedale all’Isola Tiberina, ha ricevuto dalla Fondazione Internazionale Raoul Wallenberg il titolo di “Casa di Vita”.
Dopo i consueti saluti di benvenuto ad opera del Priore della Comunità Fatebenefratelli Isola Tiberina, Fra Angelo Lopez OH, sono intervenuti il direttore del Dipartimento Beni e Attività Culturali della Comunità Ebraica di Roma Claudio Procaccia, che ha approfondito la vicenda degli Ebrei accolti nel Fatebenefratelli nel periodo degli arresti e dei rastrellamenti; dopodiché ha preso la parola il professore di Diritto Sanitario all’Università del Sacro Cuore di Roma Pier Luigi Guiducci, che ha illustrato La testimonianza del medico ebreo dott. Vittorio Emanuele Sacerdoti (1915-2005) sulle vicende del 1943-1944 a Roma. La Prof.ssa Anna Maria Casavola, Direttore Responsabile di “Noi dei Lager” e collaboratrice del Museo Storico della Liberazione di via Tasso, invece, ha approfondito la vicenda che vide protagonisti Il Generale Roberto Lordi, il Prof. Borromeo e l’eccidio delle Fosse Ardeatine. Fra Giuseppe Magliozzi o.h., storico e medico presso l’Ospedale S. Giovanni Calibita, si è occupato della “Comunità Tiberina dei Fatebenefratelli durante l’occupazione nazista di Roma”, fornendo anche interessanti spunti di riflessione e particolari inediti. Pertanto, abbiamo ritenuto opportuno riportare qui di seguito un ampio stralcio del suo intervento.
“Al tempo della guerra un motivo è che io sono nato a Roma sonoro che non sono nato nel 1938, l’anno in cui furono varate le leggi razziali. Quando i tedeschi sono andati via io l’ho vissuto tragicamente quel momento. Ho conosciuto ben diciannove vari frati che furono testimoni oculari degli avvenimenti che si svolsero all’epoca nella comunità all’Isola Tiberina e quindi voglio raccontare qualche aneddoto che qualcuno di loro mi ha raccontato. Parliamo un po’ dei due protagonisti e dell’inventore del morbo di K che meritò una medaglia d’argento al valor militare appunto per essersi inventato questo morbo che non esisteva. Era nato a Roma nel dicembre del 1898 da una famiglia fortemente cattolica, si laureò a Roma, esercito nell’Urbe, fu meglio come suo padre, suo padre fu eletto in Parlamento nel Partito popolare fondato da don Sturzo, nel 1916 si scrisse a Medicina ma poi dovette partire soldato nella prima guerra mondiale. […]
Nel ‘38 entrata in vigore la legge razziale, negli enti pubblici non potevano lavorare gli ebrei. Allora c’era un medico ebreo che stava lavorando ad Ancona, dove il primario era il dott. Bombi, che era stato suo compagno durante la prima guerra mondiale di Borromeo, al quale si rivolse per chiedergli se poteva far qualcosa. Borromeo così lo prese tranquillamente da noi, gli diede un camice e fece il medico per tutto il tempo anche dopo che è finita la guerra. Tra l’altro mentre era al fronte, Giovanni Borromeo si meritò anche una medaglia di bronzo al valor militare. Laureatosi nel 1922, inizia la carriera ospedaliera e nel 1931 fa il concorso di primario medico negli Ospedali Riuniti, lo vince ma non gli danno l’incarico perché per diventare primario in un ospedale pubblico bisogna portare la tessera del partito fascista.
Continua a lavorare in questo ospedale e nel 1933 sembrava che fossero diventati più temperati, prova a fare il concorso, la vince, ma ugualmente alla fine se non avevi la tessera del partito non potevi fare il primario. Allora a questo punto ha cercato altre soluzioni e siccome nel frattempo era stato bandito un concorso per il posto di primario medico in questo ospedale, allora lui decise di partecipare, lo vince il 18 marzo del ’34, e poi lì è rimasto per ventisette anni finché non lo colse la morte il 24 agosto del 1961. Si sposò il 2 dicembre del 1953 ed ebbe tre figli di cui il secondo Pietro, deceduto un paio di anni fa, ha scritto una biografia del padre in cui ci sono molti elementi utili per ricostruire quello che successe in quel periodo.
Nel frattempo prima che Borromeo arrivasse qui, l’isola Tiberina aveva avuto un profondo cambiamento strutturale degli edifici durante i quattro lunghi anni di lavoro. Dopodiché, finalmente, il 3 aprile 1934, fu inaugurato il nuovo ospedale che aveva trecentocinquanta posti letto, anche se in corsia c’era soltanto la sala Assunta che aveva quarantuno letti di medicina e poi c’erano vari servizi di radiologia, pronto soccorso, ambulatori, scuola per infermieri professionali che però in quel momento in Italia era consentita solo alle donne e noi ottenemmo dal governo che potessimo fare un corso per i religiosi che lavoravano come infermieri. […]
Il ventisette aprile del ‘34 fu approvata la nomina a primario medico del dottor Borromeo e ovviamente si l’ospedale era finito ma c’era anche da rifornirlo di attrezzature, e lui si fece molto zelante in questo, e poi si rivelò anche molto molto coscienzioso nel seguire i malati, ricercare ad arrivare ad una diagnosi, eccetera. Da noi come ho già accennato negli ospedali pubblici ci voleva la tessera del partito fascista, ma da noi ovviamente no, perché era un ospedale privato e quindi anche Borromeo si sentiva libero di esprimere le sue opinioni; tra l’altro ricordo anche le critiche ai fascisti che con arguzia medica paragonava il fascismo alle emorroidi che si gonfiano a più non posso ma per poi finire in una chiazza di feci e sangue, scusate un po’ la volgarità.
Ovviamente lui riteneva assurde le leggi razziali del ’38 e come ho già accennato ben volentieri mise a lavorare il giovane medico ebreo Vittorio Sacerdoti, che avevano cacciato dall’ospedale civile di Ancona, dove era primario il professor Bombi, ed arrivato dopo che Borromeo era diventato primario, era arrivato qui questo famoso frate polacco fra Maurizio Bialek, col quale si trovò subito d’accordo e per anni sono stati come devo dire amicissimi. Insieme hanno collaborato a organizzare un po’ sia l’ospedale sia poi tutta l’attività di assistenza ai ricercati. Fra Maurizio Bialek era arrivato all’Isola Tiberina circa un anno dopo di lui ma si son trovati subito in sintonia e questo frate rimase qui fino al 1959.
Come ho già detto Borromeo morì nel 1961.
C’era anche un altro medico che è morto da poco, credo più di due anni fa qui in ospedale, che trovò lavoro qui ma era un ricercato dalla questura in quanto ritenuto sovversivo latitante responsabile di banda armata. Il suo nome era Adriano Ossicini che ha fatto poi una carriera politica e ultimamente si è ammalato ed è venuta qui ed è deceduto proprio qui da poco a febbraio. Anche lui, come il figlio di Borromeo, ha scritto un libro che s’intitola “Un’isola sul Tevere”, in cui racconta appunto quello che successe soprattutto al momento della razzia degli ebrei portati via da Roma. Lui ne elenca nel libro per nome sessantuno, ma i conti sono difficili da fare perché chi veniva qui veniva immediatamente messo con un altro nome, con una nome finto, poi gli stampavano dei documenti falsi in modo che eventualmente potesse uscire con questo documento falso, e quindi non è tanto facile capire esattamente quanti sono stati ospitati. Comunque lui, secondo i suoi calcoli e la sua esperienza, parla di 61 ebrei. Mi diceva appunto che nel primo momento, quello che hanno fatto prima ancora che cominciasse la razzia nel ghetto, hanno cominciato a ricoverare qualcuno che si era nascosto per vari motivi: ebrei, scappati dal fronte, comunisti, ecc. ecc. Allora la prima cosa che fa cominciarono a fare, siccome c’erano varie stanze singole, misero queste persone in una stanza singola con la cartella però che non lasciavano mai nella stanza, con una diagnosi finita o gli mettevano un’ingessatura anche se non c’era la frattura.
Però voi capite che anche se il malato sta solo nella sua stanza c’era sempre un rischio che qualcuno potesse sospettare che erano delle persone nascoste, per cui ad un certo punto quando è cominciata la razzia degli ebrei, alcuni durante la razzia nella notte sono riusciti a scappare verso l’Isola Tiberina e allora Ossicini se ne è accorto e li ha fatti entrare in un ambulatorio e poi la mattinata dopo si sono messi d’accordo dove nasconderli, e allora hanno cercato soluzioni un po’ più sicure. Una sapete quale era? Qui, dove finiva a quel tempo l’altare, cioè praticamente all’altezza dove adesso sta quel cancelletto che si può entrare a parcheggiare dentro, ecco a quella altezza lì, sotto la sala Assunta, accanto all’altare, cioè dentro la sala Assunta c’era spazio non come adesso che stiamo attaccati all’altare, c’era un po’ di spazio e c’era una stanzetta per quattro letti che era veramente di isolamento. Quindi già c’era la stanza per quattro letti dell’isolamento, però, invece di metterli semplicemente lì, hanno fatto una cosa più furba. In questa stanzetta c’era una botola che andava a finire dove sotto confluiva l’acqua reflua di tutto l’edificio e si arrivava lì e c’era una specie di vasca e da lì poi finiva nel Tevere e finiva esattamente dove sta il cancelletto, ma sotto il livello dove la gente cammina sulla sponda dell’Isola, sotto c’era un tubo che portava quest’acqua nel fiume. Allora che hanno fatto, c’era questa botola, hanno lasciato appeso sopra un tappeto in modo che non si vedesse che c’era la botola sotto e fecero scendere parecchi di loro dentro dove c’era una stanza sotto praticamente, e i nostri postulanti mi hanno raccontato sia Fabiano che è già deceduto, sia Fra Bartolomeo, che il loro maestro che era padre Clemente Petrillo, li incaricava di andare ad aprire la botola per portare da mangiare a queste persone che erano nascoste lì e mi raccontavano che la rima cosa quando arrivavano gli chiedevano: “ma gli americani sono arrivati o no?”
Fra le persone che qui intorno offrivano aiuto, la Sora Lella – sorella di Aldo Fabrizi – che a quel tempo non aveva ancora il ristorante, però già cucinava in casa e poi andava vendendo e quello che gli avanzava lo davano a noi e poi gli aspiranti lo portavano a queste persone che stavano lì sotto. Insomma hanno cercato qualche posto dove nasconderli meglio, però ad un certo punto i numeri sono diventati eccessivi, soprattutto quelli che sono riusciti a scappare dopo la razzia, e allora gli è venuta in mente al dottor Borromeo, invece di avere solo quella stanza con quattro letti, prendere tutta la parte dall’altare fino alla vetrata, quindi una ventina di lamenti posti grossomodo, e con la porta chiusa che nessuna poteva entrare perché era una malattia infettiva pericolosissima, che chiamò scherzando morbo di K per alludere alle lettere iniziali del generale Kappler che era il capo dei servizi segreti delle SS e poi della Gestapo, o a Kesselring che comandava le truppe tedesche in Italia, cioè la malattia che veniva per la paura di questi. L’aveva inventata con tanti dettagli, al punto che sosteneva che il morbo di K era una malattia neurodegenerativa assai grave che conduceva in fasi successive a stati di ansia, mioclonie, disartria e talora anche alla demenza e alla morte fra atroci sofferenze. La malattia era estremamente contagiosa e non si conoscevano ancora cure efficaci, i postumi erano assai invalidanti, iniziano con stati d’ansia, spasmi, panico o aggressività, perdita di memoria, allucinazioni, forti emicranie, cioè tutto per impedire che a qualcuno venisse in mente di entrare in quelle stanze, perché i pazienti erano pericolosi e poteva accedervi soltanto quelle poche persone che il Borromeo aveva autorizzato a seguire questi finti malati.
Però, a un certo punto qualche voce era arrivata ai nazisti che c’erano delle persone nascoste in ospedale e verso la fine dell’ottobre del ’43, viene un ragazzetto che ci aiutava che lo mandava non so chi, che ci avverte: “guardate qui stanno arrivando i nazisti a cercare i finti malati in ospedale con due camion dei tedeschi. Difatti, dopo un po’, arrivarono questi camion, bloccano i ponti, mettono dei soldati di guardia lungo il lungotevere e poi cominciano a girare l’ospedale. Come entrano nell’ospedale Borromeo era fluentissimo in tedesco, quindi si è presentato, ha cominciato a parlare con un ufficiale medico tedesco, ma giovane ed inesperto, e lui lo riempie di chiacchiere gli vedere tutti i malati e quando arriva a questa sala questi così impauriti sono rimasti tutti dietro la vetrata solo l’ufficiale medico a tre passi di distanza dietro a lui esclamò: “quando stanno per morire hanno uno sguardo da pazzi”.
Nel frattempo aveva fatto avvertire i “falsi malati” di non proferire alcuna parola ma soltanto di tossire in modo tale da incutere timore del contagio. Questo sotterfugio sortì gli effetti sperati perché i tedeschi ci cascarono, alzarono i tacchi e andarono via.
Il celebre generale Roberto Lordi, martire delle Fosse Ardeatine, arrestato dai tedeschi il 17 gennaio 1944, dopo essersi presentato spontaneamente alle carceri di via Tasso, con l’amico Sabato Martelli Castaldi, per scagionare il proprietario del polverificio accusato dai tedeschi di aver fiancheggiato i partigiani, chiese di installare qui una radio trasmittente e se ne incaricò l’allora economo polacco Fra Maurizio Bialek. La misero su in alto dove c’era il noviziato, dove normalmente non entrava nessuno. La misero lassù collegata ai tubi del termosifone che gli facevano da antenna; senonché si sono accorti che c’era Radio Bari che trasmetteva notizie e allora vennero da noi per trovare questa radio.
La prima cosa che fanno salgono in ufficio dov’era il priore e chiedono al priore. Questi, di solito, stava quasi sempre a villa San Pietro perché a quel tempo si trovava con difficoltà cibo a Roma. Noi avevamo comprato una proprietà a Vito San Pietro, ma ancora non avevamo costruito l’ospedale che c’è oggi, e però era una specie di orto. Lui andava lì la mattina con un carrettino a raccogliere un po’ di frutta, un po’ di roba per l’ospedale.
Però loro sicuramente avevano anche sentito parlare di Fra Maurizio che stava nell’ufficio accanto perché lui era l’economo non il priore, vede questi che arrivano e sussurra “qui non c’è il priore. Adesso corro subito a chiamarlo”. In un batter d’occhi è sparito e si reca su da un uno che aiutava questi operai dell’ospedale che si chiamava Scarabotti, chiedendogli di nasconderlo. E questi lo nasconde così bene perché c’era un armadietto a muro piccolo e Scarabotti lo fa sedere lì dentro con uno sgabellino che adoperava un anziano di quel tempo. Lo fa entrare in questo armadietto a muro e chiude la porta e d’avanti ci mette l’armadio per cui uno non si rendeva conto che dietro quell’armadio ci poteva essere un armadio a muro. Quindi lui restò tranquillino lì dentro ma prima di andare lì aveva avvertito padre Clemente, che era maestro dei novizi, di gettare via la radio. Così Clemente ha preso la radio e lì c’era un terrazzo che era prospiciente al Tevere, l’ha fatto a pezzi e ha buttato questi pezzi nel Tevere. Questo successe a fine maggio del 1944”.
Note
[1] Cfr. M. Marchione, Pio XII e gli ebrei, Piemme, Casale Monferrato 2002, pp. 151-152; S. Zuccotti, Il Vaticano e l’Olocausto in Italia, titolo originale: Under his very windows: the Vatican and the Holocaust in Italy, trad. di Vittoria Lo Faro, B. Mondadori, Milano 2001,p.217.
[2] Cfr. M. Marchione, Pio XII e gli ebrei, Piemme, Casale Monferrato 2002, pp. 151-152; S. Zuccotti, Il Vaticano e l’Olocausto in Italia, titolo originale: Under his very windows: the Vatican and the Holocaust in Italy, trad. di Vittoria Lo Faro, B. Mondadori, Milano 2001,p.217.
[3] Testimonianza rilasciata all’autore da fr. Giuseppe Magliozzi in data 13 ottobre 2004.
[4] Testimonianza di fra Fabiano Secchi, citata in G. Loparco, Gli Ebrei negli istituti religiosi a Roma (1943-1944) dall’arrivo alla partenza, cit., pp. 207-208.
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