Quella lunga estate del ’43: Avellino sotto il fuoco alleato

Il 14 settembre 1943 la città di Avellino divenne teatro di un massiccio bombardamento ad opera dell'aviazione alleata che, nell’intento di sbarrare la strada alle truppe germaniche in ritirata, sganciarono migliaia di ordigni sul centro cittadino.

di Giovanni Preziosi - Fondatore e Direttore di "History Files Network" 1.7k Visualizzazioni
18 Min Letti
Getting your Trinity Audio player ready...

I14 settembre 1943 la città di Avellino divenne, suo malgrado, teatro di un massiccio bombardamento ad opera dell’aviazione americana che, nell’intento di sbarrare la strada alle truppe germaniche in ritirata, sganciarono migliaia di ordigni sul principale tronco viario della città provocando, ovviamente, ingenti danni a cose e persone. Piazza del Popolo, la zona delle Poste, il primo ed il secondo tratto di via Due Principati che gravitavano sul ponte – rimasto, tuttavia, incredibilmente pressoché incolume – che conduceva a Salerno costituivano le due arterie principali lungo le quali il transito dei reparti motorizzati e corazzati tedeschi era molto frequente.

Vista dall’alto del bombardamento di Avellino

Pertanto l’intento degli alleati era proprio quello di sbaragliare le truppe naziste impedendo qualsiasi rifornimento alle linee nemiche che, dalle alture limitrofe alla Piana di Battipaglia e da diversi settori di quest’ultima, falcidiavano le fanterie americane appena sbarcate. Erano passati appena sei giorni dall’annuncio dell’armistizio, firmato però già il 3 settembre (a Cassibile, in Sicilia, dal generale Castellano), e la gente credeva erroneamente che la guerra fosse davvero finita. Si cercava di tornare alla normalità, alla vita di tutti i giorni; ma quello non fu un giorno “normale”.

Heinrich Gottfried Otto Richard von Vietinghoff (Magonza, 6 dicembre 1887 – Pfronten, 23 febbraio 1952)

Nel frattempo, nei dintorni di Summonte ed Ospedaletto – due piccoli centri alle falde della catena montuosa del Partenio – erano stati organizzati i centri di rifornimento per la X Armata tedesca, alla quale il generale Heinrich von Vietinghoff che aveva stabilito il quartier generale a Sant’Angelo dei Lombardi, affidò la difesa delle coste con il compito di impedire con ogni mezzo il congiungimento tra le truppe della V Armata americana e l’VIII Armata britannica che risaliva dalla Calabria. Il 14 settembre, dunque, rappresentò per Avellino il D-Day, il giorno fatale che segnò un’importantissima svolta nelle operazioni militari sul continente. Nel corso di questa giornata si verificarono ben 700 missioni da parte delle forze Anglo–Americane contro obiettivi esclusivamente militari, o considerati tali, e contro i depositi e le vie di rifornimento. Tuttavia, bisogna rilevare che in quel giorno le truppe tedesche non erano in ritirata – come sostenuto da alcuni commentatori – ma erano impegnate nello sforzo supremo del loro contrattacco, al quale soltanto l’afflusso di rinforzi e rifornimenti dalle retrovie poteva assicurare nuovo respiro.

Gli stormi delle trentasei fortezze volanti B 26 statunitensi, alle ore 10,55 del 14 settembre, sferrarono un efferato bombardamento sulla città della durata di circa quindici minuti, che riprese poi ad ondate successive, protraendosi per l’intera giornata, al termine della quale si registrarono ben otto incursioni aeree che, oltre a mietere numerose vittime innocenti, provocarono ingenti danni ai fabbricati ed alle altre strutture.

«Mentre io attravers(avo) Piazza della Libertà – scriveva il prof. Cannaviello, stilando un resoconto dettagliato di quei tragici avvenimenti –, dove la vita si svolge(va) con la consueta placida calma, un fulmineo tremendo crollo come per cannonate, fra un turbinio di proiettili e di rottami, scaravent(ò) persone e cose in ogni lato (…). Non uno strido di sirena, non un rombo di velivoli che ne annunziasse l’avanzata» (V. Cannaviello, Avellino e l’Irpinia nella tragedia del 1943 – 1944, Avellino 1954, p.30).

Alle 10,55 la Piazza del Mercato (l’attuale Piazza del Popolo) era gremita di gente intenta alle proprie attività, ma soprattutto alla ricerca del cibo necessario per tirare avanti in quel duro momento storico: all’improvviso il rombo dei motori delle trentasei fortezze volanti B 26 statunitensi, si fece avvertire. Troppo tardi. I velivoli scaricarono il loro carico di morte e tornarono alla base. Diverse furono le ondate di aerei che in quella giornata sganciarono sul capoluogo irpino tonnellate di bombe: in quattro ore si alternarono diverse squadriglie (per un totale di un centinaio di Mosquitos) che causarono circa 3.000 morti, una percentuale spaventosa contando la popolazione del tempo (in media morì un abitante su otto).

Duramente colpiti furono la Piazza del Mercato, il palazzo vescovile con l’adiacente Seminario, alcuni edifici in Piazza della Libertà, al Corso, al viale Platani,  una parte del carcere borbonico, decine di case e perfino alcune chiese; il tutto senza che gli aerei incontrassero una benché minima resistenza da parte tedesca. Nel capoluogo irpino e nelle zone immediatamente adiacenti non erano infatti presenti postazioni antiaeree o altre strutture militari di rilevante importanza (c’era la nota caserma Berardi, un centro di reclutamento, anch’essa duramente colpita, malgrado fosse priva di uomini e mezzi). Perché allora ebbe luogo questa carneficina?

La Piazza del Mercato appena falcidiata dalle bombe

L’ordine ai bombardieri venne impartito perché si voleva ostacolare la ritirata della divisione corazzata Hermann Goring, un’unità d’elitè dell’esercito germanico, in ritirata dalla Sicilia e diretta verso Cassino, a difesa della linea Gustav, sbarramento difensivo prescelto per la difesa della capitale. I tedeschi riuscirono però ad anticipare le mosse degli alleati così, al momento del bombardamento, il grosso della divisione era già transitato e rimaneva solo parte della retroguardia di passaggio ad Avellino. Fra gli obiettivi della missione anglo-americana vi erano anche ponti e vie di comunicazione (soprattutto l’Appia bis, come si chiamava allora e il Ponte della Ferriera, proprio dove erano già transitati i temuti Panzer) proprio con l’intento di fermare i tedeschi in ritirata e causare loro il maggior numero di danni possibile.

Le devastanti incursioni aeree da parte dei caccia-bombardieri americani proseguì, senza interruzione, anche nei giorni successivi: il 15, 17, 20 e 21. Nell’arco, dunque, di appena diciassette giorni si consumò questa immane tragedia, che si concluse grazie ad un provvidenziale temporale che si scatenò sulla città e nei paesi limitrofi, nella notte del 29 settembre. Il tributo di sangue che Avellino dovette pagare ad una guerra ignominiosa è tutto racchiuso nel catastrofico bilancio delle vittime e dei danni subiti:3.000 morti, centinaia di feriti, 7.953 vani distrutti o parzialmente lesionati – il 46, 65% del patrimonio edilizio esistente – 1.091 famiglie sinistrate per un totale di 5.535 persone. Queste macabre cifre assumono i contorni di una vera e propria ecatombe, se alle vittime ed alle devastazioni del capoluogo irpino vanno aggiunti i danni subiti dal resto della provincia: 153 ponti danneggiati, 212 strutture tra acquedotti, fognature, ospedali e 830 Km. di strade messe fuori uso, e così via.

Ma vediamo come descrive questo evento efferato il cronista del monastero benedettino di Montevergine nelle pagine del diario della comunità.

L’entrata degli Alleati ad Avellino

«Intanto nei paesi circostanti gruppi di tedeschi si spargevano per le case razziando tutto ciò che vi era di macchine, liquori e comestibili. Tale in grande la tristissima sorte di Avellino dopo il bombardamento, tali in minor proporzioni le sorti di Mercogliano, Ospedaletto e paesi vicini. Per amore della verità bisogna dire che non sono stati solo i tedeschi a razziare, ma principalmente i paesani: si sono formate in questo periodo vere squadre di ladri che con mezzi di fortuna svaligiano le case degli sfollati. Gli ufficiali dei Carabinieri disarmati dai tedeschi ritenendo infruttuosa la loro dimora sul posto di lavoro sono fuggiti, i marescialli e i carabinieri hanno imitato il loro esempio e così si é dato agio ai delinquenti di commettere ogni soperchieria senza il pericolo di essere puniti…Il giorno 20 si presentano a Loreto quattro tedeschi con l’intento di perquisizione: si affogano in quattro bicchieri di ottimo vino (!) e vanno via. Più tardi ne vengono altri e richiedono una latta di miele: gli si da loro con viso giulivo (!) e partono; viene ancora un altro gruppo e questi scambiano con i monaci le sigarette. Al Santuario, saputo il fatto, e temendo una perquisizione meno fortunata per noi , il Superiore raccoglie alcuni padri dei più giovani e durante quasi tutta la notte tra il 20 e il 21 fa suddividere tutte le nostre riserve in vari luoghi difficilissimi da scoprire, data anche la loro ottima mimetizzazione. (…). Al loro partire definitivamente essi hanno esclamato che in tutta Italia essi non avevano ricevuta accoglienza più cordiale. Bontà loro purché se ne vadano! E veramente partono. Poco dopo esser passati sul ponte di Ospedaletto lo fanno saltare con mina. Durante tutta la giornata precedente e questa stessa mattina saltano caseggiati e ponti :anche ad Ospedaletto sono saltate due case precedentemente minate e questo senza alcun fine bellico. La mattina che i tedeschi partono da Montevergine i colpi di artiglieria americana si fanno più vicini e si riversano nella conca Avellinese all’impazzata senza alcun obiettivo fisso. Tuttavia ora ci acorgiamo che veramente i tedeschi partono e si sganciano dalla nostra regione».

Soldati alleati nei pressi della Dogana di Avellino

Intanto, approfittando del caos che regnava in quei tragici momenti, si registrarono anche numerosi episodi deplorevoli, ai quali fecero da pendant gli atti di autentico eroismo compiuti da alcuni concittadini che, sprezzanti del pericolo, si adoperarono per mettere in salvo il maggior numero di feriti che giacevano abbandonati nelle case semidistrutte o ai margini delle vie cittadine. Questi ultimi furono dapprima trasportati all’ospedale civile – che nel frattempo aveva cessato di funzionare a causa dei bombardamenti e per la fuga ignominiosa del personale di servizio con a capo il primario dott. Paolucci –, dopodichè i feriti vennero trasferiti presso il Convento dei PP. Cappuccini dove, per opera dell’encomiabile P. Carmelo Giugliano – che dal 25 settembre 1940 era guardiano del convento francescano -, fu prontamente allestito un ospedale di emergenza diretto con maestria dal tenente medico dott. Domenico Laudicina. Successivamente il presidio ospedaliero fu collocato nei locali della attiguaScuola Agraria diretta dal preside prof. Lorenzo Ferrante. Nel corso di questi giorni tumultuosi Avellino si trasformò in un desolato palcoscenico dove la morte recitò il suo turpe monologo. Lo senario sconvolgente che si presentò all’indomani dei bombardamenti sotto gli occhi sgomenti degli avellinesi, era ovunque disastroso; difatti, oltre alle attività economiche, risultavano paralizzate anche la vita politica e sociale. Persino il tentativo rivelatosi successivamente alquanto velleitario di dar vita ad un’opposizione militante al regime, ad opera di alcuni audaci antifascisti avellinesi, svanì con l’incedere degli eventi.

Nel frattempo le autorità statali erano fuggite e al momento dell’ingresso delle truppe alleate, in maggioranza canadesi, c’era solo il vescovo ad accoglierli (scampato miracolosamente indenne al bombardamento malgrado si trovasse nel seminario fra le macerie). Ma tutto ciò avvenne qualche giorno dopo. I bombardamenti continuarono poi più a nord anche su Benevento, per quanto la regione fosse di importanza secondaria sia militarmente (le grandi ali dell’avanzata alleata verso Cassino e poi Roma procedevano infatti parallelamente alle coste e non all’interno, più montuoso e difficile da attraversare, nonché adatto a imboscate e sbarramenti) sia politicamente che economicamente, in quanto non vi erano grandi industrie, depositi, arterie importanti o altri fattori di rilievo. Lasciato in balia del fato, senza nessuna guida politica ed amministrativa e privo della tutela dell’ordine pubblico, il capoluogo irpino arrancava in un marasma generale, favorito anche dall’ignominiosa fuga da parte delle autorità civili e militari.

«I feriti – riferiva Guido Dorso – vennero abbandonati, i sepolti vivi sotto le macerie invoca(vano) soccorso, e la città rimase esposta per venticinque giorni ai ripetuti saccheggi della plebaglia e del contadiname dei paesi vicini, dei carcerati evasi e degli stessi custodi dell’ordine» (G. Dorso in Irpinia Libera, organo del Partito del F.L.N. irpino, n. 1, 1943.).

In merito a questa vicenda paradossale, il prof. Cannavielo scriveva con un certo disincanto:

«Delle principali Autorità il Prefetto Zanframundo, il Comandante dei RR. CarabinieriMartino, il Questore Vignali (…), alle ore 10 del 14 settembre si erano recati in provincia per motivi di servizio. Ne rientrarono poco dopo le ore 12 sotto l’imperversare di apparecchi bombardieri (…). Trovarono la città completamente deserta. Tentò nel suo ufficio il Prefetto in compagnia del Questore di telefonare alla Caserma dei Carabinieri, ai Vigili del Fuoco, agli agenti dell’UNPA, ma i telefoni erano interrotti e (sopraggiunta la) sera (…) non potendo contare su chicchessia, riparò a Summonte. Il Maggiore Martino corse alla sua Caserma, e sostituito alla divisa l’abito borghese, si allontanò per riapparire ai primi di ottobre. Il Vignalidalla Prefettura si diresse alla Questura, ma trovatala chiusa senza l’ombra di un funzionario o agente, che si erano messi alla ricerca dei loro familiari, e trovata chiusa anche la propria casa, si diede a rintracciare la moglie ed il figliuolo (…)». 

(V. Cannaviello, op.cit., pp. 64 – 65).

Dopo questo fatto ad Avellino tornò una relativa calma e si poterono così installare le ricostituite autorità italiane (del Regno del Sud), che lavoravano sotto la supervisione alleata. Il primo sindaco fu Francesco Amendola, parente dei deputati comunisti Giorgio e Giovanni, eletto dal restaurato consiglio comunale; ma vi fu anche un amministratore militare nella persona dell’italo-americano colonnello Poletti, la cui carica durò quasi tutto il tempo dell’occupazione (finita al momento della firma del trattato di pace nell’estate del 1945). Ovviamente la provincia di Avellino, come del resto tutta l’Italia meridionale e buona parte di quella centrale, era sotto la giurisdizione formale del Regno del Sud, anche se sostanzialmente erano gli alleati a farla da padroni. Si trattò comunque dell’unica vicenda bellica che vide pesantemente protagonista la città irpina.

Il calvario della popolazione avellinese, tuttavia, si protrasse fino al 1° ottobre, giorno in cui fecero il loro ingresso trionfale in città le prime camionette dell’esercito americano e gli ufficiali alleati presero possesso ufficialmente della Prefettura facendovi issare il vessillo a stelle e strisce. Si concludeva, così, un incubo e con esso l’angoscia per i bombardamenti aerei, che a prezzo di ingenti sacrifici avevano incrinato il fronte interno, seminando ovunque morte e distruzione, e messo in ginocchio la già precaria economia avellinese, lasciando con un palmo di naso tutta la popolazione, che per qualche istante aveva accarezzato l’idea di essere risparmiata dalla furia omicida di quelle letali deflagrazioni.

L’8 luglio 1959, l’allora Capo dello Stato il democristiano Giovanni Gronchi, conferirà alla Città di Avellino la Medaglia d’Oro al Valor Civile perché con «animo fierissimo, sopportò senza mai piegare, numerosi bombardamenti aerei che causavano la perdita della maggior parte del suo patrimonio edilizio e la morte di 3.000 cittadini. Tutta la popolazione si prodigò con generosità e amore encomiabili per cura dei feriti, degli orfani, dei senza tetto. Settembre 1943»

Successivamente, il 15 giugno 1967 il suo successore Giuseppe Saragat, si recò in Irpinia per rendere omaggio personalmente alle vittime dei bombardamenti, deponendo finanche una corona d’alloro sul monumento.

Tratta dal “Roma” del 19 settembre 1963

 

 
© Giovanni Preziosi, 2023
Tutti i diritti riservati. La riproduzione degli articoli pubblicati in questo Blog richiede il permesso espresso dell’Autore e la citazione della fonte.
Share This Article
di Giovanni Preziosi Fondatore e Direttore di "History Files Network"
Follow:
Giovanni Preziosi nasce 52 anni fa a Torre del Greco, in provincia di Napoli, da genitori irpini. Trascorre la sua infanzia ad Avellino prima di intraprendere gli studi universitari presso l’Università degli Studi di Salerno dove si laurea in Scienze Politiche discutendo una tesi in Storia Contemporanea. Nel corso di questi anni ha coltivato varie passioni, tra cui quella per il giornalismo, divenendo una delle firme più apprezzate delle pagine culturali di alcune prestigiose testate quali: “L’Osservatore Romano”, “Vatican Insider-La Stampa”, “Zenit”, “Il Popolo della Campania”, “Cronache Meridionali”. Ha recensito anche alcuni volumi per “La Civiltà Cattolica”. Inoltre, dal 2013, è anche condirettore della Rivista telematica di Storia, Pensiero e Cultura del Cristianesimo “Christianitas” e responsabile della sezione relativa all’età contemporanea. Recentemente ha fondato anche il sito di analisi ed approfondimento storico "The History Files”. Ha insegnato Storia Contemporanea al Master di II° livello in “Scienze della Cultura e della Religione” organizzato dal Dipartimento di Scienze della Formazione dell’Università degli Studi Roma Tre. Fin dalla sua laurea i suoi interessi scientifici si sono concentrati sui problemi socio-politici che hanno caratterizzato il secondo conflitto mondiale, con particolare riguardo a quel filone storiografico relativo all’opera di assistenza e ospitalità negli ambienti ecclesiastici ad opera di tanti religiosi e religiose a beneficio dei perseguitati di qualsiasi fede religiosa o colore politico. Ha compiuto, pertanto, importanti studi su tale argomento avviando una serie di ricerche i cui risultati sono confluiti nel volume “Sulle tracce dei fascisti in fuga. La vera storia degli uomini del duce durante i loro anni di clandestinità” (Walter Pellecchia Editore, 2006); “L’affaire Palatucci. “Giusto” o collaborazionista dei nazisti? Un dettagliato reportage tra storia e cronaca alla luce dei documenti e delle testimonianze dei sopravvissuti” (Edizioni Comitato Palatucci di Campagna, 2015), “Il rifugio segreto dei gerarchi: Storia e documenti delle reti per l'espatrio clandestino dei fascisti” (CreateSpace Independent Publishing Platform, 23 febbraio 2017) e “La rete segreta di Palatucci. Fatti, retroscena, testimonianze e documenti inediti che smentiscono l’accusa di collaborazionismo con i nazisti” (SECONDA EDIZIONE - Independent Publishing, maggio 2022) nonché in altri svariati articoli pubblicati su giornali di rilievo nazionale.

Solverwp- WordPress Theme and Plugin

Exit mobile version