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«UN CASO DEGNO DEL VOSTRO AUTOREVOLE INTERESSAMENTO»

Due lettere inedite di Giovanni Palatucci, il questore di Fiume che salvò molte famiglie ebree. In almeno due circostanze, per la precisione il 18 ed il 29 marzo 1941, il giovane funzionario si rivolse in Vaticano a monsignor Angelo Dell’Acqua per “raccomandare” due fiumani di origine ebraica.

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Articolo pubblicato su “L’Osservatore Romano, giovedì 22 febbraio 2024 pag. 9
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Ricerca storica a cura di Giovanni Preziosi

Sono trascorsi ormai settantanove anni da quel triste 10 febbraio allorché, dopo essere stato arrestato dalla Gestapo nel suo appartamento di via Pomerio, si spegneva ad appena 35 anni nel campo di concentramento di Dachau l’ex questore reggente di Fiume Giovanni Palatucci. Si sarebbe potuto salvare se solo avesse ceduto alle forti pressioni esercitate nei suoi confronti da alcuni amici, ma non lo fece perché, come scriveva egli stesso ai genitori l’8 ottobre 1941 aveva ancora la «possibilità di fare un po’ di bene», rappresentando, evidentemente, in quel momento l’unica ancora di salvezza per tanti perseguitati.

La grande rete di Fiume in L’Osservatore Romano, CLIII n. 177, 3 agosto 2013, pag. 5

Alcuni anni orsono, infatti, vi raccontammo da queste pagine in un articolo dal titolo La grande rete di Fiume” (L’Osservatore Romano, CLIII n. 177, 3 agosto 2013, pag. 5) di quella che a pieno titolo può essere definita una vera e propria rete di salvataggio messa in piedi in quegli anni dall’allora responsabile dell’ufficio stranieri della Questura di Fiume Giovanni Palatucci con l’appoggio dello zio vescovo di Campagna, un paesino arroccato del Salernitano alle pendici dei monti che circondano il golfo di Salerno dove, tra l’altro, com’è noto, a partire dal 16 giugno 1940, per volontà del regime fascista, fu allestito un campo per l’internamento civile dove furono inviati i profughi ebrei presenti sul territorio italiano appena Mussolini ruppe ogni indugio e decise di entrare in guerra al fianco dei paesi dell’Asse.

Dopo l’apertura degli Archivi vaticani, compulsando attentamente i 170 fascicoli sugli “Ebrei” della Sezione per i Rapporti con gli Stati e le Organizzazioni Internazionali sul pontificato di Pio XII, sono riaffiorate due lettere scritte di proprio pugno dallo stesso poliziotto di origini irpine e numerose altre dello zio vescovo, mons. Giuseppe Maria Palatucci, per sbrogliare alcune situazioni delicate e mettere in salvo varie famiglie ebree braccate dai nazifascisti che confermano – al di là di ogni ragionevole dubbio – quanto scrivevamo nell’estate del 2013 e cioè la piena sinergia tra i due nell’allestimento di una vera e propria rete di salvataggio. Difatti, appena le necessità lo richiedevano, subito scattava questa catena di solidarietà grazie all’intervento di alcune personalità ecclesiastiche e politico-istituzionali di un certo rilievo, tra cui spiccava il direttore della seconda sezione della Divisione degli affari generali e riservati del ministero dell’Interno Epifanio Pennetta, costantemente sollecitate per rendere più umano il soggiorno degli internati oppure ottenere il rilascio di un visto o il trasferimento in altre località.

Così, in almeno due circostanze, per la precisione il 18 ed il 29 marzo 1941, il commissario Giovanni Palatucci si rivolse personalmente a Monsignor Angelo Dell’Acqua, che all’epoca era minutante alla prima Sezione degli Affari ecclesiastici straordinari della Segreteria di Stato della S. Sede, per “raccomandare” due fiumani di origine ebraica: tal Maurizio Gelles e la dottoressa Anna Herskovits.

Ma procediamo con ordine e vediamo chi erano questi due ebrei e per quali motivi il giovane poliziotto irpino decise di rivolgersi alla Segreteria di Stato della S. Sede. Sapendo da tempo che lo zio era ben introdotto all’interno dei Sacri Palazzi, per agevolare queste pratiche, il 21 febbraio aveva pensato di far precedere la sua richiesta da una lettera di mons. Palatucci al sostituto della Segreteria di Stato per Maurizio Gelles, un ebreo viennese che fin dal 1913 risiedeva ad Abbazia dove gestiva un’elegante boutique.

In seguito alla revoca prefettizia della cittadinanza italiana, all’indomani dell’entrata in guerra dell’Italia al fianco dei paesi dell’Asse, il 15 ottobre 1940, era stato costretto a chiudere i battenti e trasferirsi a Treviso perché, da un giorno all’altro, in virtù di apposite disposizioni ministeriali, lui e la sua famiglia in quanto ebrei erano diventati apolidi. Nel capoluogo trevigiano rimarrà fino al 31 maggio 1943 trovando ospitalità presso la Farmacia Milioni in Corso Vittorio Emanuele al civico 69.

Mio nipote, Dott. Giovanni Palatucci, V. Commissario di P.S. a Fiume – scriveva il presule di Campagna –, mi ha pregato di raccomandarvi una pratica a favore di una persona e ci tiene che la pratica riesca bene. E poiché potete assolutamente fidarvi di lui, vogliate accontentarlo al più presto.

Lettera di Mons. Giuseppe Maria Palatucci a Mons. Angelo Dell’Acqua, 21 febbraio 1941.

Così, il 18 marzo successivo, ormai persuaso che lo zio gli aveva spianato la strada, il nipote decise di rivolgersi personalmente a Monsignor Dell’Acqua per sottoporgli il caso pietoso della signora Cecilia Oser, coniugata dal 3 settembre 1913 con Maurizio Gelles, che risiedeva ad Abbazia in Viale Cavour al civico 145, dal quale aveva avuto tre figli: Ernesto – emigrato negli Stati Uniti prima della guerra con la moglie Charlotte Remenyi –, Alice e Roberto.

Maurizio Gelles, invece, era nato a Vienna il 28 marzo 1881 e, in seguito alla revoca prefettizia della cittadinanza italiana, all’indomani dell’emanazione delle leggi razziali ad opera del regime fascista, il 15 ottobre 1940, era stato costretto a chiudere i battenti e cessare l’attività commerciale che gestiva ad Abbazia in corso Vittorio Emanuele n. 23, perché inopinatamente, come abbiamo accennato poc’anzi, da un giorno all’altro, lui e la sua famiglia in quanto ebrei erano diventati apolidi.

Difatti, poco prima dell’entrata in guerra dell’Italia al fianco dei paesi dell’Asse, in virtù di un apposito telegramma ministeriale n. 442/38954 che recava la data del 1° giugno 1940, emanato a tutti i prefetti del Regno dal ministro dell’Interno Guido Buffarini Guidi, scattarono i primi sistematici arresti e il trasferimento nei campi e nelle località d’internamento di tutte quelle persone ritenute pericolose. L’8 giugno successivo la circolare telegrafica n. 442/12267 stabiliva nei minimi particolari le «prescrizioni per i campi di concentramento e le località di confino» dove sarebbero stati trasferiti gli ebrei. Di conseguenza, come annota lo stesso funzionario della Questura di Fiume:

il giorno 6 febbraio 1941 (Gelles) venne chiamato nel gabinetto (del questore) di Fiume ed invitato senza motivazione e sotto pena di venire internato in caso di inadempienza a lasciare Abbazia e la Provincia entro 10 giorni. In ottemperanza a tale verbale diffida si è recato a Treviso ove risiede tuttora. Il Gelles prima di tale provvedimento e cioè il 18 giugno 1940 assieme a tutti gli ebrei apolidi della provincia, venne rilasciato per comprovati e riconosciuti motivi di salute (diabete, asma).
Inoltre il 1° agosto 1941 a tutti i commercianti ebrei di Abbazia e così pure al Gelles venne intimato la liquidazione del proprio negozio e la diffida di abbandonare Abbazia e la provincia entro 10 giorni, quest’ultimo provvedimento venne revocato ed il Gelles ebbe espressamente il permesso verbale di rimanere ad Abbazia, dove ha la famiglia e la propria casa.
In contraddizione dunque a tale permesso di pochi mesi prima e senza che da parte sua fossero intervenuti altri motivi, il Gelles è stato costretto ad abbandonare Abbazia» dal perfido Questore Genovese con l’intimazione, in caso di inadempienza, di essere internato.

Tuttavia, considerate le precarie condizioni di salute e l’età avanzata del soggetto che, tra l’altro, come si legge nel suo esposto inoltrato al Ministero dell’Interno il 26 marzo 1941, aveva «continuamente bisogno di assistenza e di cure», così scriveva il giovane poliziotto irpino il 18 marzo 1941 a Mons. Dell’Acqua:

vi prego di scusarmi se mi prendo la libertà di indirizzarmi a Voi, pur senza avere l’onore di conoscerVi. Mi sento in ciò incoraggiato dalle ottime cose, che di Voi mi ha scritte mio zio, Monsignor Palatucci, di cui mi fo pregio allegare una lettera di presentazione, che non mi è purtroppo possibile rimetterVi di persona. Vi prego, dunque, Eccellenza, di voler ascoltare con benevolenza la Signora Gelles, latrice della presente, che vi esporrà un caso veramente degno del Vostro autorevole interessamento.

Lettera di Giovanni Palatucci a Mons. Angelo Dell’Acqua per l’ebreo Maurizio Gelles, 18 marzo 1941.

A quel punto la diplomazia vaticana parallela subito entrò in funzione ed il primo passo fu quello di sottoporre la delicata questione al gesuita padre Tacchi Venturi, esortandolo ad esercitare la sua proverbiale moral suasion nei confronti delle autorità fasciste «per (far) ottenere (a Gelles) il permesso di ritornare presso la sua famiglia in Abbazia, da cui fu costretto ad allontanarsi», sebbene la questione si presentava alquanto complicata. Tuttavia, anche stavolta la risposta del gesuita non si fece attendere, tant’è che il 24 aprile successivo, si affrettò a rassicurare il segretario di Stato Maglione, facendogli sapere che:

Sua Eccellenza Senise, Capo della Polizia, mi scriveva ieri di avere già interessata la Prefettura di Fiume “perché esaminasse la possibilità di accogliere la domanda” riservandosi nello stesso tempo di darmi ulteriori comunicazioni appena sarà possibile. Io però avendo la sorte di conoscere il Prefetto di Fiume, dal quale ho avuto anche recenti prove di benevolenza, sin dal 12 di questo mese gli scrissi pregandolo di favorire col suo parere il ritorno del Gelles. Spero quindi – concludeva – che non vorrà opporsi a quanto gli viene richiesto per questo buon discendente d’Abramo.

Lettera di P. Tacchi Venturi al Card. Maglione, 24 aprile 1941.

Purtroppo, le speranze delusero le aspettative, in quanto il placet dal famigerato prefetto Testa non giunse così come ci si auspicava, a causa di «ulteriori accertamenti (che) hanno confermato la necessità di mantenere, almeno per il momento, il provvedimento adottato nei suoi confronti». Pertanto, il 19 luglio, con profondo rammarico, il Card. Maglione dovette informare Mons. Palatucci sottolineando che: «i passi compiuti, in proposito, non hanno avuto, purtroppo, l’esito sperato». A quel punto Gelles fu costretto a restare a Treviso almeno fino al 31 maggio 1943, dopodiché, alla fine del conflitto, per la precisione il 10 marzo 1948, dopo aver ottenuto un visto d’immigrazione, salpò dal porto di Genova a bordo del piroscafo “Nea Hellas” per recarsi a New York dove, fin dal 1940, risiedeva il figlio Ernesto con la sua famiglia. 

Sua moglie Cecilia Oser, invece, per sfuggire alle imminenti deportazioni fu costretta, suo malgrado, ad abbandonare precipitosamente Abbazia nella speranza di potersi rifugiare in Svizzera. Purtroppo, non riuscirà a varcare il confine elvetico come altri suoi correligionari perché fu acciuffata dai militi fascisti e reclusa nel campo di transito di Fossoli prima di essere deportata il 5 aprile 1944 ad Auschwitz dove, purtroppo, perse la vita nel luglio successivo. Anche la figlia Alice, che allora aveva appena compiuto ventinove anni, cadde nelle grinfie dei fascisti il 2 marzo di quello stesso anno a Maccagno e, dopo essere stata detenuta nel carcere di Varese, Como e Milano, fu trasferita a Fossoli, da dove il 16 maggio successivo, a bordo del vagone piombato n. 10, fu deportata nel campo di sterminio di Auschwitz da dove, purtroppo, non farà più ritorno perché si spense a Bergen Belsen nel marzo del 1945. L’altro figlio venticinquenne, Roberto Gelles, a quanto ci risulta riuscì a salvarsi stabilendosi a Vienna al termine delle ostilità.

Il 29 marzo 1941, invece, il commissario Palatucci scrisse un’altra lettera a Mons. Dell’Acqua, stavolta a beneficio dell’amica fiumana di origine ebraica Anna Herskovits, nel tentativo di farle ottenere un visto per l’espatrio negli Stati Uniti. La dottoressa Herskovits infatti, dopo aver conseguito la laurea in medicina presso l’Università di Bologna, aveva ottenuto l’abilitazione all’insegnamento in Scienze naturali chimica e geografia.

Rev.mo Monsignore, – scriveva il responsabile dell’Ufficio stranieri della Questura di Fiume – recentemente, incoraggiato da una lettera di presentazione di mio zio, Mons. Palatucci, mi son preso la libertà di segnalare alla Vostra bontà il caso di una Signora (per l’appunto Cecilia Oser, moglie di Maurizio Gelles). Ora oso nuovamente indirizzarmi a Voi, per venire in aiuto della mia amica, Signorina Herskovits.
La Signorina è in procinto di partire per gli U.S.A. ma incontra difficoltà per la concessione del visto consolare portoghese. Della cosa si è già interessata la benemerita Opera S. Raffaele, che, a mezzo del Rev. P. Turowski, aveva, qualche settimana fa, fatto conoscere che il visto era già stato accordato dalle competenti Autorità portoghesi. Successivamente, è benevolmente intervenuta anche S.E. Mons. Camozzo, Vescovo di Fiume, che ha avuto la bontà di voler caldeggiare la pratica anche presso V.E. con la lettera, che mi fo pregio unire.
Poiché, però, a tutt’oggi il visto non è stato concesso, mentre quello americano è di imminente scadenza (6-4 p.v.), la Signorina ha particolare interesse di ottenere il rilascio entro il 3 corrente al più tardi. Diversamente, si troverebbe nella necessità di ripetere le lunghe pratiche, le cui difficoltà sono note all’E.V., per ottenere la rinnovazione del visto americano, con il rischio di non conseguire lo scopo, in dipendenza dell’attuale stato di emergenza.
La specialissima situazione della mia amica – concludeva fiducioso – mi spinge a chiedere per lei l’autorevole Vostro interessamento.

Lettera di Giovanni Palatucci a Mons. Angelo Dell’Acqua per l’amica dottoressa ebrea Anna Herskovits, 29 marzo 1941.

Del resto, come rivelerà negli anni successivi il prete pallottino don Giancarlo Centioni – che nel 1942 fu inviato a svolgere le sue funzioni di cappellano militare proprio presso i reparti italiani dislocati in Croazia – e in quel periodo lavorava a stretto contatto con la rete di assistenza clandestina denominata St. Raphaels-Verein (Opera S. Raffaele) – un’organizzazione cattolica sorta in Germania nel lontano 1871 – diretta a Roma da p. Anton Weber in sinergia con la Segreteria di Stato di Pio XII, per aiutare gli ebrei a sfuggire alle persecuzioni naziste:

contando sul prevedibile appoggio della Polizia italiana, avrei potuto essere di aiuto ai perseguitati. Prospettiva, quest’ultima, in realtà avveratasi, e ciò anche grazie alle modalità di soccorso predisposte dalla S. Sede e dagli Enti Ecclesiastici. […] Mi consta che il P. Weber riceveva nel suo ufficio tanti ebrei e consegnava loro il passaporto Vaticano della C.R.I. con un tipo di salvacondotto, ricevuto da una personalità del Ministero degli Interni, dal dott. Pennetta e da altri, questi ebrei potevano raggiungere la Francia, la Spagna e il Portogallo. A Lisbona nell’ufficio della Raphael’s Verein c’era il Padre polacco (Wojciech) Turowski S.A.C. che dava loro ospitalità e possibilità di andare in America o altrove.

Come sottolineava lo stesso Palatucci nella lettera inviata a Monsignor Dell’Acqua, per questo caso si era adoperato attivamente anche il vescovo di Fiume Mons. Ugo Camozzo che, il 28 marzo di quello stesso anno, faceva notare al minutante della Segreteria di Stato che aveva: «già chiesto dietro suggerimento di P. Weber il visto di transito alla Nunziatura a Madrid» per la dottoressa Herskovits. Difatti, il 2 aprile, il presule fiumano aveva allacciato contatti perfino con l’ambasciatore straordinario e plenipotenziario del Portogallo presso la Santa Sede Carneiro Pacheco, per il rilascio del “visto di transito” per la penisola iberica.

Lettera del vescovo di Fiume Mons. Ugo Camozzo a Mons. Dell’Acqua, 28 marzo 1941

Fu così che Anna Herskovits riuscì ad avere il passaporto rosso riservato agli apolidi per l’espatrio e trasferirsi a Nutley nella contea di Essex del New Jersey, dove ottenne finanche la naturalizzazione il 30 luglio 1943 aggiungendo al suo cognome quello di “Ercoli” come, del resto, aveva già fatto il fratello Nicolò.

Quanto andiamo dicendo trova conferma anche nella testimonianza rilasciata anni addietro dalla sorella della giovane ebrea fiumana, Elsa Herskovits Blasich, la quale dichiarò che tutto ciò fu reso possibile grazie all’intervento del commissario Palatucci.

Una persona degnissima. Aveva fama di galantuomo. Era molto umano, ha cercato di aiutare chiunque avesse bisogno o che avesse contatto con lui. (…) Ho conosciuto il dott. Giovanni Palatucci in casa dei miei genitori a Fiume nel ’38; era buon amico di mia sorella Anna. La disponibilità del commissario Palatucci era nota, ha dato tutto il possibile aiuto agli ebrei fiumani ed in seguito anche a quelli jugoslavi riusciti a riparare in Italia, sfuggendo alla morte. Mia sorella Anna ha potuto emigrare nel ’42 solo perché aiutata dal dott. Palatucci ad ottenere il passaporto “rosso” riservato agli apolidi. Mio padre Samuel e mia madre Laura Stark nel settembre ’43 avvertiti tempestivamente da Palatucci che i rastrellamenti dei tedeschi erano già in atto poterono salvarsi. Tutte queste cose ed altre illustrano la figura di Giovanni Palatucci, uomo straordinario, di nobili sentimenti, grande umanità, coraggio ed onestà.

Come ricordava anche il brigadiere Americo Cucciniello, suo fedele braccio destro,

quando si trattava di risolvere problemi di famiglie ebree che provenivano dai territori occupati dai tedeschi, alcune delle quali chiedevano personalmente a lui di interessarsi per favorire il transito attraverso l’Italia e la Spagna per raggiungere l’America del Sud.

Perfino la cugina Agata Herskovits Bauer (detta Goti), che all’epoca abitava con la famiglia in un appartamento al secondo piano in via Carlo Goldoni n. 1, alcuni anni fa ricordava sul filo della memoria che:

a Fiume c’era un commissario di Pubblica Sicurezza della Questura che si è rivelato un grande amico degli ebrei, si chiamava Giovanni Palatucci, il quale ha cercato di aiutare, di soccorrere e di dare informazioni a tutti quelli a cui poteva. (…). Egli stesso, tramite degli informatori, cercava di far sapere che il giorno dopo, in una certa zona della città, ci sarebbero state le retate notturne oppure i prelievi delle famiglie dalle case. (A noi non lo fece sapere personalmente ma incaricò) qualcuno che poi ce l’ha detto. Io precedentemente sono stata da lui per chiedergli un permesso speciale. Lui aveva delle persone di fiducia che incaricava di dare queste informazioni, magari alla comunità o a qualcuno impiegato della Comunità che provvedeva ad avvertire.

Testimonianza di Agata Herskovits Bauer (detta Goti)
Altra testimonianza di Agata Herskovits Bauer (detta Goti)

Del resto, come si evince chiaramente compulsando questi 170 fascicoli sugli «Ebrei» della sezione per i Rapporti con gli Stati della Segreteria di Stato, non furono soltanto questi due i casi di cui si occupò l’audace presule di Campagna per agevolare le loro pratiche, ma tante altre come quella dell’ebreo polacco Giuseppe Ehrman che, il 10 ottobre 1940, chiedeva «una raccomandazione per essere dichiarato “ariano” (per cui occorreva) un regolare documentato ricorso al Ministero dell’interno tramite la R. Prefettura competente»;  l’ebreo fiumano Rodolfo Grani, i fratelli ebrei tedeschi Kurt e Giovanni Lehmann, Enrico Kniebel, Walter Graetzer, lo studente di medicina originario di Bolechow Davide Lobmann (rectius Rubinstein), il dott. Augusto Silberstein  ed altri dodici internati i quali desideravano «essere riuniti con i loro familiari (…) dopo che (avevano) visto che già vari dei loro compagni che avevano affidato tale sorte alla S. Sede (erano) riusciti nell’intento». Senza contare il caso che vide protagonista un altro ebreo fiumano di origini ungheresi, tale Michele Laufer marito di Margherita Neumann che, grazie al contributo di un’altra persona di sua fiducia, l’amico e collega di vecchia data, il commissario Carmelo Mario Scarpa, il 5 aprile 1944, con l’appoggio del celebre frate francescano milanese P. Enrico Zucca, aiutò a varcare il confine elvetico. Difatti, proprio in quel periodo, la famiglia Neumann aveva allacciato una sincera amicizia con il giovane funzionario dell’Ufficio Stranieri della Questura di Fiume, al punto che anche la sorella Rozsi (o Rosa), grazie al tempestivo intervento di Palatucci, riuscì a sfuggire ai suoi aguzzini insieme al marito Rudolf Mandl. Questo particolare, del resto, sarà confermato anche dal commissario Battilomo il quale, nel corso della deposizione agli agenti dell’UDBA, dichiarò espressamente che il giovane poliziotto irpino «frequentava spesso la famiglia Neumann (… e) gli ebrei di Fiume lo rispettavano e lo stimavano, perché ha fatto molto per loro quando è iniziata la campagna antiebraica in Italia».

Il profilo di Palatucci che, dunque, anche da questi documenti emerge è quello di una persona di specchiata onestà, incorruttibile e sempre ben disposto ad aiutare chiunque era in pericolo, come del resto testimoniato anche dai suoi più stretti collaboratori e “protetti”. Tutto ciò mentre intorno a lui molti preferirono piegare il capo per convenienza, viltà, conformismo o per semplice acquiescenza.

– Giovanni Preziosi

Fondatore e Direttore di History Files Network

Giovanni Preziosi

La rete segreta di Palatucci

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© Giovanni Preziosi, 2024

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