Kappler era nato a Stoccarda il 23 settembre 1907 in una famiglia della classe media. Durante la sua infanzia fu testimone della prima guerra mondiale e divenne maggiorenne nella Repubblica di Weimar negli anni ’20. In seguito frequentò per quattro anni la scuola elementare e poi per altri quattro le superiori. Dopo i suoi studi ginnasiali si iscrisse alla facoltà di ingegneria che tuttavia abbandonò in seguito perché attratto dalla carriera nella Polizia scientifica. Successivamente frequentò un college tecnico ove trascorse sette semestri a studiare ingegneria elettrica. Nel 1929 era un elettricista certificato, che viveva ancora a Stoccarda.
Il 1° agosto del 1931, all’età di 23 anni, Kappler entrò a far parte ufficialmente del Partito Nazista con il numero 594,899 ed allo stesso tempo, divenne un membro della Sturmabteilung (SA) dove rimase dal 1° agosto 1931 al 1° dicembre 1932. Dopo aver lasciato la SA, Kappler fu accettato come potenziale candidato nella Schutzstaffel (SS), sottoponendosi a ben sei mesi di indottrinamento. Il suo giuramento nelle SS avvenne il 5 maggio 1933.
Verso la metà del 1935, Kappler fece domanda per il trasferimento a tempo pieno nelle SS e presentò una domanda per aderire alla Sicherheitspolizei, ovvero la Polizia di sicurezza o SiPo. Nel gennaio 1936 fu promosso al grado di SS-Scharfführer e assegnato al servizio presso la sede principale della Gestapo di Stoccarda. Durante l’anno successivo, Kappler iniziò ad essere notato dai suoi superiori e fu presentato al capo della Gestapo, Reinhard Heydrich, anche se alcune fonti sostengono che Kappler conoscesse Heydrich già da tempo.
Allo scoppio della seconda guerra mondiale, nel settembre del 1939, gli fu conferito il grado di SS-Hauptsturmführer, al di fuori dalla sede principale della Gestapo di Stoccarda. Dal 1939 al 1940, fu brevemente inviato in Polonia e partecipò a varie azioni dell’Einsatzgruppen prima di svolgere una ulteriore missione nella Gestapo in Belgio, dove fu inviato col compito preciso si sopprimere la resistenza. Nel 1942, dopo la pianificazione della “Soluzione finale”, in seguito alle direttive risultanti dalla Conferenza di Wannsee, con Reinard Heydrich, Adolf Eichmann, Erich Neumann e il giurista nazista, Roland Freisler, il 21 febbraio 1942, Kappler cominciò a coordinare le retate degli ebrei e le successive deportazioni nei campi di sterminio nell’Europa orientale.
A metà del 1941, in qualità di ufficiale delle SS, Kappler fu scelto come ufficiale di collegamento con il governo di Benito Mussolini e come consigliere per la sicurezza della polizia fascista. La sua nomina in Italia fu il risultato della sua esperienza di polizia di sicurezza, con importanti collegamenti con la leadership delle SS, nonché grazie alla sua conoscenza fluente della lingua italiana. Dopo l’armistizio tra l’Italia e le forze alleate, l’8 settembre 1943, i militari tedeschi occuparono Roma e Kappler ricevette l’ordine di servire come capo della polizia di sicurezza per tutte le unità delle SS dispiegate nella capitale italiana. Il 12 settembre fu promosso col grado di SS-Obersturmbannführer e ha rapidamente assunto le sue nuove funzioni che operano fuori dalla capitale italiana. La prima azione di Kappler a capo delle forze di sicurezza tedesche a Roma fu di aiutare a pianificare il salvataggio di Benito Mussolini da parte delle forze speciali delle SS.
Dopo la firma dell’armistizio dell’Italia con gli Alleati, l’8 settembre 1943, fu promosso tenente colonnello delle S.S. e nominato capo del servizio di sicurezza. Per la sua ferocia nel portare a temine gli incarichi che gli erano stati affidati dai propri superiori, nel luglio del 1948 gli fu inflitta la condanna all’ergastolo con l’imputazione del delitto previsto dagli art. 185, 2ª comma, e 211 c.p.m.g., e rinchiuso nel carcere militare di Gaeta, dove vi sarebbe rimasto per circa 30 anni.
Se non che, il 12 marzo del 1976, un apposito decreto emanato dall’allora ministro della difesa Arnaldo Forlani, gli permise il ricovero presso l’ospedale militare del Celio perché gravemente ammalato di tumore al colon, ordinando a tre carabinieri di sorvegliarlo costantemente.
Il 10 novembre 1976, a causa delle sue precarie condizioni di salute accertate dai medici militari, mediante un’Ordinanza dibattimentale del Tribunale Militare di Roma riunito in camera di consiglio presieduto dal Dott. Giuseppe Merletti, decreta l’immediata scarcerazione del condannato Herbert Kappler e la sottoposizione alla libertà vigilata. Ecco il testo integrale dell’Ordinanza:
Il Tribunale Militare Terrritoriale di Roma composto dai Signori:
Dott. Giuseppe Merletti Presidente
Gen.B. Aldo Testaverde Giudice relatore
Colonnello f. Francesco Loiacono Giudice relatore
Colonnello f. Francesco Rizzo Giudice relatore
Colonnello f. Antonino Gurreri Giudice relatore
riunito in camera di consiglio, ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
nel procedimento incidentale relativo all’istanza di liberazione condizionale diretta in data 4.4.1974 al Ministro della Difesa, a sensi degli articoli 176 c.p. 71 c.p.m.p. 33 segg. R.P. 9.9.1941 n.1023, (contenente disposizioni di coordinamento transitorie e di attuazione dei codici penali militari), da Herbert Kappler, nato il 23.9.1907 a Stoccarda (Rep.ca Federale di Germania) ten.colonnello, prigioniero di guerra, condannato con sentenza 20.7.1948 di questo Tribunale militare territoriale, divenuto irrevocabile il 25.10.1952, alla pena dell’ergastolo, per il reato militare di omicidio continuato commesso da militare nemico in danno di cittadini italiani (artt. 13 – 185 primo e secondo comma c.p.m.g. 575 – 577 n. 4 in relazione art. 61 n.4 e n.5, 8 c.p., 47 n.2 e 58 c.p.m.p.), ed alla pena di anni 15 di reclusione per il reato militare di requisizione arbitraria (art. 224 primo e secondo comma e 13 c.p.m.g.); in cumulo ergastolo con isolamento diurno per anni 4. Detenuto in espiazione di pena fino all’11.2.1976 presso il reclusorio militare di Gaeta e successivamente, fino al 14.3.1976 presso l’Ospedale militare di Roma, ivi restando ricoverato dalla stessa data quale ammesso, con decreto del Ministro della difesa, alla sospensione dell’esecuzione della pena per grave infermità fisica.
PREMESSO
la suddetta domanda, con unanime parere favorevole dell’apposita commissione degli stabilimenti militari di pena veniva trasmessa per il prescritto parere sull’ammissione della domanda stessa, e l’eventuale trasmissione al Ministro della difesa, competente a concedere la liberazione condizionale a sensi degli articoli 34 e 35 R.D. 9 settembre 1941 n.1023, al giudice militare di sorveglianza presso il Tribunale supremo militare, che sollevava questione di legittimità costituzionale dei suddetti articoli 34 e 35, in riferimento agli articoli 13, 24 secondo comma e 111 primo e secondo comma della Costituzione, sostenendo che, in conformità di quanto la Corte aveva già ritenuto in tema di liberazione condizionale di condannati per reati comuni, rispetto alla quale aveva dichiarato illegittimo il potere decisorio del Ministro di grazia e giustizia (sentenza 204 del 1974), anche per la liberazione condizionale dei condannati per reati militari doveva ritenersi illegittimo quello che le norme impugnate conferivano al “Ministro da cui dipendeva il militare condannato, al momento del commesso reato” e che nel caso era il Ministro della Difesa; e ciò per il motivo che anche qui vi era violazione degli articoli 13, 24 e 111 della Costituzione, perché la procedura amministrativa non consentiva, nonostante si vertesse in tema di libertà personale, né il contraddittorio, né l’impugnazione del provvedimento di rigetto dell’istanza. La Corte Costituzionale, con sentenza 192 del 14.7.1976 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale degli articoli 34 e 35 del r.d. 9 settembre 1941 n.1023, nella parte in cui attribuiscono la decisione sulla domanda di liberazione condizionale al Ministro da cui dipendeva il militare condannato al momento del commesso reato, anziché ad un organo giurisdizionale di adeguato livello. Ha affermato la Corte in particolare: – che la norma dell’articolo 176 del c.p., nel testo modificato della legge 25.11.1962 n.1634, che nel terzo comma ha esteso la concessione della liberazione condizionale al condannato all’ergastolo che, avendo tenuto, durante l’espiazione, un comportamento tale da far ritenere sicuro il suo ravvedimento, ed avendo risarcito, se possibile il danno, abbia effettivamente scontato almeno ventotto anni di pena, è applicabile anche al condannato all’ergastolo da parte di tribunali militari, in quanto l’articolo 22 secondo comma del codice penale militare di pace, classifica detta pena tra quelle “comuni”, e cioè disciplinate dalle leggi penali ordinarie, anche quando applicate da Tribunali militari, e l’articolo 71, secondo comma, stesso codice, stabilisce che la concessione, gli effetti e la revoca della liberazione condizionale sono regolati dalla legge penale comune; – che, avendo la liberazione condizionale, nel quadro della normativa costituzionale del settore fondata sull’art. 27, (Sent.204/74), assunto un peso e un valore più incisivo, in quanto l’istituto rappresenta ora in peculiare aspetto del trattamento penale, e il suo ambito di applicazione presuppone un obbligo tassativo del legislatore di tenere non solo presenti le finalità rieducative della pena, ma anche di predisporre tutti i mezzi idonei a realizzarle, e le forme atte a garantirle, il condannato ha diritto a che, verificandosi le condizioni poste dalla norma sostanziale, venga riesaminata la sua situazione, in ordine alla prosecuzione della esecuzione della pena, al fine di accertare se quella già scontata abbia o no assolto il suo fine rieducativo, e, quindi, se il suo ulteriore protrarsi sia o no giustificabile;- che, un simile riesame, implicando una disamina dei presupposti, con conseguenze potenzialmente ablative degli effetti di un giudicato non può essere deferito a nessun organo dell’esecutivo, ma va affidato a un organo giurisdizionale che sia di adeguato livello, (organo che per i condannati per reati comuni è ora, in base alla legge 12.2.1975 n.6, la Corte di appello); – che la componente relativa alle esigenze di tutela e di disciplina delle forze armate, allorché si inserisce nel quadro valutativo di un interesse che ha tutte le caratteristiche di un diritto soggettivo, potrà implicare che la decisione debba essere devoluta a un organo della giurisdizione militare, (una delle ragioni con le quali si giustifica l’esistenza stessa dei Tribunale militari è, invero, la peculiare idoneità di essi per l’apprezzamento dei valori specifici dell’ordinamento militare, tra i quali il coraggio, l’onore, lo spirito di coesione, la disciplina), anziché di quella ordinaria, ma non mai che possa essere commessa alla discrezionalità di un organo del potere esecutivo. A seguito della richiamata sentenza 192/76 della Corte Costituzionale il giudice militare di sorveglianza, con ordinanza 30.8.1976, ha dichiarato la propria incompetenza in ordine alla domanda di liberazione condizionale in questione, e trasmesso gli atti a questo Tribunale militare territoriale. Il Collegio ritiene che, in attesa di una legge che attui il comando della sentenza della Corte Costituzionale, (che, peraltro, ha chiaramente indicato come sia opportuno affidare la decisione a un organo della giurisdizione militare, -quindi non la Corte di appello -, di adeguato livello -quindi non il giudice militare di sorveglianza -), la competenza a provvedere sull’istanza di liberazione condizionale del Kappler, non può che appartenere a questo giudice dell’esecuzione.
Del resto, al giudice dell’esecuzione la legge riserva, in linea di massima, il potere di emanare i provvedimenti che incidono con efficacia costitutiva sul rapporto punitivo; e nella specie la sostanziale sostituzione della libertà vigilata alla pena detentiva residua o alla pena perpetua, con conseguente estinzione di quest’ultima, al termine del periodo di legge, utilmente decorso, attiene essenzialmente, al rapporto di esecuzione, anche perché presenta carattere afflittivo e di emenda, sia pure affievolito, e non già finalità tipiche di prevenzione o di vigilanza sull’esecuzione della pena principale detentiva che reclamerebbero, per converso la competenza del giudice di sorveglianza. L’istituto della liberazione condizionale disciplinato dall’articolo 176 c.p. – nel testo modificato dall’art. 2 della legge 25.11.1962 n.1634 – che la Corte Costituzionale ha ricordato – come non era dubbio – essere applicabile anche al condannato all’ergastolo da parte di Tribunali militari, e che consente l’effettivo reinserimento anche dell’ergastolano nel consorzio civile, ha, di recente, avuto nel nostro ordinamento, in aderenza alla normativa della Costituzione repubblicana, una netta evoluzione, con la giurisdizionalizzazione del provvedimento, (che, pertanto, sarà concesso non più in relazione a scelte discrezionali del potere politico, ma in base ad una decisione dell’autorità giudiziaria, con le garanzie proprie del procedimento giurisdizionale), ed il riconoscimento che l’interesse del condannato – verificandosi le condizioni poste dalla norma sostanziale – il riesame della sua situazione, in ordine alla prosecuzione della esecuzione della pena, al fine i accertare se quella già scontata abbia o no assolto il suo fine rieducativo, e quindi, se il suo ulteriore protrarsi sia o no giustificabile, “ha tutte le caratteristiche di un diritto soggettivo”. Consegue che, rispetto al condannato l’istituto della liberazione condizionale non ha più carattere di “beneficio”, (cioè d’interesse riconosciuto e tutelato dalla legge ma non costituente diritto soggettivo), che ne rendeva la concessione, sempre ed esclusivamente facoltativa, ancorché, nel caso concreto concorressero tutte le condizioni che si esigevano per la sua concedibilità. Le condizioni, che devono tutte sussistere, per il condannato all’ergastolo, ai sensi dell’articolo 176 (modif.L.25.11.1962 n.1634) c.p., per essere ammesso al beneficio della liberazione condizionale sono: a) l’avere effettivamente scontato almeno 28 anni di pena; b) l’avere adempiuto le obbligazioni civili derivanti dal reato, sempreché abbia la possibilità di provvedervi, chè, altrimenti, potrà dimostrare di trovarsi nella impossibilità di adempierle, senza subire alcun pregiudizio; c) l’avere, durante il tempo di esecuzione della pena, tenuto un comportamento tale da far ritenere sicuro il suo ravvedimento. Nella fattispecie la sussistenza della prima condizione è fuori discussione, avendo il Kappler, la cui detenzione, all’effetto della espiazione della pena, decorre, come stabilito da questo Tribunale militare, con ordinanza 31.1.1974, dal 4 aprile 1946, scontato, alla data del 12.3.1976, allorché il Ministro della Difesa ha disposto la sospensione dell’esecuzione della pena si sensi dell’articolo 147 prima parte n.2. c.p., per le condizioni di grave infermità fisica del condannato, poco meno di 30 anni di pena. La natura della seconda condizione ha riflessi oggettivi e soggettivi. Nel primo senso essa mira a rimuovere la condizione di antigiuridicità costituita dall’inadempimento, nel secondo si collega strettamente a quella del ravvedimento, “nel senso che…il mancato adempimento delle obbligazioni civili dimostra l’inconsistenza del ravvedimento”, valutazione negativa che però viene meno quando il condannato si trova nell’impossibilità di adempiere; al riguardo si ritiene che “per aversi impossibilità non occorra uno stato di miseria assoluto, ma basta che l’interessato non disponga di mezzi patrimoniali, che gli consentono, di eseguire il risarcimento, senza sensibile sacrificio per sé e per la propria famiglia” (Peyron-liberazione condizionale in Enc.Dir. Milano 1974 p.227, in linea con Cass. 12.5.1965, in Cass.Pen.Mass. annotato anno 1964, 75). Essendo i danni cagionati dal Kappler di entità tale da trascendere le capacità finanziarie di qualsiasi soggetto privato, egli che, oltretutto, secondo quanto risulta dalla certificazione in atti è personalmente in condizione di “nullatenenza”, non avrebbe potuto certo risarcirli. Del resto nessuna azione risulta intentata dalle parti lese a tal fine, ex art. 2043 c. civ.. C’è, comunque da osservare che, essendosi la condotta in discussione realizzata in tempo e nell’ambito della guerra, i Paesi coinvolti hanno preso atto delle conseguenze che ne sono derivate, cercando di ovviarle nel modo più razionale possibile. In particolare, tra l’Italia e la Repubblica Federale di Germania, è intervenuto un Accordo 2.6.1961, reso esecutivo con D.P.R. 14.4.1962 n.1263 (G.U. n.214 del 25.8.1962), il cui articoli 2 è così formulato “il Governo italiano dichiara che sono definite tutte le rivendicazioni e richieste della Rep.ca Italiana, o di persone fisiche o giuridiche italiane, ancora pendenti nei confronti della Rep.ca Federale di Germania o nei confronti di persone fisiche o giuridiche tedesche, purché derivanti da diritti o ragioni sorti nel periodo tra il 1.9.1939 e l’8.5.1945. In base a tale accordo potrebbe anche, al limite, sostenersi che l’obbligazione civile di esame si sia trasferito dal condannato alla Rep.ca Federale di Germania, che ne ha assunto la responsabilità patrimoniale, facendosi fronte. Rimane ora da esaminare se sussista anche il terzo e, fondamentale, requisito, ossia il “sicuro ravvedimento”. Oggetto del giudizio, in relazione a tale indagine deve essere, secondo la lettera della legge, ed il concorde insegnamento giurisprudenziale, – il comportamento tenuto dal condannato durante il tempo di esecuzione della pena, nelle sue varie manifestazioni concrete – accertate dagli Uffici cui è demandata l’attività di custodia e osservazione, o anche, se necessario, attraverso una attività informativa diretta dell’organo giudicante. Il Supremo Collegio ha anche, autorevolmente chiarito: – che “specifiche indicazioni possono trarsi al riguardo dai rapporti del detenuto con i propri familiari, con il personale carcerario, con i compagni di prigionia, e particolarmente significativi debbono ritenersi la volontà di reinserimento nella società, manifestata con l’attività di lavoro e di studio, l’interesse dimostrato per i valori spirituali e religiosi, le manifestazioni di altruismo e solidarietà sociale, l’interessamento nei confronti delle vittime dei reati commessi, il fattivo intendimento di ripararne le conseguenze dannose (Cass. Pen. Sez. I^ 20.12.1975 – Vecellatore); e – che “la gravità ed efferatezza del reato commesso, non essendo affatto incompatibili con la possibilità di redenzione del colpevole, (che anzi il nostro ordinamento costituzionale esalta il potenziale ed effettivo valore rieducativo della pena), non è di ostacolo alla concessione della liberazione condizionale” (Cass. Pen. Sez. I^ 20.1.1976 ric. P.M. in proc. c. Casula). Risulta da tutta la documentazione acquisita agli atti, e segnatamente dai rapporti informativi delle competenti Autorità del Reclusorio militare di Gaeta e dalle notizie fornite dall’ufficio del giudice militare di sorveglianza, per osservazione diretta, costante e periodica, che per oltre 30 anni la condotta del Kappler è stata esemplare per disciplina, impiego del tempo libero, rapporti col personale di custodia e col mondo esterno. Dopo un iniziale travaglio interiore, che lo ha portato a comprendere le aberrazioni degli ideali nazisti, di cui era stato tenace assertore e propugnatore, ad avere orrore dei nefandi delitti commessi in nome di tali ideali, e ad accettare come profondamente giusta e proporzionata alle sue colpe la pena perpetua dell’ergastolo inflittagli, ha improntato la sua condotta al desiderio di riscattarsi con una cosciente espiazione e farsi, se possibile, un lontano giorno, perdonare.
Si è convertito alla religione cattolica, divenendo fervente praticante. Ha continuato, nei limiti del consentito, gli studi scientifici nei quali è versato, essendo laureato in scienze naturali, ed intrapreso studi umanistici. Fin dall’anno 1960 ha iniziato ad occuparsi dei problemi dei bambini spastici, per i quali ha creato apparecchiature atte ad alleviarne le sofferenze ed agevolarne i movimenti, ricevendone attestazioni di gratitudine. Non si è mai interessato di politica. Nei limiti delle sue scarne risorse economiche ha compiuto ripetutamente gesti di solidarietà verso giovani militari detenuti nel reclusorio militare. Era legato da affetto intenso alla madre ed alla sorella, poi decedute, e, contratto matrimonio, impronta il rapporto con la moglie ad elevata spiritualità. Colpito di recente da un male che non perdona, – (vi è agli atti una relazione sanitaria, redatta il 16.9.1976, da una commissione (composta dal prof. dr. Giorgio Nava, dal prof. dr. Gianfranco Fegiz e dal ten. generale medico Salvatore Polistena), che ha diagnosticato “adenocarcinoma della giunzione retto-sigmoidea, in fase di estensione pelvica…”, con prognosi “infausta a breve termine”, e precisamente “quoad vitam, in assenza di intervento chirurgico, rifiutato dal paziente, valutata in qualche mese”) – il Kappler ha continuato a mantenersi sereno, sopportando il dolore con dignità, senza recriminazioni o atti di disperazione, fino a riaffermare allorché è stato ascoltato, in merito alla sua domanda di liberazione condizionale il 2.8.1976, dal giudice militare di sorveglianza presso l’Ospedale militare “Celio” di Roma, ove si trovava ricoverato, come attestato nel verbale, “in grave stato di prostrazione fisica”; “ho accettato il verdetto e, quindi, la pena, perché mi offriva e mi offre la possibilità di espiare coscientemente dato quel senso di colpa morale e religiosa che è profondamente radicato su me…mi rendevo perfettamente conto dell’orrore della rappresaglia per le vittime e per le loro famiglie, ma vorrei essere creduto, tale orrore invadeva anche me…in quel momento pensavo di non potermi esimere dagli ordini ricevuti, e desidero, comunque, aggiungere che su detta convinzione agiva, indubbiamente, in me la certezza che un mio rifiuto, a parte le conseguenze su di me, che non consideravo, avrebbe potuto provocare una rappresaglia ancora peggiore… Oggi posso dire, dopo tanti anni di pentimento sincero e profondo, che nella mia situazione, e pur nella situazione generale di guerra che invadeva l’Europa, quell’ordine non doveva essere eseguito da me, anche a costo della mia vita..Una volta uno psicologo che, evidentemente, aveva capito ciò che io soffrivo intimamente, ebbe a consigliarmi di cercare di dimenticare; ma io non voglio dimenticare, perché è proprio il dolore del ricordo, che alimenta il mio riscatto”. Ed il Kappler fu certamente ed in misura notevole condizionato, come assume, nel suo comportamento criminoso dall’appartenenza, quale funzionario di polizia, alla spietata organizzazione nazista delle SS, la cui disciplina rigidissima, ed i cui barbari metodi aveva profondamente assimilati, tanto vero che la sentenza di merito, come è chiaramente espresso nella sua parte motiva, non ha potuto escludere il dubbio che nell’eseguire la spietata repressione abbia agito, in relazione al numero di 320 vittime, con la coscienza e la volontà di obbedire ad un ordine legittimo, limitandone la penale responsabilità alle restanti 15 vittime, anche se poi nel dispositivo ha affermato la responsabilità in ordine a tutte le 335 vittime, e tale dispositivo è stato confermato dal Tribunale Supremo Militare (sent. 25.10.1952) che, in merito, ha affermato: “la parte della motivazione che riguarda il dubbio, che il P.M., in questa sede, ha severamente criticato, sostenendo l’oggettiva evidenza della criminosità dell’ordine, non ha riflesso alcuno sul dispositivo di condanna”. Chi si pente è giudice e punitore di sé; ma non si può giudicare e punire sé stesso, senza avere in orrore il reato commesso. E la lealtà e la incapacità di mentire e dissimulare acquisite dal Kappler nel corso della detenzione, sono state evidenziate da tutti coloro, (ufficiali del personale di custodia, cappellani militari, e giudice militare di sorveglianza), che lo hanno, per ragioni del loro ufficio, frequentato. Alla stregua delle esposte risultanze, reputa il Tribunale, che, nella fattispecie, il lungo periodo di detenzione scontato nel reclusorio militare, tanto più pesante perché in terra straniera, abbia finito, (avendo la pena assolto il suo fine rieducativo), col ridestare nel Kappler quello spiritodi umanità e socialità che le diverse condizioni precedenti avevano ottenebrato, provocandone quel pentimento e quel riscatto che consentono di ritenerne, condividendo il positivo parere espresso, in merito, dal giudice militare di sorveglianza, ormai “sicuro il ravvedimento”. Il Pubblico Ministero, pur non contestando la sussistenza delle tre, dette, condizioni richieste dall’articolo 176 c.p. per la concessione della liberazione condizionale, ha concluso per il rigetto dell’istanza del Kappler. Sostiene, in sostanza, il Pubblico Ministero: – che, avendo il provvedimento in questione carattere discrezionale (evidenziato dal “può” contenuto nell’art. 176 c.p.), l’interessato, pur nella sussistenza di tutti i presupposti di legge non può vantare un diritto soggettivo alla concessione del beneficio, ma ha solo il diritto ad ottenere che la sua domanda venga esaminata e che l’organo competente eserciti il relativo potere discrezionale, in senso concessivo o negativo, con provvedimento motivato; – che, pertanto, il giudice deve ricercare altri valori, (all’infuori di quelli indicati dall’articolo 176 c.p.), che dovranno determinarlo nell’uso di tale potere; nel caso di specie, trattandosi di reati militari di guerra, quelli propri dell’organizzazione militare, (ossia il coraggio, l’onore, lo spirito di coesione, la disciplina, espressamente ricordati dalla stessa Corte Costituzionale); – che, per le modalità di preparazione ed esecuzione della strage delle Cave Ardeatine, si è verificata, nei confronti del Kappler, una compromissione tale dell’onore militare, da imporre la negazione del beneficio; (anche se poi, altri elementi vengono indicati, quali l’obbedienza agli ordini dei superiori militari, la disciplina particolarmente rigida vigente nei reparti SS, il senso di cameratismo e solidarietà per i commilitoni nell’attentato di via Rasella, di cui la strage costituì immediata reazione che, in uno con la grave ed incurabile malattia, potrebbero essere, invece, al condannato favorevoli).
Tale tesi del P.M. non può essere condivisa. Si è già, innanzi, chiarito come l’istituto della liberazione condizionale, dopo gli adeguamenti costituzionali, non è più di applicazione facoltativa, talché se si accerta l’esistenza di tutti i requisiti voluti dalla legge, “deve” la norma essere applicata, esplicandosi la discrezionalità del giudizio, alla stregua dei principi vigenti nel nostro ordinamento, soltanto nel libero apprezzamento degli elementi costitutivi della fattispecie. Non esiste, inoltre, una norma particolare che regoli la liberazione condizionale nei riguardi dei militari, disponendo l’articolo 71 c.p.m.p. che “la concessione, gli effetti e la revoca della liberazione condizionale sono regolati dalla legge penale comune” e dovendosi, pertanto, applicare, come ricordato dalla Corte Costituzionale l’articolo 176 c.p., nel testo modificato dalla legge 25.11.1962 n.1634, anche al condannato all’ergastolo da parte dei Tribunali militari. I requisiti che il detto articolo richiede, per l’ammissione alla liberazione condizionale, sono esclusivamente quelli innanzi indicati, talché altri e diversi requisiti, per i militari (che creerebbero, oltre tutto, una ingiustificata disparità di trattamento tra militare e civili), non potrebbe che essere arbitraria. I valori specifici dell’ordinamento militare, – che i Tribunali militari come, molto opportunamente ha ricordato la Corte Costituzionale nella sentenza 192/76, hanno la peculiare idoneità ad apprezzare – devono, certamente, essere tenuti in considerazione, ma non già con riferimento all’entità della lesione di tali valori, insita nei fatti sanzionati nella condanna, (che porterebbe, come corollario, ad ammettere, contrariamente al principio, pacificamente acquisito nel mondo giuridico, l’esistenza di crimini che non consentono, in nessun caso, l’emenda e il recupero sociale), bensì nell’ambito dell’accertamento del requisito del ravvedimento, desumibile, per il militare, anche da un comportamento, durante il tempo di esecuzione della pena, conforme ai valori tutti dell’ordinamento militare. Ed il comportamento del Kappler, nel periodo di esecuzione della pena, si è, innanzi, chiarito, è stato informato al rispetto ed al recupero di quei valori, a suo tempo, tanto gravemente infranti, che hanno poi finito col prevalere sull’originaria capacità a delinquere. Il compito del giudice è quello di applicare la legge, al di là ed al di sopra di contingenti valutazioni di carattere politico, e senza avere riguardo a sollecitazioni extraprocessuali, né a personali sentimenti, in rapporto alla decisione di un caso che, come quello presente, – col ricordo di una “strage” senza eguali, per la disumana crudeltà di attuazione, quale fu quella delle “Cave Ardeatine”, che determinò la condanna – suscita ancora, a distanza di oltre trentadue anni, profondo raccapriccio, esecrazione per gli autori, e commossa pietà per le vittime innocenti. Reputa il Tribunale che essendosi verificate, come innanzi dimostrato, tutte le condizioni poste dalla norma sostanziale, e non essendo, pertanto, giustificabile nei confronti del Kappler, (peraltro giunto, ormai, per il male inesorabile da cui è affetto quasi al limite della vita terrena), l’ulteriore protrarsi della pena, avendo quella già scontata assolto il suo fine rieducativo, deve lo stesso, in accoglimento della domanda presentata, essere ammesso alla liberazione condizionale.
Consegue la scarcerazione, ed a sensi dell’articolo 230 comma 2° c.p., la misura di sicurezza personale non detentiva della libertà vigilata.
P.Q.M.
Visti gli articoli 176 c.p. modificato dalla legge 25.11.1962 n.1634, 71 c.p.m.p. 628 e segg. c.p.p. 230 comma 2° c.p. e citati; sulle difformi conclusioni del P.M.
ORDINA
l’ammissione del condannato Herbert Kappler alla liberazione condizionale;
ORDINA
la scarcerazione del detto Herbert Kappler e la di lui sottoposizione alla libertà vigilata.
Tuttavia, il 9 dicembre successivo, in seguito ad insistenti pressioni della pubblica opinione e politiche, questo provvedimento fu annullato per cui Kappler fu costretto ad essere di nuovo ricoverato al terzo piano del Celio in un padiglione che ospitava il reparto chirurgia riservato agli ufficiali, sotto stretta sorveglianza dei carabinieri.
Qui di seguito il testo integrale del Decreto emesso dal Magistrato di Sorveglianza in data 9 dicembre 1976:
Tribunale Supremo Militare
Ufficio del Giudice Militare di sorveglianza
Il Giudice Militare di sorveglianza con il presente
DECRETO
nel procedimento di sicurezza relativo a
KAPPLER Herbert, nato il 23/9/1907 a Stoccarda, prigioniero di guerra, ammesso alla liberazione condizionale, in atto presso l’Ospedale militare principale “Celio” in Roma, osservato
IN FATTO E IN DIRITTO
Con ordinanza 10/11/1976, depositata il 13/11/1976, il Tribunale militare territoriale di Roma ha ammesso il nominato in oggetto alla liberazione condizionale. L’Ufficio del pubblico ministero militare trasmetteva il provvedimento a questo Giudice militare di sorveglianza “per quanto di competenza”, essendo stata disposta nei confronti del prigioniero di guerra la libertà vigilata; e, a richiesta, precisava con foglio del 19/11/1976 di aver interposto ricorso per annullamento davanti al Tribunale Supremo Militare avverso l’ordinanza e di aver inviato copia del provvedimento “ai sensi degli artt. 648 e segg. c.p.p.”, attinenti alla libertà vigilata.
Come da richiesta in via breve di questo Ufficio, il Comando degli Stabilimenti militari di pena di Gaeta con missiva 20/11/1976 trasmetteva fotocopia di ordine di scarcerazione del KAPPLER emesso il 13/3/1976 dalla Procura militare della Repubblica di Roma, essendo stata disposta a quel momento con decreto ministeriale la sospensione dell’esecuzione della pena a mente dell’art. 147, p.p., n. 2, c.p. per grave infermità fisica del condannato; nonché di ordine di scarcerazione in data 13/11/1976 del medesimo Ufficio, contestuale e conseguente al provvedimento relativo alla liberazione condizionale.
Questo Ufficio è altresì in possesso del fonogramma, a suo tempo ricevuto per conoscenza, col quale il Comando Posto Fisso Carabinieri presso l’Ospedale militare in epigrafe indicato assicurava, in data 14/3/1976, di aver dato esecuzione al primo dei due indicati ordini di scarcerazione.
Con la predetta missiva 20/11/1976 il Comando in Gaeta chiariva anche di non aver dato corso al secondo ordine di scarcerazione, per aver perduto di forza già da tempo il KAPPLER.
Sia il primo che il secondo dei menzionati ordini di scarcerazione sono atti dovuti, in quanto, ciascuno, esecuzione di provvedimenti autonomi e distinti e quindi regolarizzazione formale della
posizione del KAPPLER quale detenuto in espiazione di pena, ancorché l’efficacia liberatoria del secondo rivesta esclusivamente carattere giuridico.
Con nota del 2/12/1976 il citato Posto Fisso Carabinieri rispondendo a richiesta scritta di questo Ufficio, precisava ancora che nei confronti del KAPPLER, scarcerato alle ore 0,30 del 14/3/1976, dallo stesso momento veniva esercitata “vigilanza in quanto prigioniero di guerra”; e che dal 28/7/1976 la relativa disciplina veniva puntualizzata in apposito atto, di cui si inviava fotocopia e qui peraltro già acquisito per trasmissione diretta fattane dall’autorità amministrativa.
Nella presente fase processuale, equivalente, in pendenza di ricorso, a quella del giudizio, questo Giudice militare di sorveglianza, tenuto ad applicare, in materia di misure di sicurezza, a norma dell’art. 414 codice penale militare di pace, orme del codice di procedura penale, ha competenza – esclusa quella prevista dall’art. 635 c.p.p. per l’adozione, fuori del giudizio, dei provvedimenti di applicazione, modificazione, sostituzione o revoca delle misure di sicurezza – riferita all’esecuzione di alcune di esse in particolare, fra cui la libertà vigilata, quando la relativa applicazione sia stata disposta dall’organo giudicante.
Pur se la terminologia sia a volte imprecisa, tanto che le dizioni vengono talvolta confuse, in materia di misure di sicurezza il momento dell’applicazione va distinto da quello dell’esecuzione. In effetti, l’applicazione avviene con la sentenza di condanna, ovvero di proscioglimento nei casi previsti, ovvero con decreto in via provvisoria del giudice istruttore; e, fuori dei detti casi, quando il giudice di cognizione ometta di provvedere, con decreto del giudice di sorveglianza. Mentre l’esecuzione, e cioè la materiale sottoposizione del soggetto al provvedimento, è condizionata all’avveramento della situazione di fatto o giuridica che lo renda attuabile. Ed invero, le misure di sicurezza, quali che esse siano, e quindi detentive e non detentive e quelle patrimoniali, vengono normalmente eseguite in un momento diverso da quello in cui sono applicate, come nel caso, ad esempio, in cui debba previamente essere scontata una pena detentiva, ovvero in quello di irreperibilità del soggetto, e salva, invece, l’ipotesi di provvisoria esecuzione, per disposizione espressa del giudice.
L’applicazione della misura di sicurezza corrisponde quindi al momento dispositivo; l’esecuzione alla fase dell’attuazione concreta.
Nel caso di specie, l’applicazione della libertà vigilata è stata disposta nella fase del giudizio con l’ordinanza 10/11/1976 del Tribunale militare territoriale di Roma, a mente dell’art. 230, p.p., n. 2, codice penale, ricorrendo l’ipotesi di ammissione del condannato alla liberazione condizionale; e se ne chiede l’esecuzione a questo Ufficio, in forza dell’art. 648 codice di procedura penale.
Occorre esaminare, pertanto, se, ferma la disposizione – ed a parte i diversi riflessi che possa presentare eventualmente la questione in rapporto all’evoluzione processuale della fattispecie – essa sia concretamente attuabile, nell’ovvio rispetto della legalità.
Ritiene questo Giudice militare di sorveglianza che l’evenienza non sussista.
Per l’art. 76 codice penale militare di pace – con il che, tra l’altro, si conferma la distinzione prima enunciata – “durante il servizio alle armi, è sospesa la esecuzione delle misure di sicurezza ordinate in applicazione della legge penale comune o della legge penale militare”. La norma – la cui ratio consiste, palesemente, nell’impossibilità e nell’inopportunità di sovrapporre vincolo a vincolo, sia pure l’uno diverso dall’altro e ciascuno operante in una autonoma sfera di interessi – appare applicabile al KAPPLER , in quanto prigioniero di guerra.
Tale condizione del soggetto è indiscussa e non è mai stata revocata in dubbio. La condanna, irrogata con sentenza 20/7/1948 del Tribunale militare territoriale di Roma e confermata il 25/10/1952 dal Tribunale Supremo Militare, ha come presupposto, per quanto attiene alla competenza dell’autorità giudiziaria militare, nell’ambito dell’art. 103 della Costituzione, il riferimento alla convenzione di Ginevra 27/7/1929, ratificata e resa esecutiva in Italia con R.D. 23/10/1930, n.1615, all’epoca vigente, relativa ai prigionieri di guerra; “il riconoscimento internazionale di cui godono le forze armate nemiche” che “non poteva non portare a lasciare alla competenza dei tribunali militari in tempo di pace i reati commessi da militari stranieri in tempo di guerra; quel principio di diritto internazionale per cui gli appartenenti alle forze armate siano posti, per i reati commessi quando avevano tale qualità, in una situazione di parità”, si intende, con i militari italiani. D’altronde, l’esatta posizione del KAPPLER, nel passaggio da prigioniero di guerra degli Alleati a far tempo dal 10 maggio 1945, ancora non inquisito per crimini di guerra, a quella di prigioniero di guerra penalmente perseguito dall’autorità giudiziaria militare italiana con decorrenza dal 4 aprile 1946, è analiticamente ricostruita ed argomentata nell’ordinanza 31/1/1974 dello stesso Tribunale militare quale giudice dell’esecuzione e deve pertanto essere recepita, ad avviso di questo Giudice militare di sorveglianza, ad ogni effetto, ivi compresa la materia in esame.
Alla condizione giuridica predetta fa riscontro il trattamento usato al condannato in ogni tempo in armonia con la convenzione di Ginevra 8/12/49 relativa ai prigionieri di guerra, resa esecutiva in Italia con L. 27/10/51, n. 1739, della quale occorre qui richiamare l’art. 82 che li considera “sottoposti alle leggi, regolamenti e disposizioni generali vigenti nelle forze armate della Potenza detentrice”.
Da ultimo, ammesso alla liberazione condizionale, il KAPPLER, originariamente militare e tale rimasto in connessione alla prigionia di guerra e cioè in una condizione che non può essere obliterata né può venire eliminata se non a mente della citata convenzione, in effetti ha continuato, ancorché sollevato dall’espiazione penale, ad essere sottoposto alle relative prescrizioni, il cui contenuto consiste, essenzialmente, nella restrizione dell’esercizio della libertà personale.
Non sembra che sussista conflitto tra norme interne e norme internazionali e ciò indipendentemente dalla questione inerente all’adeguamento, automatico o meno, dell’un diritto all’altro, posto che la situazione che si verifica è quella stessa che si potrebbe ipotizzare per il militare italiano, nei cui confronti la esecuzione della misura di sicurezza fosse rinviata al momento in cui egli venisse a cessare dal relativo servizio. La differenza è piuttosto da ricercare nei modi, ovviamente, attuabili per la cessazione dello stato di prigioniero bellico rispetto a quelli per la conclusione del servizio militare da parte del cittadino italiano: ma è, tale questione, un riflesso della posizione del KAPPLER che non interessa la presente fase processuale, e che certamente sarebbe suscettibile, d’altronde, di soluzione nell’ambito della normativa interna ed internazionale vigente, in proposito tenuto conto della vasta gamma di strumenti esistenti ai fini dell’assistenza giuridica, della protezione legale e giudiziaria, della collaborazione giudiziaria e via dicendo tra i vari paesi.
Quanto alla sfera di competenza di questo Ufficio, la limitazione derivante al riguardo dalla pendenza del giudizio concerne, come si diceva, i provvedimenti dispositivi, ma non quelli esecutivi, che sono all’organo riservati in via esclusiva.
Pertanto, la misura di sicurezza applicata non può, allo stato, avere esecuzione. Ciò considerato,
letti gli artt. 639, 648 c.p.p., 414, 76 c.p.m.p.,
SOSPENDE
l’esecuzione della misura di sicurezza della libertà vigilata, applicata con ordinanza 10-13/11/1976 del Tribunale militare territoriale di Roma, nei confronti di Herbert KAPPLER, in quanto militare prigioniero di guerra.
Ad ogni modo, nella notte fra il 14 ed il 15 agosto 1977, l’ex ufficiale nazista tagliò la corda dal nosocomio grazie al provvidenziale aiuto fornitogli dalla moglie frau Annelise Wengler – la “pasionara” nazista invaghita di Walter Reder, il maggiore austriaco responsabile della strage di Marzabotto – che aveva sposato quando era ancora in carcere, il 19 aprile 1972.
All’inizio si disse che era stata la consorte a calarlo da una finestra alta 17 metri con delle corde e a metterlo, una volta all’esterno dell’ospedale, dentro una valigia samsonite, trascinandolo fino ad una 132 Fiat parcheggiata nel cortile. Subito dopo, era intanto passata da alcuni minuti l’una di notte, secondo le cronache coeve, la donna sarebbe tornata indietro per accertarsi che l’audace piano fosse andato in porto; così aprì la porta della stanza dove era ricoverato il marito e, uscendo con le sue scarpe in mano per non destare sospetti, fece segno con un dito ai tre carabinieri di guardia di far silenzio fingendo che il marito si era appena assopito. Quindi risalì in macchina e dopo alcuni metri si fermò all’uscita dell’ospedale nei pressi del piantone per consegnargli una lettera con la raccomandazione di farla pervenire nelle mani del frate portoghese p. Monteiro.
Poi, dopo aver percorso ancora pochi metri, i due fuggiaschi abbandonarono la Fiat 132 per intrufolarsi in una Opel Commodore bianca con targa tedesca FB-CT-66, a bordo della quale c’era ad attenderli il figlio di primo letto dell’ex ufficiale nazista, Ekerard Walther, in compagnia di altri due uomini. Dopo essersi assicurati che tutto era andato come previsto, immediatamente si diedero alla fuga diretti alla volta del Brennero, da dove poi avrebbero agevolmente raggiunto l’abitazione della moglie del gerarca nazista al n. 6 della Wilhelmstrasse di Soltau, nella Bassa Sassonia, dove visse fino alla sua morte che sopraggiunse nella notte fra l’8 e il 9 febbraio del 1978. Questa rocambolesca vicenda, degna dei migliori romanzi di spy-story, è stata descritta, con dovizia di particolari, dalla moglie di Kappler nel suo libro A. Kappler, Ti porterò a casa: il caso Kappler da via Rasella alla fuga da Roma, C. Ardini, Roma 1988.
A quel punto l’ex gerarca nazista poteva ormai ritenersi completamente al sicuro visto che l’articolo 16 paragrafo 2 della Costituzione tedesca vietava categoricamente l’estradizione in quanto cittadino tedesco. Immediatamente si formularono varie ipotesi in merito a tale vicenda; qualcuno, all’inizio, sostenne perfino che questa rocambolesca fuga si era consumata sotto l’abile regia dell’organizzazione Gehlen. Poi si disse che dietro questa rocambolesca vicenda c’era l’organizzazione Odessa, nota per aver favorito la fuga di vari nazisti nell’America Latina.
Tuttavia, negli anni successivi un’inchiesta giornalistica condotta dal settimanale “Diario”, rivelò che, stando alle dichiarazioni rilasciate dal generale Ambrogio Viviani, per quattro anni alla guida del controspionaggio italiano e nel 1977 addetto militare a Bonn, emergerebbe
«che Kappler fu barattato con un prestito con lo Stato tedesco […] Viviani – continua il redattore del settimanale “Diario” – ha rivelato a Pierangelo Maurizio del Giornale che Kappler venne nascosto all’isola Tiberina, portato prima a Ponte San Pietro, vicino a Bergamo, e poi a Desenzano sul Garda, in provincia di Brescia, dove fu preso in consegna dagli uomini del Bfv, il servizio segreto tedesco […]».
Inoltre, secondo la testimonianza fornita dal medico che visitò Kappler nella notte della fuga, Giovanni Pedroni:
«[l’ex aviatore repubblichino Adalberto] Titta andò a Roma e prelevò Kappler dall’Ospedale dell’Isola Tiberina… Il tutto era stato organizzato nell’ambito di un accordo segreto tra il governo italiano e quello tedesco consistente nello scambio tra il nazista e un grosso prestito in favore del governo italiano. Insomma c’era una ragione economica dietro ai motivi umanitari». (cfr. l’articolo di P. Cucchiarelli, La manina, la manona e l’Anello, in “Diario”, 12 dicembre 2003).
Del resto sulla stessa lunghezza d’onda era anche il presidente del Tribunale supremo, gen. Renzo Apollonio, il quale asserì che:
«senza certe colpevoli omissioni, senza alte complicità, in Italia e nella Germania di Bonn, l’ex colonnello delle SS non avrebbe potuto fuggire» (Cfr. S. Pardera, Il gen. Apollonio: ‘Gravi complicità’, in “l’Unità”, 16 agosto 1977).
© Giovanni Preziosi, 2022
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